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ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE
L’applicazione dell’articolo 102 si basa su due elementi, ovvero che la
posizione detenuta dall’impresa sia qualificabile come dominante e che la condotta
esaminata costituisca uno sfruttamento abusivo di tale posizione. Il primo presupposto
è necessario per procedere alla valutazione della condotta abusiva e perciò le indagini
delle Autorità antitrust devono necessariamente partire dalla verifica dell’esistenza
della posizione dominante. La posizione dominante è stata definita dalla Corte di
“una posizione di
giustizia nel caso United Brands (causa 27/76 del 1978) come
potenza economica grazie alla quale l’impresa che la detiene è in grado di ostacolare
la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato in questione, ed ha la
possibilità di tenere comportamenti alquanto indipendenti nei confronti dei
concorrenti, dei clienti e dei consumatori”.
Dopo aver accertato l’esistenza di una posizione dominante, che costituisce il
primo presupposto per l’applicazione dell’articolo 102 TFUE, il passa successivo
consiste nell’analisi del comportamento dell’impresa, al fine di stabilire se esso possa
configurare o meno un abuso.
Una definizione di abuso è stata formulata dalla Corte di Giustizia nel
caso Hoffmann-La Roche (causa 85/76 del 1979), in cui ha chiarito che esso
“riguarda il comportamento dell’impresa in posizione dominante atto ad influire sulla
struttura di un mercato in cui, proprio per il fatto che vi opera detta impresa, il grado
di concorrenza e già sminuito e che ha come effetto di ostacolare, ricorrendo a mezzi
diversi da quelli su cui si impernia la concorrenza normale tra prodotti o servizi,
fondata sulle prestazioni degli operatori economici, la conservazione del grado di
concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo di detta concorrenza”.
Da tale definizione emerge che la disciplina antitrust attribuisce all’impresa che venga
a trovarsi in posizione dominante una speciale responsabilità, ovvero l’onere di
salvaguardare il grado di concorrenza nel mercato considerato, per bilanciare il suo
forte potere economico. Tale responsabilità impedisce all’impresa dominante di
sfruttare il proprio potere a danno di concorrenti e consumatori, per non
compromettere ulteriormente i meccanismi concorrenziali, già indeboliti dall’elevato
accentramento del potere di mercato nelle mani dell’impresa. L’obiettivo perseguito
tramite il divieto di sfruttamento abusivo di posizione dominante è infatti quello di
tutelare la struttura concorrenziale del mercato e, solo in via mediata, i consumatori
finali e i concorrenti altrettanto efficienti.
L’articolo 102 TFUE elenca una serie di fattispecie di abuso che tuttavia
non costituiscono un elenco chiuso. Nel corso degli anni, infatti, la giurisprudenza ha
identificato vari casi di sfruttamenti abusivi di posizione dominante che hanno assunto
forme diversificate e complesse. Tra i vari comportamenti abusivi è possibile
individuare due categorie principali sulla base degli specifici effetti anticoncorrenziali
prodotti: gli abusi di sfruttamento e gli abusi escludenti.
Gli effetti degli abusi di sfruttamento si producono nelle relazioni verticali
dell’impresa nei mercati a monte e a valle, ovvero, rispettivamente, quelle
intercorrenti con i fornitori e con i clienti; attraverso tali pratiche, l’impresa dominante
sfrutta il proprio potere di mercato al fine di massimizzare i propri profitti a danno di
fornitori e clienti, applicando prezzi eccessivi o condizioni ingiustificatamente gravose
o discriminatorie nei confronti dei contraenti. Gli abusi escludenti, invece, hanno
effetti anticoncorrenziali sulle relazioni orizzontali dell’impresa che li compie, ossia tra i
suoi concorrenti reali e potenziali. Le pratiche escludenti sono adottate dall’impresa
dominante al fine di ostacolare i propri concorrenti e rafforzare ulteriormente la propria
posizione e possono consistere in limitazioni ingiustificate della produzione o in
strategie di prezzo.
Le principali fattispecie di abuso sono: l’imposizione di prezzi eccessivi, le pratiche
discriminanti, le pratiche leganti, il rifiuto di contrarre, l’imposizione di prezzi predatori,
gli accordi di esclusiva e le pratiche scontistiche.
L’imposizione di prezzi eccessivi nei rapporti contrattuali con parti non
concorrenti rientra nella prima fattispecie considerata dalla normativa antitrust e
costituisce il più tipico esempio di abuso di sfruttamento, ovvero è espressamente
citata nella lettera a) dell’articolo 102 TUFE e
dall’articolo 3 della legge 287/1990. L’impresa, infatti, applicando prezzi elevati a
clienti e fornitori, non ha come obiettivo l’eliminazione di concorrenti dal mercato, ma
la massimizzazione dei propri profitti. Relativamente alla nozione di prezzo non equo, il
prezzo deve ritenersi eccessivo quando è privo di ogni ragionevole rapporto con il
valore economico della prestazione fornita. La valutazione dell’equità del prezzo
necessita quindi di una complessa analisi, che tenga conto delle caratteristiche
specifiche del caso considerato, in particolare delle peculiarità del prodotto o servizio e
della struttura del mercato.
Il rifiuto di contrarre, ovvero il rifiuto ingiustificato da parte di un’impresa
dominante di fornire ad un altro operatore un prodotto o servizio, in determinate
circostanze, è considerato comportamento abusivo; in particolare, la fattispecie si
applica quando il rifiuto avviene da parte di un’impresa verticalmente integrata, che
occupa una posizione dominante nel mercato a monte e opera anche sul mercato a
valle, nei confronti di un concorrente che necessita del prodotto o servizio per operare
nel mercato a valle. Tale condotta è riconducibile alla categoria delle pratiche
escludenti, vietate dalla lettera b) comma 2 articolo 102 TFUE. L’obiettivo
dell’impresa è infatti quello di estendere la posizione dominante che occupa su un
dato mercato ad altri mercati collegati ad esso, sfruttando il proprio potere economico
per ostacolare l’attività dei propri concorrenti su tali mercati.
La fattispecie delle pratiche discriminanti è esplicitamente citata dalla
normativa antitrust dalla lettera c) dell’articolo 102 TFUE e dell’articolo 3 della
legge 287/1990, che considera come pratica abusiva applicare nei rapporti
commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti,
determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza. In tale
fattispecie rientra la pratica della discriminazione dei prezzi, che consiste nella vendita
del medesimo prodotto o servizio applicando prezzi differenti per diversi acquirenti. La
discriminazione dei prezzi non è una condotta di per sé vietata. Tuttavia, quando la
discriminazione è praticata da un’impresa in posizione dominante può configurare un
abuso; in particolare, la discriminazione è considerata abusiva quando viene praticata
verso clienti che operano in concorrenza tra loro e riguarda prodotti o servizi che
rappresentano una parte rilevante dei costi di tali clienti. In queste circostanze, infatti,
essa è in grado di determinare uno svantaggio per la concorrenza.
Un’altra fattispecie citata dalla normativa antimonopolistica è quella delle
pratiche leganti; è infatti vietato per l’impresa dominante subordinare la conclusione
di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari,
che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con
l’oggetto dei contratti stessi. Rientrano in questa fattispecie le vendite abbinate, che
comprendono varie modalità di vendita congiunta di due o più prodotti o servizi,
utilizzate dall’impresa che, essendo in posizione dominante sul mercato di uno dei due
beni, punta ad estendere il proprio potere anche sul mercato del bene abbinato alla
vendita.
Un’ulteriore fattispecie di abuso derivante da politiche di prezzo è rappresentata
dall’imposizione di prezzi predatori. Un comportamento predatorio da parte di
un’impresa dominante consiste in una strategia costituita da due diverse fasi: nella
prima, l’impresa abbassa i prezzi al punto da non coprire i costi di produzione,
spingendo i propri concorrenti ad abbandonare il mercato; nella seconda fase,
l’impresa, ormai sola sul mercato, è in grado di innalzare i prezzi in modo tale da
recuperare le perdite subite precedentemente e realizzare profitti di monopolio. Certo
che questa pratica funziona solo se l’impresa è in grado di sopportare le perdite e se
nel mercato sono presenti barriere all’ingresso che ostacolino i concorrenti che dopo
aver abbandonato il mercato tentino di rientrarvi. Considerato il fine di tale condotta,
quest’ultima non può essere ricompresa nella fattispecie dei prezzi non equi ma
piuttosto può essere ricondotta alle pratiche escludenti in quanto l’effetto
anticoncorrenziale consiste nell’esclusione dal mercato delle imprese rivali.
Possono essere considerati tra le fattispecie di abuso di posizione dominante gli
accordi di esclusiva, in quanto, nonostante non siano esplicitamente richiamati
dall’articolo 102 TFUE e neanche dalla legge 287/1990, hanno evidenti effetti
escludenti. Tramite tali accordi, l’impresa dominante vincola gli acquirenti a rifornirsi
esclusivamente presso di essa, per tutto o gran parte del loro fabbisogno, ostacolando
in tal modo i concorrenti nell’accesso al mercato o nell’espansione. In particolare, i
rapporti di esclusiva possono determinare una preclusione anticoncorrenziale quando,
in mancanza di detti obblighi, viene esercitata una considerevole pressione
concorrenziale da parte dei concorrenti che non erano ancora presenti nel mercato al
momento della conclusione dei relativi accordi o che non sono in grado di competere
per soddisfare interamente il fabbisogno dei clienti.
È possibile ricondurre alla fattispecie anche alcune tipologie di pratiche
scontistiche, in quanto producono effetti assimilabili a quelli dei rapporti di esclusiva;
in particolare, possono costituire abuso di posizione dominante gli sconti cosiddetti
fidelizzanti, in quanto hanno effetti escludenti, spingendo gli acquirenti a non rifornirsi
dai concorrenti dell’impresa.
Il divieto di abuso di posizione dominante non ammette eccezioni.
Accertata l’infrazione, l’Autorità competente ne ordina la cessazione prendendo le
misure necessarie; infligge sanzione pecuniarie identiche a quelle stabilite per le
intese; in caso di reiterata inottemperanza, l’Autorità italiana può