VENDETTA E AUTOTUTELA
In età storica è verosimile supportare che alle offese private fosse lecito reagire con una rivalsa
diretta, condotta personalmente dell’offeso per tramite di altri: una vendetta finalizzata alla
restituzione del male ricevuto attraverso la commissione di un atto parimenti nocivo.
La noxa rappresenta uno spiraglio che arriva fino a Giustiniano e che rappresenta la vendetta
privata. La vendetta privata rappresenta il motivo iniziale da cui sorge l’idea della pena: la pena serve
perché c’è un comportamento che è considerato contrario al diritto.
Rivalsa e autotutela sono la regola per la risoluzione delle controversie tra privati, alla quale
dovettero fare eccezione quei comportamenti in grado di mettere a rischio il bene comune, da
intensificarsi nella pax deorum, la relazione di armonia e di pacificazione con le divinità.
Il prezzo da pagare per la commissione di un atto potenzialmente in grado di recare nocumento
all’intera comunità non può essere rimessa alla semplice volontà dell’offeso: l’interesse appartiene
a tutti i consociati, interessati a non patire le conseguenze della lesione e della realizzazione di
armonia con le divinità. In età arcaica la repressione dei crimini è condotta dunque in gran parte dai
gruppi familiari.
La pena è dunque di tipo sacrale, basata sull’idea dell’espiazione religiosa, e i crimini possono essere
distinti in due gruppi.
1. Da un lato abbiamo i scelera expiabilia, ossia quegli illeciti che non pongono gravemente a
rischio la pax deorum, e il cui compimento può essere espiato attraverso un sacrificio lieve,
in genere di tipo patrimoniale, ossia un’offerta espiatoria, il cosiddetto piaculum. Esempio
di piacula è il sacrificio di un’agnella a Giunone da parte della concubina che avesse toccato
l’altare della dea.
2. Fatti illeciti più gravi e pericolosi sono invece i scelera inexpiabilia, ossia quelli ai quali non è
possibile rimediare in alcun modo, nemmeno con offerte e sacrifici espiatori: affinché l’ira
degli dèi non si abbatta sulla collettività intera è necessario che il trasgressore risponda
personalmente con i propri beni e la propria vita.
La pena è in questi casi un supplicium, che può avvenire
➔ abbandonando il colpevole ai suoi beni alla vendetta della divinità offesa
➔ sacrificando la vita del reo a titolo di sacrificio espiatorio.
Indipendentemente dalle forme in cui la messa a morte del reo viene attuata, essa conserva
il suo valore non meramente punitivo ma sacrale e catartico in relazione alla comunità di
appartenenza
LA SACERTAS
La sacertas è una fattispecie sanzionatoria peculiare. Il termine sacertas è un neologismo (assente
il termine sacertas nei testi antichi, ma presente solo homo sacer), con il quale si intende descrivere
lo stato di abbandono di un individuo colpevole alla divinità offesa e la sua consacrazione alla stessa,
in seguito al compimento di un atto eccezionalmente grave e nefasto. Tale consecratio non deve
intendersi come sacralità positiva, ossia affidamento di un soggetto a un Dio ma come il suo
contrario, ossia come inimicizia di un Dio verso un umano.
L’offensore, l’homo sacer, era dunque posto alla mercé di qualunque vendicatore, principalmente
della famiglia dell’offeso. Ma chiunque avrebbe potuto esercitare sul colpevole la vendetta, senza
timore di rappresaglie da parte degli altri consociati.
Il sacer è dunque colpevole, ma la sua condanna a morte non è stata emessa apertamente: non è
propizio ucciderlo, ma chi lo farà non sarà condannato. La messa a morte dell’homo sacer è dunque
eventuale, ma se questa avviene libererà la collettività dall’atto nefasto compiuto e dal timore della
vendetta degli dèi.
Gli atti che davano luogo alla consecratio erano diversi.
• Fu prevista da Numa Pompilio la consecration al dio Terminus, per colui che avesse rimosso
o spostato le pietre possa confine dei fondi (il confine era in genere identificato in un cippo
che delimitava i fondi continui e simboleggiava il Dio stesso).
• A Romolo, Tito Tazio e a Servio Tullio viene fatta risalire la consecratio agli dei domestici
della nuora o del figlio che avessero percorso il suocero o il padre.
• Una lex regia, la consecration di chi avesse dato sepoltura a una donna incinta senza aver
prima estratto il feto dal grembo.
Non è certo se il soggetto divenisse sacer direttamente per aver commesso il fatto o se la sacertas
dovesse essere dichiarata da un giudizio pubblico, con la presenza di testimoni.
Il concetto di sacertas e dello stato di homo sacer è stato molto studiato, e lo è tutt’ora, perché si
presta all’interpretazione di fenomeni che attengono al vasto campo di quelli che oggi vengono
chiamati “diritti umani”: all’idea dell’homo sacer viene affiancata quella della ‘nuda vita’, ossia, della
esistenza priva di diritti, in primo luogo, del diritto alla vita, che potrà essere sottratto da chiunque
senza timore di rappresaglie.
Un chiaro caso di sacertas si può trovare già nel racconto della Genesi dell’uccisione di Abele da
parte di suo fratello. Caino è homo sacer perché, a causa del proprio comportamento, viene privato
della protezione di Dio. Egli è dunque consapevole di aver perso qualunque diritto, in primo luogo,
il bene della vita, alla quale ormai chiunque potrà porre fine senza essere passibile, a sua volta, di
punizione.
Ma, tuttavia, l’esperienza ebraica conosce il superamento della sacertas. Il pianto di Caino, conscio
della propria condizione vulnerabile, è confortato dal Signore, il quale stabilisce che chiunque
ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte di più, e a tal fine impone a Caino un marchio affinché
sia riconoscibile, e nessuno osi togliergli la vita.
Dio vieta dunque l’applicazione della sacertas, ossia l’uccisione del responsabile, aggravando le
conseguenze per il punitore, che dovrà pagare “sette volte di più” rispetto alla sanzione prevista per
il delitto originario. Il marchio traccerebbe una condizione di intoccabilità: la sacertas stessa diventa
condizione di intoccabilità.
La sacertà assume quindi una doppia valenza, quella di una sacralità positiva, che renderebbe
l’individuo “caro”, vicino agli dei, e quella negativa, nell’accezione di consecratio
LE LEGES REGIAE
Vigilanza e mantenimento della pax deorum competevano al rex in qualità di sommo sacerdote della
comunità, il quale provvedeva all’applicazione di pene di tipo sacrale nei confronti di coloro che
avessero messo a rischio l’armonia con le divinità e, di conseguenza, l’incolumità dell’intera
collettività. Le ordinanze pronunciate dal re conosciute come leges regiae, sarebbero state
vincolanti per l’intera comunità e sarebbero confluite nel controverso ius Papirianum, una raccolta
di leggi attribuiti agli antichi re di Roma, che sarebbe stata effettuata da Sesto Papirio.
Secondo alcuni studiosi, tale raccolta sarebbe stata redatta in epoca molto più avanzata. La scoperta
dell’iscrizione in lingua latina arcaica con caratteri greco-etruschi, conservata sotto il nome di ‘lapis
Niger” (il “marmo nero”, “la pietra nera”), risalente alla seconda metà del VI secolo a.C, potrebbe
contenere il comando di un sovrano etrusco (celebre il frammento contente l’iscrizione “sakros
esed”). Tale scoperta costituisce, per molti studiosi, prova sufficiente della reale esistenza di antiche
legis regine.
La ricostruzione di questi arcaiche statuizioni è ardua per almeno due ragioni.
1. In primo luogo, è probabile che gli analisti abbiano attribuito un’origine più risalente a
disposizioni successive, per far loro acquisire maggiore autorevolezza, considerandole leggi
regge;
2. Non è chiaro, poi, il ruolo esercitato nella loro emanazione dal rex, considerato, da alcuni,
una sorta di portavoce della comunità dei patres, da altri ritenuto dotato di vero e proprio
potere legislativo e giudiziario.
Due statuizioni devono essere esaminate da più vicino, in quanto riguardanti due crimina di grande
rilevanza nell’esperienza romana, ossia il parricidio e la perduellio.
IL PARRICIDIO
Inizialmente è ritenuta l’uccisione di qualsiasi uomo libero mentre successivamente verrà ritenuta
come l’uccisione di un pater familias, da non confondere con la soppressione del proprio padre. La
specifica sanzione sarebbe stata formulata attraverso un’enigmatica espressione:
“Si quis hominem liberum dolo sciens mors duit, paricidas esto”.
“se qualcuno avrà ucciso un uomo libero con l’intenzione, sia parimenti ucciso da qualunque”
I dubbi, da parte della dottrina, riguardano soprattutto:
1. il tipo di sanzione indicato dalla formula “paricidas esto”
2. e lo status della persona la cui uccisione viene punita, indicato dall’espressione hominem
liberum.
La sanzione per chi uccide “paricidas esto” potrebbe significare:
• sia considerato parricida,
• che sia dato al pareo, la pena del sacco, la sanzione che verrà applicata dal 101 a.C.
• Oppure può significare “parimenti ucciso”
Tali parole sembrerebbero apparentemente indicare l’uomo libero ma c’è chi ha pensato anche che
si riferissero all’uomo indemnatus, (ossia non colpito da sacertas), o al pater familias o a un uomo
non soggetto a patria potestas; anche il figlio, per quanto soggetto alla patria potestas, non è libero
ma non è ritenuto come uno schiavo.
Si parla di parricidi ma si tratta di omicidio. La soluzione sia: “se qualcuno avrà ucciso un uomo libero,
sia parimenti ucciso da qualunque”.
Evidentemente stiamo parlando di una forma di sacertà, in cui la sanzione è quella del parricidio. È
una forma di sacertà in cui chiunque può dare la morte all’omicida.
In seguito, esso verrà ritenuto come l’uccisione del proprio pater familias.
LA PENA DEL SACCO (PENA CULLEI)
La pena del sacco viene considerata un supplizio, una pena con funzione deterrente, per cui la pena
ha una funzione catartica in quanto deve riuscire ad attuare un processo di purificazione; viene
attuata dal 101 a.C.
Il parricida doveva indossare un cappuccio di pelle di lupo e degli zoccoli di legno (per evitare che il
soggetto avesse contatto con l’esterno): così fuoriusciva dalla condizione di uomo e rientrava in una
condizione di animale.
Dopo di che veniva rinchiuso
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