Dunque, per il pensiero moderno – dualistico – si pone da un lato l’unità e dell’altro la
molteplicità, eliminando la differenza, che è qualcosa di totalmente altro (tra l’essere che è
e l’essere che non è c’è una irrisolvibile differenza): è la c.d. metafisica della continuità, che
non ammette “buchi”; per il pensiero classico – relazionale – si ha una totale inclusione della
differenza (gli enti sono diversi, ma non sono separati; il principio esso stesso è unità e
differenza): è la c.d. metafisica della discontinuità, che integra i “buchi”, i quali non sono
non-conoscenza, ma i diversi modi in cui la conoscenza si dà.
Si può definire il pensiero moderno come pensiero identitario, o egualitario, poiché cerca
l’essere come ciò che è comune a tutte le cose. Dunque l’essere è ciò che uniformemente è
comune in tutto.
Il pensiero classico invece valorizza la relazione tra gli enti, che sono differenti ma collegati
tra loro. Non si ha l’uniforme e l’identità, ma la collusione tra enti diversi.
Conseguenze di questi due tipi di pensiero si manifestano in tutti i campi, nell’orientamento:
- Logico -> la modernità assume come criterio d’ordine l’identità. L’ordine è, per la
modernità, l’azione della ragione che dà conto della complessità per raccoglierla in unità,
secondo una logica identitaria. La classicità spiega le cose sulla base del principio della
differenza, cioè tramite un processo di determinazione dell’ente fondato sulla relazione
– poiché il non-essere qualifica l’ente – dunque fondando la dialettica, ossia un tipo di
logica con a presupposto la pluralità.
- Giuridico -> le due prospettive, nel campo del diritto, comportano una diversa
concezione di ordine. L’ordine della modernità è l’ordinamento, ossia un modello di
art. 4 del codice
ordine statico, che non ammette buchi. Chiaro ed esemplare è l’
Napoleone, che assume che il giudice che rifiuti di giudicare sulla base dell’insufficienza
denegatio iuris
della legge sarà punibile di . Il sistema moderno è infatti il sistema della
codificazione, e il codice è la panacea di ogni soluzione giuridica: silenzio, oscurità e
insufficienza delle norme, cioè i buchi della legge, che non sono assolutamente
concepibili. Il modello della legge-codice è il modello della certezza dei rapporti giuridici,
per cui tutti i fatti sono inclusi in una norma.
Il modello della classicità è fondato su un sistema aperto, con al centro non più la norma
generale e astratta, ma il processo di determinazione della norma, in senso pienamente
dinamico. Conta il giudizio ben più che la norma: il tutto fondato sul processo, dinamico
al massimo, fulcro del fondamento dell’esperienza giuridica.
- Antropologico -> la modernità è l’epoca dell’individualismo, periodo nel quale l’uomo
si pensa come atomo. Nella classicità, invece, il soggetto è individuato con riferimento
alla polis, alla gens, alla comunità tutta. È egli stesso prodotto di convergenze, ossia
sangue, tradizioni, storie. Antropologicamente, il pensiero identitario è pensiero moderno
concentrato sull’individuo (lett. indivisibile, senza buchi), mentre nella classicità il
soggetto è sempre legato alla comunità, in senso sociale (anche con riferimento, se ci si
pensa, al nome gentilizio, come segno di appartenenza ad una società fondata non su
individui singoli ma su interazioni).
- Politico -> l’ideale politico della modernità è l’egualitarismo, per cui è necessario
rimuovere le differenze, al fine di poter raggiungere l’uguaglianza assoluta. Lo Stato ha
il compito di eliminare le differenze, ed è esso massima reificazione del modello
egualitario. Diverso è il modello della classicità, ove la polis è intessuta secondo l’armonia
dei corpi sociali, ossia un corpo complesso in cui ciascuna parte della società, indivisa
dalle altre, ha una determinata funzione. Il pensiero classico non è pensiero egualitario,
poiché non volto ad uniformare, ma a mettere assieme le molteplici differenze, di diverso
ordine.
- Conoscitivo -> l’implicazione della modernità è la matematizzazione del sapere. Non si
dà conoscenza che non sia quella ottenuta aggruppando o separando l’unità degli enti:
il sapere è ristretto ai confini di linguaggio convenzionale, univoco e quantitativo che è
la matematica. Il linguaggio tramite cui essa si esplica è il calcolo, che presuppone
l’esistenza della pluralità di enti identici: i numeri, cioè sempre la somma dell’uno (1),
dell’unico (2 non è 3, poiché 2 è 1+1, mentre 3 è 1+1+1). Nella prospettiva della
classicità, non è la matematica il modello di sapere privilegiato, ma vengono valorizzati
quei pensieri che riguardano la possibilità di relazione: retorica e dialettica sono le arti
che, anziché eliminarla, implicano e valorizzano la differenza.
Il percorso della modernità è, allora, segnato da una tendenza alla riduzione, alla
semplificazione all’identico, secondo una tensione continua all’ordinare (con definizione
dell’ordine fondato sull’identità). Dal punto di vista giuridico, tale tendenza fissa un ordine
sistematico, fondato dalle moderne costituzioni, secondo l’ordine gerarchico delle fonti
(paradossalmente non esaltante le differenze, ma in grado di eliminarle). La diversità degli
enti non è infatti caratteristica intrinseca degli enti stessi, ma essa appare in funzione del
principio unico su cui si fonda la gerarchia, ordine imposto da un principio esterno alla
disposizione stesso. Ciò significa che il criterio che sistema la gerarchia degli enti è qualcosa
di esterno, totalmente altro rispetto agli enti stessi, separato.
Il percorso della modernità è caratterizzato dalla sistematizzazione: dalle codificazioni ai più
recenti tentativi di algoritmizzare il ragionamento giuridico, secondo l’informatica giuridica.
Il capitolo conclude allora con una riflessione più prettamente giuridica: vale la pena
ricordare – dice Manzin – che esistono prospettive metodologiche che consentono di
abbandonare una prospettiva gerarchica, normocentrica, a favore di un modello centrato
sulla originalità del processo. Tra queste prospettive che valorizzano il pensiero classico
rispetto al pensiero moderno, cioè che valorizzano il momento del processo piuttosto che
quello della norma data, c’è anche quello della retorica forense, uno dei modelli alternativi
al sillogismo giudiziale, che considera centro di attenzione il processo, appunto. In esso le
parti perseguono un comune risultato: la verità processuale emerge dal confronto di
proposizioni, in un contesto controversiale, istituzionalizzato, ove le regole sono prefissate.
grammatica dialettica
La retorica forense privilegia l’uso della razionalità pratica, cioè , e
retorica , come nuovo strumentario del giurista che si sostituisca al pensiero matematico-
calcolante. L’apologia si conclude con l’apologia della razionalità logico-argomentativa,
dinamica, che si dischiude nel processo e che può essere ritrovata a prescindere dal modello
sistematico, totalmente estranea al pensiero calcolante. È una teoria che torna indietro,
ossia una teoria che torna rivedere le cose con prospettiva classica, non prettamente
moderno. Ciò significa anche un ritorno allo studio delle discipline del trivio e alla cultura
umanistica, piuttosto che alle scienze esatte.
3) Dennis Patterson
Questo capitolo è dedicato all’esame di un tema specifico, che è quello del rapporto tra
diritto e verità. Dennis Patterson è autore del testo Law and Truth, che muove dalla
cosa significa che una proposizione giuridica è vera?
domanda: L’autore fornisce la risposta
alla domanda in un percorso di critica costruttiva. Patterson dapprima critica ciascuna teoria
che si è soffermata sul rapporto diritto e verità, e poi, al termine di questa riflessione,
propone la sua versione di teoria della verità: il capitolo del professor Manzin ripropone la
nel
stessa linea. La conclusione cui giunge Patterson è che la verità va cercata diritto e
mediante il diritto: per lui la verità nel diritto non si misura per corrispondenza tra linguaggio
e realtà, ma è verità che va ricercata all’interno del diritto e con il diritto, in base agli usi
linguistici della prassi giuridica e in base alle regole della grammatica degli argomenti
giuridici. Valorizzare gli usi linguistici e riconoscere che esiste anche nell’ambito giuridico
una grammatica degli argomenti consente ai giuristi di ricercare la verità delle proposizioni
giuridiche.
La proposta di Patterson è una tesi di tipo argomentativo nel rapporto diritto-verità.
Patterson risolve la questione della verità nel diritto mediante l’argomentazione. Egli è
filosofo positivista, analitico. Nella traduzione di questo testo – affidata a Manzin, non
analitico – è emerso un forte punto di contatto: la ricerca della verità nel diritto è essenziale
nel diritto, e la ricerca implica uno studio logico-linguistico che riporti al centro dell’attenzione
la pratica del diritto. Tale aspetto unisce analitici e non analitici, Patterson e Manzin. In
questo testo Patterson non giunge al riconoscimento di una prospettiva metafisica, ma ciò
che unisce i due filosofi è la metodologia (il riconoscimento del metodo del giurista quale
quello di stampo argomentativo). corrispondenza
1. Patterson critica anzitutto le teorie per cui la verità del diritto è per .
Gli autori presi in considerazione ritengono che la verità nel diritto si misuri per
corrispondenza col reale, e che dunque tutto si basi su un esame di rapporto linguaggio-
realtà. Patterson nega che il linguaggio possa avere funzione rappresentanzionalistica, e
nega la visione della verità come corrispondenza tra parole e cose.
Secondo Patterson non è possibile limitarsi ad analizzare la verità del diritto in termini di
corrispondenza tra proposizione e fatto. La critica colpisce tutti quei filosofi che nella
Jurisprudence americana vengono ricollegati ai filoni del realismo e dell’anti-realismo.
Per i realisti la verità è possibile determinare la verità (
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