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PROGRAMMI
Definizione: FINALITÀ DA PERSEGUIRE
La Costituzione indica finalità da perseguire nelle cosiddette NORME PROGRAMMATICHE: mentre
i principi sono ciò da cui “PRINCIPIARE”, ciò da cui partire, invece i programmi indicano OBBLIGHI
DI RISULTATO, ciò a cui si deve arrivare.
Il caso più evidente è l’art 3, che al primo comma è norma di principio (“tutti i cittadini hanno pari
dignità sociale”), mentre al secondo comma è norma programmatica, ponendo la dignità sociale
come programma della repubblica quando dice che: “È compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”
Lo stesso vale per l’art 4, che è norma di principio quando parla di diritto la lavoro ma è norma
programmatica quando parla della promozione delle condizioni che lo rendano effettivo.
Allo stesso modo, l’art 11 è norma di principio quando ripudia la guerra, ma è norma programmatica
quando parla di organizzazione che garantisca la pace e la giustizia fra le nazioni.
Le norme programmatiche per la loro attuazione si rivolgono essenzialmente agli organi politici, non
alla Corte Costituzionale, infatti mentre il riferimento all’art 3 comma 1 è molto frequente, quello al
secondo comma è molto raro.
Ad esempio, l’art 44 pone alla legge l’obiettivo di “conseguire il razionale sfruttamento del suolo e
stabilire equi rapporti sociali” in agricoltura.
Con la sentenza 139/1984 si discuteva sulla legge che stabiliva i criteri per l’equo canone dell’affitto
di fondi rustici, chiedendo alla Corte Costituzionale se fossero criteri congrui, ma la Corte
Costituzionale si è sottratta, ritenendo inammissibile la qlc perché: “Per quanto penetrante possa e
debba essere il controllo della Corte, un limite tuttavia esiste, non essendo consentito alla Corte
Costituzionale procedere a scelte economico-sociali e politiche e sostituire quelle effettuate dal
parlamento. La Corte Costituzionale non può invadere il campo di competenza affidato al
legislatore”.
Le finalità delle norme programmatiche sono per lo più indicate in modo generico: “i fini sociali”,
“l’utilità sociale”, esattamente come i principi.
Ma, mentre i principi sono determinabili storicamente e culturalmente, i programmi rinviano a
qualcosa di determinabile SOLO POLITICAMENTE.
È ovvio che liberali e socialisti sarebbero d’accordo nel voler perseguire i fini sociali, ma la loro
concezione è radicalmente opposta, ed entrambe sono conformi a Costituzione.
La Costituzione pone una finalità, poi è indifferente su COME ala si persegua.
Diceva Einaudi, proprio sulla nozione di “utilità sociale” in Assemblea costituente: “Qualunque
interpretazione darà il legislatore futuro alla norma che la menziona, essa sarà valida. Nessuna corte
potrà negarle validità, perche tutte le leggi di interpretazione saranno conformi a ciò che non esiste”.
Tuttavia la Corte Costituzionale deve spingersi a riscontrare se la legge non contrasti con i motivi e
i fini costituzionalmente prescritti ma, data la politicità delle scelte possibili, deve fermarsi di fro nte
alla discrezionalità del legislatore.
La Corte Costituzionale interviene solo quando tutte le scelte politiche possibili sembrano
inconciliabili con le finalità costituzionalmente previste e in questo caso si parlerà di ERRORE o
ARBITRIO MANIFESTO.
Il primo caso di arbitrio o errore manifesto su quello dell’espropriazione delle imprese elettriche:
“per poter affermare che la legge denunciata non risponda a fini di utilità generale ai sensi dell’art
43, bisognerebbe che risultasse che l’organo legislativo non abbia compiuto un apprezzamento di
tali fini e dei mezzi per raggiungerli o che questo apprezzamento sia stato inficiato da criteri illogici,
arbitrari o contraddittori, ovvero che l’apprezzamento stesso si manifesti in palese contrasto con i
presupposti di fatto”.
L’arbitro o l’errore manifesto avviene nel momento in cui manca la possibilità di giustificare
pubblicamente le scelte legislative, di sostenerne le ragioni dinanzi al tribunale della ragione
pubblica, e la legge potrà essere dichiarata incostituzionale per irragionevolezza rispetto ai fini
costituzionalmente previsti.
In questi casi a volte si è assimilato il vizio della legge come ECCESSO DEL POTERE LEGISLATIVO
al vizio dell’atto amministrativo come ECCESSO DEL POTERE AMMINISTRATIVO, in quanto in
entrambi i casi abbiamo una contraddizione fra mezzi e fini.
Tuttavia:
L’eccesso di potere per la legge è una ECCEZIONE, visto che il legislatore è libero nel fine e
❖ incontra solo limiti negativi (può fare tutto tranne ciò che è vietato dalla costituzione), infatti
non è necessariamente motivata, anzi non lo è quasi mai.
L’eccesso di potere per l’atto amministrativo è la REGOLA, visto che la p.a. incontra limiti
❖ positivi (può fare solo ciò che è stato prescritto dalla legge), infatti è motivato.
Ci sono poi i casi di NORME AD ATTUAZIONE PROGRESSIVA: la Costituzionalità e
l’incostituzionalità non sono in questi casi concetti ASSOLUTI, ma RELATIVI.
Può avvenire che una disposizione legislativa, di per sé carente ma tale comunque da costituire una
parziale attuazione dell’obiettivo, non sia eliminabile in quanto incostituzionale perché altrimenti di
retrocederebbe in una situazione di maggiore incostituzionalità.
Quindi, leggi insufficienti vengono ugualmente salvate dalla Corte Costituzionale in pronunce che
ugualmente segnalano la necessità di una riforma.
Esempi sono la sentenza 149/1983, in cui la Corte Costituzionale dice: “L’insufficienza o la scarsa
efficacia di una norma di legge rispetto agli scopi voluti dalla Costituzione non può condurre a
riconoscerla senz’altro contraria a Costituzione con risultato di far venir meno il poco già attuato”.
Nella sentenza 194/1970, la Corte invece dice: “L’attuazione dell’obiettivo della stabilità nel posto di
lavoro (art 4) resta affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, quanto alla scelta dei tempi
e dei modi, in rapporto ovviamente alla situazione economica generale. La discrezionalità di dare
applicazione a quei principi anche con gradualità basta per escludere l’incostituzionalità di una
disposizione che attua non pienamente ma solo in parte l’obiettivo indicato dal legislatore”
Sia le norme di principio che le norme di programma sono espressione di VALORI, di BENI CHE
DEVONO VALERE, ma VALGONO in modo diverso e non bisogna fare confusione: a volte, infatti,
erroneamente si parla di GIURISPRUDENZA PER VALORI.
Gli stessi beni giuridici, infatti, possono essere assunti a contenuto sia di principi che di programmi,
ad esempio la persona umana e la sua dignità, ma il principio indica da dove si deve partire e a cosa
si deve restare fedeli camminando, mentre il programma indica a dove si deve arrivare, la meta che
si deve raggiungere a prescindere dal percorso scelto.
I principi non hanno fini e i fini non hanno principi: persino giustizia e libertà come fini possono
diventare despoti (Robespierre parlava del DISPOTISMO DELLA LIBERTÀ), mentre chi segue solo
i principi ha una strada spianata, ma non sa dove porta.
Infatti, lo Stato costituzionale di oggi ha bisogno sia di programmi che di principi: il rispetto dei
principi condiziona i fini e i fini orientano i principi,
In questo modo, i principi di libertà devono convivere con i fini della giustizia, per cui la giustizia non
può essere perseguita a spese della libertà e la libertà non può espandersi a spese della giustizia.
L’art 28 della legge 87/53 stabilisce che il controllo di costituzionalità esclude ogni valutazione di
natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del parlamento.
Ovviamente, con le norme costituzionali di principio o di programma è forte il rischio di uno
spostamento di potere a favore della Corte Costituzionale e a danno del legislatore.
A maggior ragione se si considera la Costituzione come una CORNICE con degli SPAZI LIBERI DAL
DIRITTO COSTITUZIONALE coincidenti con VALUTAZIONI DI NATURA POLITICA, con l’uso del
potere discrezionale del legislatore.
A questo si accompagna la preoccupazione di una Corte Costituzionale che possa agire come
LEGISLATORE NEGATIVO (come aveva fatto notare Schmitt).
L’origine dell’art 28 può essere identificato in alcune proposte che vennero fatte in assemblea
costituente ma rimaste senza esito.
Una è di MORTATI e TOSATO, che diceva:
“La Corte Costituzionale giudica dei ricorsi per violazione di legge costituzionale, escluso qualsiasi
sindacato di merito contro atti legislativi, una esigenza la quale non sarebbe stata soddisfatta con la
generica espressione di giudizio di costituzionalità, adoperata dal progetto di Costituzione,
espressione che si sarebbe potuta interpretare nel senso comprensivo del sindacato materiale alla
luce anche delle molte norme elastiche contenute nella Costituzione. Questo sindacato avrebbe
potuto comportare valutazioni discrezionali, trasformando la Corte Costituzionale in un super-
parlamento”.
La proposta non fu approvata, perché si ritenne superflua.
Ancora Mortati propose un emendamento:
“La Corte Costituzionale non potrà pronunciarsi sulla validità degli atti legislativi se non in relazione
a quelle norme costituzionali la cui interpretazione non giustifichi una pluralità di soluzioni, una delle
quali sia stata adottata dal Parlamento o dal Governo. Essa di asterrà dal pronunciarsi su questioni
che implichino una valutazione dell’opportunità politica dei suddetti atti”.
Infatti, nella giurisorudneza costituzionale la formula “discrezionalità del legislatore” è una delle più
frequenti.
L’art 28 si risolve in un generico appello al senso di limite della Corte Costituzionale, al suo auto-
controllo.
A volte si parla di ANACRONISMO LEGISLATIVO, cioè il venir meno, a causa di mutamento del
contesto normativo, culturale, economico o tecnico delle ragioni che originariamente giustificavano
la legge è quindi la Corte Costituzionale si sente un po’ più libera.
Ad esempio, con la sentenza 91/73, sul DIVIETO DI DONAZIONE FRA CONIUGI,