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La funzione culturale riconosciuta all’arte da Dessoir ci ricorda che l’opera è un
oggetto relazionale situato in un contesto determinato storicamente. A. Danto ha
allora sintetizzato questo approccio nella nozione di artworld: il mondo dell’arte
accoglie l’oggetto e ne determina l’artisticità e, in questo mondo, una teoria spiega
perché si dovrebbe ritenere artistico un oggetto, distinguendolo dalle altre cose che si
incontrano in quello stesso mondo. A seconda della teoria, intere classi di oggetti
prima giudicati non-artistici possono essere riconosciuti come artistici, e viceversa
(Es.: barattoli di Warhol).
Sviluppando le riflessioni di Danto, G. Dickie elabora una teoria istituzionale dell’arte e
artefatto di un certo genere creato per
approda a una definizione di opera come “
essere rappresentato a un pubblico del mondo dell’arte ”. Questa teoria istituzionale
esercita notevole attrazione, perché negli anni ’60 un gruppo di artisti si raccoglie
sotto l’etichetta di institutional critique: questi mettono a nudo il ruolo delle
istituzioni artistiche nel determinare il valore di un oggetto assurto a oggetto artistico.
Guerrilla Girls
Es.: poster del collettivo femminista (1989), che sottolinea come meno
del 5% degli artisti moderni del MOMA fossero donne, a fronte dell’85% di nudi
raffiguranti corpi femminili.
Origine:
Sia Fiedler che Heidegger si pongono il problema dell’origine dell’attività artistica e
dell’opera d’arte, ma non dobbiamo intendere questa origine come genesi storico-
cronologica, piuttosto come il fondamento che rinnova il senso dell’opera. La domanda
intorno alla genesi storica, tuttavia, ispira una delle direttrici fondamentali degli studi
di naturalizzazione dell’estetica: gli estetologi si chiedono perché Homo Sapiens abbia
6
sentito il bisogno di fare immagini, raccontare storie e comporre musica, sollevando
ancora una volta la domanda: a cosa serve l’arte? Qual è la sua utilità per
l’adattamento e la sopravvivenza della specie?
E. Dissanayake propone di intendere questo comportamento come un processo di
ritualizzazione che trasforma l’esperienza da ordinaria a straordinaria, individuando
l’urgenza estetica già a partire dalle interazioni madre-bambino. Inevitabilmente,
tuttavia, gli àmbiti che Fiedler e Dessor avevano cercato di distinguere (estetico,
artistico e bello) si riavvicinano nell’orientamento naturalistico, che quindi non si
concilia con l’impostazione istituzionale di Danto e Dickie, perché non solo gli animali,
ma anche i nostri antenati paleolitici non sapevano di fare arte.
Fine:
Se l’arte non è esistita da sempre, viene naturale pensare che potrebbe anche finire di
esistere (se non è già morta). Il problema viene identificato nella questione della
“morte dell’arte” nell’estetica hegeliana (anche se Hegel non impiega mai tale
espressione, bensì parla dell’arte come di “un passato”). Hegel verifica dall’avvento
del cristianesimo un progressivo distacco dell’esigenza di assoluto dalle apparenze
sensibili: l’arte ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito. Inoltre, la linea
inaugurata da Hegel, cioè quella che l’arte si dissolva nella filosofia, è quella più ricca
di effetti nella storia:
Nietzsche: riflette sulla morte della tragedia greca, a partire da Euripide,
determinata dall’invadenza dell’atteggiamento razionalistico della riflessione
socratica.
Heidegger: riconosce le affermazioni hegeliane intorno al carattere passato
dell’arte.
Danto: l’arte compie il proprio destino diventando filosofia, perché è essa a cui
l’arte mira.
3) Categorie Estetiche.
Che cosa ci spinge a definire un’esperienza tramite l’attribuzione di una qualità?
Quando lo facciamo, ci riferiamo a criteri oggettivi o soggettivi? I soggettivi rimangono
invariati o hanno una loro storia?
Estetica plurale:
L’esperienza estetica presenta delle sfaccettature che non sono descrivibili facendo
affidamento sulla sola categoria del bello, occorre definire con un predicato un aspetto
di ciò che abbiamo esperito. Locke distingueva qualità primarie e secondarie nelle
cose, ma in realtà non si tratta di proprietà misurabili dell’oggetto, bensì di valori che
noi stessi attribuiamo a partire dalla singolarità del nostro vissuto. In sostanza, ogni
volta che cerchiamo di definire qualitativamente l’esperienza vissuta nell’incontro con
un oggetto, produciamo categorie estetiche o applichiamo quelle già esistente. Le
categorie estetiche sono i predicati di cui si serve il giudizio di gusto. 7
Sullo
Fino alla fine de XVIII sec. domina il bello e la svolta arriva quando, nel saggio
studio della poesia greca, F. Schlegel riconosce due accezioni fondamentali della
bellezza: il bello in senso lato e il bello in senso stretto. Quest’ultimo è una delle
possibili declinazioni del primo, accanto al sublime e all’attraente. Il bello è
identificabile con la perfezione nella forma e, per la prima volta, viene trattato come
una categoria come le altre. Già Lessing aveva distinto il bello dal grazioso, perché
quest’ultimo si caratterizza in virtù del dinamismo e della spontaneità. La grazia è la
bellezza in movimento, quindi non è espressa da arti come la pittura e la scultura,
bensì da quelle incentrate sulla successione, in particolare la poesia (o, come afferma
P. Souriau, la danza).
Il bello tra oggettività e soggettività:
Rimane la questione relativa alla natura del bello: è oggettivo o soggettivo? Il
principale dissidio riguarda la sua stessa origine, ossia se questa sia da ricercarsi in
qualità intrinseche dell’oggetto, oppure nella soggettività del giudizio.
Oggettività del bello:
Nell’antichità greca si impone la prima concezione, tanto da plasmare il
paradigma del bello classico, identificato con la simmetria e la
proporzione, identificazione che da Pitagora passa ai romani, che la
estendono a ogni àmbito della conoscenza. Il canone, quindi, si basa
sull’identificazione tra il valore estetico e le qualità misurabili
dell’oggetto.
Il paradigma del bello, tuttavia, non è riducibile solo alle relazioni
numeriche: Platone riconduce piuttosto l’esperienza del bello a un
particolare incontro erotico, perché la bellezza è l’unica Idea a essere
percepibile: alla sua vista, l’anima immortale ricorda di averla
contemplata nell’Iperuranio prima di cadere nella prigione del corpo e,
presa dalla mania amorosa, non trova pace fino a quando non la rivede di
nuovo in se stessa, attraverso un percorso filosofico.
La stessa concezione ritorna in Plotino, che considera il bello come
l’espressione della supremazia della forma sulla materia. I canoni delle
proporzioni rimangono ancora legati a una concezione composita e
divisibile dell’armonia, che però non esaurisce il fenomeno della bellezza
(Es.: luce, stelle e oro appaiono belli pur non essendo composti).
L’integrazione tra elementi composti e non, nel Medioevo, raggiunge una
sintesi nella riflessione di Tommaso, che individua nel bello tre elementi
costitutivi: integrità della forma, proporzione o armonia, splendore
(claritas, legata alla manifestazione della bellezza come attributo
dell’essere).
Soggettività del bello:
Questa concezione ha tra i suoi antesignani i Sofisti, con l’idea di
“di tutte le cose è misura l’uomo”.
Protagora secondo cui
Questa linea soggettivistica emerge fortemente nel pensiero moderno a
partire dalla metafisica cartesiana, che sostiene che la bellezza non abbia
misure determinate, bensì sia derivante da una relazione tra il nostro
giudizio e l’oggetto. 8
Nel XVIII sec., quando l’estetica comincia a sistematizzarsi come
disciplina, l’approccio soggettivistico mette capo a una domanda
fondamentale: come evitare che il valore estetico cada nella totale
arbitrarietà? Questo è il problema ereditato da Kant, che se da un lato
riconosce la soggettività del bello, dall’altro ascrive all’apprezzamento
della bellezza la pretesa a una condivisione universale. Il sentimento del
bello, infatti, è libero da inquadramenti concettuali e da soddisfacimenti
individuali. Quel che Kant considera universale è la presenza in ogni
individuo di due facoltà: immaginazione e intelletto, coinvolte in un libero
gioco che fa sì che, quando viviamo il piacere soggettivo della bellezza, lo
facciamo come se esso indicasse una caratteristica intrinseca
dell’oggetto.
La lunga durata delle concezioni oggettiva e soggettiva del bello si estende ai giorni
nostri: da un lato i fenomeni della moda e della cosmetica ruotano attorno alla
proposta di un criterio oggettivo cui tutti devono conformarsi, dall’altro i social
network invitano a esprimere il consenso estetico soggettivo (Es.: meccanismo del
like).
Dal sublime al kitsch:
Il sublime è una categoria estetica fondata sul contrasto anziché sull’armonia: se la
bellezza si riconosce in relazione a un equilibrio (soggettivo od oggettivo), il sublime si
manifesta invece a partire da una tensione irrisolta tra il piacere e il dolore, la quiete e
l’angoscia, che si provano dinanzi a fenomeni che sembrano oltrepassare i limiti
dell’umana comprensione. Sul sublime
Il termine compare per la prima volta nel trattato (attribuito a un autore
del I sec. d. C.), ove è descritto come uno stile retorico elevato che conduce il pubblico
all’estasi tramite il pathos; ma è a partire dalla traduzione francese del trattato (1674)
da parte di N. Boileau che il sublime comincia a circolare nel dibattito estetologico.
Intorno alla metà del XVIII sec., E. Burke lo associa al senso del terribile e alla paura
della morte che si sprigionano davanti all’immensità dell’oggetto contemplato.
Tuttavia, la paura non basta per spiegare le dinamiche del sublime, anzi, occorre che
emerga anche un senso salvifico di piacere, un piacere peculiare (sempre analizzato
da Burke) che richiama il paradigma antico del “naufragio con spettatore”, delineato
De rerum natura:
da Lucrezio nel
Lucrezio descrive infatti il piacere provato da chi, mentre è al sicuro sulla
terraferma, osserva una nave in balìa del mare in tempesta: il sentimento si
manifesta questi è lieto di vedere da quali affanni è immune,
La tematica del sublime di Burke come “s