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LE RELAZIONI CONCORRENZIALI
Il diritto antitrust è costituito da regole volte sostanzialmente a vietare determinati
comportamenti idonei a impedire, restringere o falsare la concorrenza, ma occorre
cogliere le finalità più generali del complesso della disciplina, finalità che si desumono,
principalmente, dal contesto storico e politico-economico nel quale questa si colloca.
In Europa gli obiettivi delle politiche concorrenziali sottesi alla disciplina antitrust sono
stati numerosi: 1. a partire da quanto disposto dagli artt. 81 e 82 del Trattato istitutivo
della CEE (c.d. «Trattato di Roma»), in vigore dal 1958, ed arrivando alle disposizioni
contenute nella l. n. 287/1990 (ossia le «Norme per la tutela della concorrenza e del
mercato»), si possono annoverare, oltre alla ragioni di tutela delle imprese di minori
dimensioni (comuni allo Sherman Act), l’integrazione tra i mercati nazionali, il
perseguimento di linee di politica industriale coordinate, la tutela di consumatori e
utenti. L’impostazione originaria della normativa comunitaria rifletteva, in sostanza,
una visione maggiormente dirigista dell’economia. 2. più di recente ha però prevalso
un approccio più attento a premiare le esigenze di protezione della libertà economica
e le capacità di autodeterminazione del singolo imprenditore, conformemente ai
principi di analisi economica del diritto emersi nel dibattito statunitense in materia di
antitrust.
Gli obiettivi delle regole del diritto europeo della concorrenza sono: (a)evitare
il formarsi e il consolidarsi di condizioni di «potere di mercato», ossia il potere di cui
gode un imprenditore in grado di aumentare i prezzi di un prodotto o di un servizio
diminuendo la quantità offerta; (b)proteggere e incentivare la qualità e la varietà dei
prodotti e dei servizi offerti; (c)tutelare e favorire l’innovazione in ogni sua forma
(economica, tecnologica, culturale). La regolazione dell’attività d’impresa deve
risolversi in scelte di «compromesso» tra gli interessi degli imprenditori e gli interessi
dei consumatori, secondo un’impostazione seguita anche dal nostro ordinamento,
articolato in base alle seguenti direttrici: a.1) ammissibilità di «limitazioni legali» della
concorrenza a fini di utilità sociale (ai sensi del terzo comma dell’art. 41 Cost. e
dell’art. 2595 c.c.); a.2) ammissibilità di «limitazioni negoziali» della concorrenza,
subordinatamente al rispetto di condizioni che non comportino un radicale sacrificio
della libertà di iniziativa economica (ai sensi dell’art. 2596); a.3) ammissibilità di
«monopoli legali» in dati settori di interesse generale (artt. 43 Cost. e 2597 c.c.); b.1)
divieto di una serie di pratiche anticoncorrenziali (ai sensi della l. n. 287/1990); b.2)
divieto di «atti di concorrenza sleale» (ai sensi degli artt. 2598-2601 c.c.).
PRATICHE ANTICONCORRENZIALI
1) Intese restrittive della concorrenza (art. 2 della l. n. 287/1990): sono
considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le
deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di
consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari. La gamma delle intese
rilevanti ai fini antitrust rappresenta un insieme ampio ed elastico: (a) per «accordi»
si intendono tutte le convenzioni di due o più imprese, indipendentemente dalla forma
adoperata ed anche se non siano giuridicamente vincolanti, comprese, quindi, le
manifestazioni di reciproca volontà che non si concretizzino propriamente in un
contratto; (b) per «pratiche concordate» si intendono tutte le forme di
coordinamento che abbiano l’effetto di sostituire la collaborazione tra due o più
imprese alla competizione tra le stesse, anche se si tratti di manifestazioni spontanee.
(c) per «deliberazioni di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi
similari» si intendono tutte le prassi economiche restrittive della concorrenza decise
da organismi che associno imprese per gli scopi più disparati. Sono vietate le sole
intese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in
maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in
una sua parte rilevante. L’«effetto» concorrenziale può essere anche solo
potenziale. Si possono quindi avere le seguenti combinazioni: A. intese illecite in
ragione del loro oggetto anticoncorrenziale; B. intese illecite in ragione dell’avere
oggetto non anticoncorrenziale, ma effetto anticoncorrenziale; C. intese illecite in
ragione dell’avere oggetto non anticoncorrenziale, ma effetto astrattamente idoneo a
rivelarsi anticoncorrenziale (o potenzialmente anticoncorrenziale, che è lo stesso).
2) Abuso di posizione dominante (art. 3 della l. n. 287/1990): è vietato l’abuso da
parte di una o più imprese di una posizione dominante (condizione dell’impresa la cui
potenza economica sia tale da consentire lo svolgimento della propria attività
indipendentemente sia dai comportamenti dei concorrenti, sia dalle aspettative dei
consumatori) all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante (inteso sia
dal punto di vista merceologico che geografico). Il concetto di abuso va valutato in
termini oggettivi, tenendo conto degli effetti concreti che lo sfruttamento della
posizione dominante produca sul mercato, e non invece delle intenzioni (di esclusione
altrui) di chi tiene tale comportamento. È altresì vietato l’abuso di dipendenza
economica, ossia la situazione, inversa all’ipotesi di abuso di posizione dominante, in
cui si trovi un’impresa rispetto a un’altra allorquando, indipendentemente
dall’esistenza di ruoli di dominio sul mercato, nel loro rapporto commerciale si
determini un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi.
3) Concentrazioni (art. 5 della l. n. 287/1990): l’operazione di concentrazione
realizza un’aggregazione permanente tra imprese, derivante dal ricorso a una
molteplicità di strumenti giuridici: sono concentrazioni le operazioni di fusione,
l’acquisto di un’azienda, l’acquisto di una partecipazione di controllo, ecc. Non tutte le
concentrazioni sono però vietate poiché queste, di per sé considerate, rappresentano
soluzioni organizzative dell’attività di una qualsiasi impresa apprezzabili nella limitata
misura in cui favoriscono la stabilità e, con ciò, la competitività della medesima. Sono
vietate solo le concentrazioni che, per la loro entità, finiscano per distorcere il libero
gioco della concorrenza, anziché favorirlo. In questo frangente, la disciplina antitrust
impone «solo»: a) che le operazioni di concentrazione che superino determinate
soglie di fatturato siano comunicate all’Autorità garante; b) che, se l’Autorità ritenga
di dovere indagare sulla liceità della concentrazione, a tale comunicazione sia fatta
seguire un’istruttoria nel merito della medesima operazione.
LE LIMITAZIONI ALLA CONCORRENZA
La disciplina antitrust italiana ammette alcune ipotesi di limitazione della
concorrenza (limitazioni legali e negoziali, monopoli legali) e vieta una serie di pratiche
anticoncorrenziali (divieto d’intese restrittive, abuso di posizione dominante e
concentrazioni, divieto di atti di concorrenza sleale). Limitazioni legali della
concorrenza. a) l’art. 2595 c.c., ai sensi del quale «la concorrenza deve svolgersi in
modo da non ledere gli interessi dell’economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla
legge»; b) l’art. 41, comma 3, Cost., ai sensi del quale «La legge determina i
programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa
essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
REGOLE Le limitazioni alla libertà di concorrenza possono essere funzionali alla tutela
d’interessi generali (regole non disponibili, come tali inderogabili) o di interessi privati
(regole dispositive, come tali derogabili dalle parti). 1. Il «diritto di esclusiva» nel
contratto di agenzia regolato dall’art. 1743, norma che dispone che «il preponente non
può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo
di attività, né l’agente può assumere l’incarico di trattare nella stessa zona e per lo
stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro»; 2. L’«obbligo di
fedeltà» a carico dei prestatori di lavoro regolato dall’art. 2105, norma che dispone
che «il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in
concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai
metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa
pregiudizio»; 3. Il «divieto di concorrenza» che grava sugli amministratori di
società per azioni regolato dall’art. 2390, norma che dispone che «gli amministratori
non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società
concorrenti, né esercitare un’attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere
amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione
dell’assemblea». E si aggiungano le norme omologhe previste per gli amministratori
delle società a responsabilità limitata e cooperative, oltre che a carico dei soci a
responsabilità illimitata di società di persone; 4. Il «divieto di concorrenza» che
grava su chiunque trasferisca la propria azienda regolato dall’art. 2557 c.c.
Limitazioni convenzionali della concorrenza (art. 2596 c.c.) Affinché il patto
limitativo della concorrenza sia valido è richiesto il rispetto di tre condizioni: a) la
forma scritta ad probationem; b) un predeterminato limite territoriale (o di attività); c)
un limite di durata (5 anni, limite che vincola sia nel caso in cui la durata del patto non
sia proprio stata prevista, sia nel caso in cui sia stata stabilita per un periodo superiore
a 5 anni).
Fattispecie non soggette alla disciplina dell’art. 2596 c.c.: 1) le c.d. «restrizioni
reciproche», ossia le ipotesi che ricorrono quando due imprenditori si impegnino a
non farsi concorrenza l’uno con l’altro, oppure si accordino a osservare regole
condivise per rendere le rispettive attività economiche più «compatibili» di quanto non
si rivelerebbero spontaneamente, ad esempio pattuendo le quantità o i settori di
produzione