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PARTE SECONDA: UNA DEMOCRAZIA OBSOLETA?
primo capitolo. 1918, vittoria della democrazia?
La vittoria del 1918 e la pace del 1919 sono celebrate come la vittoria del diritto sul
fatto e della democrazia sull’autocrazia. Ma uno sguardo più attento rende tale idea
problematica. Mentre la democrazia liberale, in Italia, è annichilita tra il 1922 e il
1925 da un movimento politico fortemente militarizzato di un nuovo tipo, le
democrazie dell’Europa occidentale sono percorse da violente tentazioni autoritarie
che si impongono talora per alcuni anni, come in Spagna, talora a piú lungo termine,
come in Portogallo e in Austria.
1. L’ordalia del 1918, i problemi degli anni Venti
I regimi autoritari sembrano meglio attrezzati per la guerra, quasi fossero impostati
per essa: un comando integrato, la pratica del segreto, la militarizzazione della
società propri a questo tipo di regime sembrano essere delle sicure premesse di
vittoria. Di fronte a ciò, la Repubblica o la monarchia parlamentare, con i loro dibattiti
pubblici, la loro cultura del dialogo e della concertazione, il loro principio
maggioritario, il loro attaccamento ai diritti dell’uomo, sembrano essere sfavorite. Di
fatto, durante la guerra, la pratica della democrazia parlamentare sembrano essere
sfavorite. Durante la guerra, la pratica della democrazia parlamentare subirà di
conseguenza un aggiornamento.
In Francia, in particolare, le relazioni fra potere esecutivo e potere legislativo
vengono riformate; il Parlamento acconsente che almeno in campo economico il
governo legiferi tramite decreto legge: un decreto legge è sí un decreto, dunque un
atto regolamentare preso dall’esecutivo che dovrebbe avere la validità e la forza
esecutiva di una legge, ma senza essere stato votato dal Parlamento. Il decreto
legge riappare negli anni Venti e Trenta sino a diventare un metodo comune di
governo.
Il decreto legge ispira i costituenti tedeschi poiché l’articolo 48 della Costituzione di
Weimar permette al presidente del Reich di legiferare in caso di urgenza senza
consultare il Parlamento. Allo stesso modo Mussolini si affretta a far votare dal
Parlamento un’abilitazione a governare per mezzo di decreti legge.
Sin dal 1914 la guerra è stata presentata come una guerra del diritto contro
l’ingiustizia, della civiltà contro la barbarie, della democrazia contro i regimi autoritari.
Innumerevoli sono i testi che provocano il carattere ordalico assegnato allo scontro
fra la Triplice alleanza e la Triplice intesa.
La vittoria consacra la democrazia: l’Impero russo non c’è più, lo zar è stato
rovesciato per lasciare il posto a una confusione che Parigi e Londra sperano di
veder volgere a favore di una democrazia liberale.Gli imperi centrali sono sconfitti: la
Germania è afflitta dal trattato di Versailles mentre l’Impero austro-ungarico molto
semplicemente si dissolve. Ovunque viene introdotto il suffragio universale maschile,
vengono adottate delle costituzioni, eletti dei parlamenti che sono chiamati
effettivamente a governare, dotati come sono di poteri costituzionali analoghi a quelli
del Parlamento francese.
La vittoria del principio democratico è visibile dal punto di vista sia interno sia
esterno.Il presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson è festeggiato come
un eroe dagli europei quando sbarca con la sua tuba e i suoi Quattordici punti.
Attento lettore di Kant, Wilson, come lui, è convinto che la diffusione del regime
repubblicano metterà fine alla guerra, perché chi dichiara la guerra, il popolo, è
anche quello che la fa e che ne sopporta i danni e le conseguenze, mentre un
autocrate può, senza soffrirne troppo, praticare la guerra a piacimento, come uno
sport elegante, ancora piú eccitante della caccia.
Nel 1919 viene creata la Società delle Nazioni, parlamento degli Stati, emiciclo di
dialogo e di concertazione, che dovrebbe evitare il ricorso allo scontro diretto. Ora le
democrazie liberali si fondano sugli stessi postulati del XIX secolo, quello che non
aveva conosciuto il grande massacro delle trincee e delle mortifere offensive.
Questi postulati, ottimisti e razionalisti, sono un tutt’uno: il primato della ragione e del
dialogo razionale, la ricerca del compromesso, la fondamentale buona volontà
dell’uomo.
Con la crisi del racconto razionalista e ottimista è dunque il terreno che viene a
mancare alla democrazia nazionale o internazionale: la speranza storica non è piú
ammissibile, il dialogo delle ragioni è stato soppiantato dal monologo della forza, la
ricerca del compromesso è scomparsa nella scia di coloro che hanno fatto sloggiare
il nemico dalle trincee.
La Società delle Nazioni, nata dal trattato di Versailles, appare ai tedeschi e agli
austriaci come la garante di una pace imposta che non è stata né discussa né
accettata e che viola i principi sui quali dovrebbe basarsi.
Come in politica interna, gli
anni Venti e la loro crescita economica permetteranno un ritorno dell’ottimismo nel
campo delle relazioni internazionali. Ma nel 1931 la Società delle Nazioni è
impotente di fronte all’invasione giapponese della Manciuria. Gli anni Trenta sono
catastrofici per la Società delle Nazioni, che assiste, senza riuscire a trovare un
accordo e senza poter conferire alcuna efficacia alle proprie sanzioni, all’aggressione
italiana in Etiopia e al durevole ritorno della guerra in Europa, nel momento in cui, nel
luglio del 1936, inizia la guerra civile spagnola.
Dal punto di vista interno come da quello esterno, il fenomeno generale della
brutalizzazione delle società europee sembra rendere futile e ridicola quella civiltà
dell’ascolto e quel rispetto dell’interlocutore su cui si fonda ogni pratica vitale della
democrazia.
Le condizioni economiche non sono migliori. Durante il periodo 1914-44, anche nel
momento migliore dei folli anni Venti, gli indici di produzione riescono al massimo a
uguagliare i livelli del 1913. Questa recessione è gravida di conseguenze e, dal
punto di vista simbolico, contribuisce ad accreditare l’idea di una decadenza
dell’Europa. Dovunque mancano i mezzi, le maggioranze si spaccano e l’ortodossia
liberale vigila.
L’impotenza dei democratici di fronte a un contesto recessivo porta con sé una forte
disaffezione nei confronti di regimi che non sanno far fronte all’impoverimento dei
loro cittadini.
La Grande Depressione successiva alla crisi americana del 1929 provoca una grave
disaffezione nei confronti delle democrazie che sembrano decisamente impreparate
in materia di economia politica. Esemplare il caso della Francia, il cui regime è, nel
solco della crisi, fortemente contestato. La Francia è colpita dalla recessione
mondiale a partire dal 1930.
S’innesca il ciclo depressivo, che provoca la caduta della produzione e il calo del
potere di acquisto in un circolo vizioso che gli Stati non riescono a spezzare in alcun
modo.
A partire dal XIX secolo, tutti concordano circa una concezione minimalista dello
Stato, che deve limitarsi a garantire l’ordine interno e la sicurezza delle frontiere.
Tuttavia, l’alto prezzo di sangue pagato per difendere la patria fra il 1914 e il 1918 ha
fatto nascere nuove attese verso uno Stato che ha chiesto molto ed è stato servito al
costo di inaudite sofferenze. Ora economisti e uomini politici restano ostinatamente
fedeli a una concezione delle finanze pubbliche in fondo assai privata: il bilancio
dello Stato deve essere gestito come quello di casa. Ogni deficit è essenzialmente
negativo, ogni eccedenza è benvenuta; l’equilibrio, in ogni caso, è un dogma
intangibile che i differenti esercizi devono rispettare scrupolosamente.
In Francia il presidente del consiglio Pierre Laval, nel 1935, diminuisce del 10% lo
stipendio dei funzionari per appianare il deficit pubblico crescente.
Gli anni 1919-39 sono segnati, nei regimi democratici, da una forte instabilità
ministeriale. In media un governo francese dura sei mesi, quando prima del 1914 ne
durava dieci. In Germania e in Austria, nel periodo 1919-33, la sopravvivenza media
di un governo è di otto mesi.
Il prestigio della democrazia e delle democrazie è dunque gravemente intaccato
dall’instabilità politica e dall’impotenza economica. È anche malamente supportato
da ciò che oggi si chiamerebbe un deficit d’immagine, un confronto sfavorevole con
altri tipi di regime che sono apparsi dopo la Grande Guerra e che sembrano
raccogliere con successo le sfide della modernità economica, sociale e culturale.
Mark Mazower, nel suo magistrale Le ombre dell’Europa, nota con ironia che la
democrazia è «incapace di conquistare le simpatie delle masse, riflesso di una
generazione passata i cui politici portavano finanziera e cappello a tubo»
La Grande Guerra ha messo fine a tutto ciò, sostituendo al completo dell’avvocato e
del professore radical-socialista l’uniforme paramilitare del veterano aggregato a
movimenti fascisti che impongono un’immagine di modernità, di giovinezza, di virilità
e di energia.
2. La crisi della democrazia italiana e l’insediamento del regime fascista
(1918-1926)
In Italia la democrazia liberale è in crisi. Il regime non gode del credito di una vittoria
senza macchia. La «vittoria mutilata» non rafforza il regime. Orlando cade nel giugno
del 1919. Il suo successore, Nitti, estende, in previsione del rinnovamento delle
assemblee, il diritto di voto: la riforma elettorale del 1919 instaura il suffragio
universale maschile, ma reintroduce il sistema proporzionale di lista, che comporta
un rischio di frammentazione della rappresentanza nazionale italiana. I più forti sono
il Partito socialista (32%) e il Partito popolare italiano. Il Psi adotta, sotto l’influenza
della rivoluzione russa, una retorica massimalista in contrasto con lo statuto sociale
dei suoi quadri, notabili municipali tentati da un radicalismo alla buona. Il Psi risolve
la contraddizione attraverso la scissione del congresso di Livorno che, nel gennaio
1921, fa nascere il Partito comunista italiano.
Il Partito popolare di don Luigi Sturzo si oppone alla tradizione laica e centralizzatrice
incarnata da Giolitti.
La classe politica si è scarsamente rinnovata e sembra poco adatta a rispondere alle
nuove sfide: in campo economico, il consenso liberale vieta ogni intervento dello
Stato per aiutare le imprese in difficoltà di riconversione; in campo politico, lo Stato
italiano dà prova di uno stupefacente liberalismo nei confronti delle agitazioni e delle
violenze fasciste. Il simbolo di questa inerzia del personale e delle idee è Giovann