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LE “CONVENZIONI COSTITUZIONALI”
Le convenzioni costituzionali sono spesso confuse con le consuetudini costituzionali perché
“disciplinano” il modo in cui devono essere applicate le norme costituzionali. In primo luogo,
mentre le convenzioni nascono da un accordo tra i soggetti politico-istituzionali, le consuetudini
traggono origine da comportamenti spontanei; in secondo luogo, esse non pongono regole
giuridiche, non sono fonti, mentre le consuetudini lo sono. Dunque a cosa servono le convenzioni?
La dottrina italiana le ha importate dalla letteratura giuridica inglese, che di esse fa ampio uso per
spiegare i modi in cui il sistema costituzionale britannico si è assestato, in assenza di una carta
costituzionale scritta. In Italia, ovviamente, la Costituzione scritta c’è, ma per tutto ciò che riguarda
la c.d. forma di governo dà indicazioni molto scarne. Questo è prova di grande saggezza della
nostra Costituzione, perché lascia ampio margine al gioco della politica senza cercare di
imbrigliarlo in regole troppo asfissianti. Il gioco della politica si è perciò svolto fissando “regole” di
comportamento che si sono evolute o modificate nel tempo. Molte delle prassi che la dottrina ha
indicato come “consuetudini” possono essere derubricate a “convenzioni”: col che si vuole
indicare che esse appartengono alla regolarità e non alle regole, ossia sono avvertite come
indicazioni di comportamenti politicamente corretti ma giuridicamente non vincolanti; se sono
“regole”, sono regole non giuridiche, che valgono solo sino a quando coloro che le hanno poste in
essere sono d’accordo nell’applicarle; e quando questi cessano unilateralmente di applicarle, le
conseguenze possono forse essere politiche, ma non giuridiche.
d) Una quarta traccia la troviamo in Costituzione. L’art 10.1 dice che “l’ordinamento italiano si
conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”; si fa riferimento alle
consuetudini internazionali, cioè a delle norme che non hanno origine nei trattati (fonte
volontaria del diritto internazionale) ma in regole non scritte né poste da alcun soggetto
determinato, e tuttavia considerate obbligatorie dalla generalità degli Stati. L’adeguamento
dell’ordinamento italiano alle consuetudini internazionali è automatico, nel senso che il giudice
italiano, quando accerti l’esistenza di una norma di questo tipo, deve applicarla immediatamente
nel nostro ordinamento, come se fosse una norma “interna” dello stesso rango della norma che la
richiama, cioè dell’art 10.1 (il che significa che le norme richiamate occupano nella gerarchia delle
fonti una posizione superiore alle stesse leggi ordinarie). Questo meccanismo di rinvio automatico
dell’ordinamento italiano alle norme prodotte da altri ordinamenti si chiama “rinvio mobile”.
3.4. LE ALTRE FONTI-FATTO
Benché la consuetudine sia da sempre la fonte-fatto per eccellenza, essa oggi non è più, almeno
nel nostro ordinamento, la fonte-fatto più importante. Non dobbiamo definire le fonti-fatto
pensando solo alle consuetudini. Ciò che distingue le fonti-fatto dalle fonti-atto è che le seconde
sono fonti scritte e imputabili alla volontà di un soggetto preciso, mentre le prime no (sarebbero
cioè fonti non scritte e involontarie, come appunto lo è la consuetudine). Fonti-fatto per il nostro
ordinamento sono anche tutte quelle fonti non prodotte dai nostri organi. Vi sono due esempi
macroscopici di fonti-fatto nel nostro ordinamento: le norme prodotte dall’UE e le norme di diritto
internazionale privato.
Le norme della UE non sono solo fonti scritte e volute, poste in essere cioè dagli organi della UE:
sono cioè, per l’ordinamento europeo, applicando le nostre categorie, fonti-atto. Tuttavia, siccome
esse sono prodotte da organi che non appartengono al nostro ordinamento, per questo motivo
esse sono considerate dal nostro ordinamento come meri “fatti” normativi.
Le norme di diritto internazionale privato sono le norme che regolano l’applicazione della legge
quando i soggetti o i beni coinvolti nel caso sottoposto al giudice sono collegati a ordinamenti
giuridici diversi: per esempio, che accade se un cittadino italiano e una cittadina austriaca litigano
per l’affidamento dei figli comuni o per la successione nei beni immobili siti in Italia ma lasciati in
eredità da un comune parente bulgaro? La soluzione a questi intricati casi giuridici è data dalle
disposizioni sull’applicazione della legge contenute nelle Preleggi, agli artt. 17-31, sostituiti
successivamente dalla legge 31 maggio 1995, n.218. Il giudice italiano in certi casi si può trovare ad
applicare le leggi di un altro Paese, per esempio, il codice civile austriaco o la legge bulgara sulle
successioni. Queste fonti, che sarebbero fonti-atto nel rispettivo ordinamento di appartenenza,
sono, invece, fonti-fatto per il nostro.
3.5 IL PRINCIPIO JURA NOVIT CURIA
Il giudice ha il potere e il dovere di individuare e interpretare le fonti normative da applicare al
giudizio con i propri mezzi, senza cioè gravare sulle parti o dipendere dal loro apporto: è il
principio jura novit curia, che vale per tutte le fonti, siano esse “atti” o “fatti”. Però difficoltà
pratiche notevoli si possono porre per le fonti-fatto.
Mentre per gli atti normativi la pubblicazione ufficiale è lo strumento che rende sempre possibile
l’accertamento della fonte, questo non vale sempre per le fonti-fatto. Per queste non si può fare
un discorso unitario. Per la consuetudine, l’inserimento nelle Raccolte generali non chiude affatto
il problema dell’accertamento, in quanto è ammessa la prova contraria; per il diritto
internazionale privato, l’art 14 della nuova legge fa carico al giudice italiano di accertare la legge
straniera, anche con l’aiuto di strutture ministeriali, di esperti; per il diritto europeo, il giudice ha
pieno obbligo di conoscerne le fonti che, per altro, sono soggette a pubblicazione ufficiale.
Oltre alla conoscenza dell’esistenza della fonte, il principio jura novit curia comporta anche il
potere-dovere del giudice di interpretarne le disposizioni al fine di individuare la norma da
applicare al caso. Ciò è ovvio per le fonti-atto. Quanto alle fonti-fatto, per le consuetudini il
problema non si pone, essendo esse norme prive di disposizione: non vi è nulla da “interpretare”,
trattandosi di accertare quale norma non scritta si sia imposta nella prassi. Per il diritto
internazionale privato, l’art 15 della nuova disciplina ci dice che la legge straniera “è applicata
secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo”: il nostro giudice dovrebbe
quindi comportarsi come se fosse un giudice dell’altro ordinamento, sia usando i criteri
interpretativi di questo, sia valutando gli effetti della successione delle leggi nel tempo.
Naturalmente, se una delle parti non è convinta del lavoro interpretativo svolto dal giudice, ne
deve impugnare la sentenza davanti al giudice (italiano) di appello, che dovrà pronunciarsi sulla
correttezza, rispetto all’ordinamento straniero, dei criteri interpretativi applicati dal collega di
primo grado.
Diverso è il problema di interpretazione del diritto europeo. Qui infatti vige una riserva di
interpretazione a favore del giudice comunitario, cioè della corte di Giustizia dell’UE, riserva che
riguarda tanto le disposizioni del Trattato istitutivo della Unione che le fonti “derivate”. Per cui, se
il giudice italiano ha un dubbio sul significato di queste disposizioni, deve sospendere il suo
giudizio e sottoporre la questione interpretativa alla Corte di giustizia.
Ultimo versante su cui si pone il principio jura novit curia, il giudice deve valutare non solo che una
certa norma esista, ma anche che sia valida. Una norma è valida quando è posta in conformità alle
norme di rango superiore. Tutto ciò è evidente per le fonti-atto: se esse presuppongono una
norma di riconoscimento che attribuisca a un determinato organo la competenza a produrre un
certo tipo di norme, queste norme saranno valide solo se conformi alla norma di riconoscimento;
se non sono valide, il giudice può provocarne la rimozione dall’ordinamento. E per le fonti fatto?
La consuetudine o si sviluppa praeter legem o secundum legem. Se il comportamento sociale
considerato fosse contra legem non avremmo neppure una fonte del diritto, ma un
comportamento illegittimo. Diverso è il caso del diritto internazionale privato: il giudice italiano
può valutare se la legge straniera sia ancora in vigore, ma non ha gli strumenti per rilevarne gli
eventuali vizi, cioè il contrasto con le fonti superiori dell’ordinamento cui essa appartiene.
Per esempio, se il nostro giudice deve applicare la legge testamentaria bulgara, non potrà valutare
se essa sia o meno conforme alla Costituzione di quel paese, se sia stata approvata con le
procedure previste, né potrà investire di questa questione il giudice bulgaro. Questo lo può fare
quando deve applicare il diritto comunitario: in questo caso, se rileva un vizio della fonte
comunitaria, il giudice deve sospendere il proprio giudizio e investire della questione la Corte di
giustizia, cui è riservata la competenza a giudicare della validità delle norme emanate dalla UE.
4. TECNICHE DI RINVIO AD ALTRI ORDINAMENTI
4.1 DEFINIZIONI
Il “principio di esclusività”, che è espressione della sovranità dello Stato, attribuisce a questo il
potere esclusivo di riconoscere le proprie fonti, cioè indicare i “fatti” e gli “atti” che possono
produrre norme nell’ordinamento. Le norme degli altri ordinamenti possono valere all’interno
dell’ordinamento dello Stato soltanto se le disposizioni di questo lo consentono. Ciò vale per
qualsiasi altro ordinamento: quindi, sia per l’ordinamento degli altri Stati; sia per gli ordinamenti
tra gli stati a carattere generale, cioè il diritto internazionale, o particolare, come l’UE.
Per consentire alle norme prodotte da fonti di altri ordinamenti di operare all’interno
dell’ordinamento statale si opera attraverso la tecnica del rinvio. Il rinvio è lo strumento con cui
l’ordinamento di uno Stato rende applicabili al proprio interno norme di altri ordinamenti. Si
distinguono due tecniche di rinvio: rinvio fisso e rinvio mobile.
4.2 IL RINVIO “FISSO”
Il rinvio fisso (c.d. rinvio materiale e recettizio) è il meccanismo con cui una disposizione
dell’ordinamento statale richiama un determinato atto in vigore in altro ordinamento, atto che di
solito viene