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LA VIOLENZA
La violenza di cui parla il legislatore civile è semplicemente la minaccia gli artt. 1434 ss. si riferiscono
letteralmente al contratto concluso da un soggetto, per effetto di una minaccia da lui subita.
Non va intesa come violenza fisica perché questa esclude totalmente il consenso.
Fino al 1942: si affermava che il soggetto minacciato volesse gli effetti dell’atto, in quanto opera una scelta tra:
o subire il male minacciato oppure accettare gli effetti dell’atto.
La minaccia, in base a questa ricostruzione, determina un’anomalia nella formazione della volontà (e non un
difetto di volontà): qui la volontà c’è e c’è la dichiarazione.
Solo la violenza fisica esclude l’esistenza della volontà.
A partire dal 1942: questo inquadramento viene messo in discussione, parte della dottrina ha ammesso che
anche la semplice minaccia può condurre il minacciato a volere gli effetti dell’atto (volontà viziata) o a volere
soltanto la dichiarazione (riservandosi mentalmente di non volerne gli effetti).
Quindi la minaccia può portare sia al vizio della volontà che alla mancanza totale di essa.
Sacco: fa un ragionamento che muove dalla rapina che non presuppone la violenza fisica, essendo sufficiente
(per la sua perfezione) la minaccia. La rapina inoltre, non cessa di essere tale se la vittima, minacciata, dichiara
espressamente al rapitore il proprio consenso alla sottrazione delle cose → in questi casi vediamo che non vi è
una dichiarazione efficace.
Il suo ragionamento ci conduce quindi a concludere che talvolta la minaccia non è soltanto causa di
annullamento della dichiarazione contrattuale, ma è causa di inefficacia automatica (= questa sanzione è 55
caratteristica dei casi in cui la minaccia è più grave, vuoi per il suo oggetto, vuoi per le più pressanti limitazioni
della libertà del soggetto minacciato).
Anche nell’ambito della violenza come minaccia bisogna fare delle distinzioni secondo Sacco, e quindi
riportare nell’ambito della non dichiarazione ipotesi nelle quali la pressione psicologica è tale per cui, piuttosto
che di una dichiarazione efficace ma annullabile, dovremmo parlare di una dichiarazione inefficace o addirittura
di una non dichiarazione
Per Sacco la dichiarazione viziata da minaccia è efficace (salva l’annullabilità) solo quando, da un pdv sociale,
abbia una certa idoneità a creare un affidamento serio nella controparte. Se anche questa idoneità manca allora
la dichiarazione è del tutto inefficace (o meglio il comportamento del minacciato non costituisce una
dichiarazione).
Provenienza della minaccia
La minaccia può provenire dal contraente o da un terzo.
Quando la minaccia proviene da un terzo, abbiamo una deroga al principio dell’affidamento ( principio secondo il
quale se una dichiarazione ha significato diverso da quello che vi ha attribuito l'autore, questi è ugualmente vincolato
in quanto il legislatore, anche
qualora il destinatario abbia fatto sul significato 'apparente' un affidamento incolpevole)
nel caso in cui la minaccia provenga dal terzo, afferma l’annullabilità del contratto viziato, sacrificando in tal
modo la protezione del destinatario della dichiarazione
Tale deroga al principio dell’affidamento dimostra che la minaccia del terzo è considerata dal c.c. un vizio più
grave degli altri.
Tale soluzione consacrata nell’art. 1439, appare però poco coerente con quella adottata nell’art. 1445 (= che di
fronte all’annullamento per vizio del consenso, fa salvi i diritti acquistati dal terzo di buona fede a titolo
oneroso). Dinanzi a questa incoerenza del sistema parte di dottrina vuole applicare il principio di affidamento
anche in caso di violenza proveniente dal terzo e irriconoscibile.
Però secondo Sacco ciò sarà difficile da attuare perché nel nostro sistema prevale la lettera della legge piuttosto
che una simmetria di sistema
La minaccia 3 requisiti:
1. La minaccia deve essere attendibile: deve avere l’attitudine ad impressionare una persona sensata->
prevede una valutazione in astratto. Tuttavia, tale valutazione in astratto viene mitigata dall’ultima parte
dell’art. 1435, secondo cui si ha riguardo anche all’età, al sesso e alla condizione della persona
2. Il male deve essere notevole: ossia le conseguenze minacciate devono essere di non piccolo conto.
3. Il male deve essere ingiusto: deve consistere nella violazione di un diritto altrui. Deve incidere su una
sfera alquanto vicina al soggetto intimorito (sua persona, suoi beni o ente cui appartiene).
All’ingiustizia di cui sia vittima il soggetto minacciato è equiparata quella di cui siano vittima il suo
coniuge, i suoi ascendenti o discendenti (ex art. 1436). Se il male minacciato riguarda altre persone,
l’annullamento del contratto è rimesso alla valutazione delle circostanze da parte del giudice
Timore reverenziale (art.1437 cc): sottrae all’annullamento il contratto concluso per timore reverenziale.
È un atteggiamento che matura unicamente nella persona del contraente che per un’eccessiva soggezione decide
di concludere un contratto indipendentemente dalla sua volontà
La giurisprudenza applica pianamente la norma, ricordando che il timore, per portare all'annullamento,
dev’essere l’effetto di un’azione altrui, e non già la conseguenza di un proprio stato d’animo.
(!) Sacco solleva il problema del trattamento di un contratto che taluno concluda a condizioni gravose per
timore spontaneo, reverenziale e immotivato della controparte, la quale sfrutta la situazione in mala fede.
Lo stesso discorso può valere a proposito del timore di fatti inconsistenti o immaginari: il timor panico può
sconfinare in vera forma di incapacità.
Per questo, secondo Sacco, in tutti questi casi deve applicarsi l'art. 428 c.c.-> il contratto sarà quindi annullabile
se avrà provocato un grave pregiudizio alla parte incapace, e se risulti la mala fede della controparte.
A chi dissente, Sacco ribatte che comunque potrà sempre invocarsi l'art. 1337 c.c.
L’oggettiva ingiustizia del male minacciato
L’oggetto della minaccia deve essere un male ingiusto e notevole.
Tuttavia, ci si chiede quando un male sia ingiusto: quando viola un diritto oppure anche quando arreca un danno
generico (dovendosi considerare come lecito solo l’atto che è esercizio di un diritto)? 56
- Un buon criterio a tal proposito potrebbe essere quello di valutare se la condotta costituisca fatto
ingiusto ex art. 2043 (pertanto sarebbe ingiusto il male che sarebbe giudicato tale ex art. 2043). Þ SE il
male non dovesse essere ingiusto (e pertanto non dovesse rientrare nell’art. 2043), si può desumere che
l’ordinamento non esegua un giudizio di disvalore: pertanto anche se tale fatto viene compiuto, non sarà
sanzionato.
- Nei casi che non rientrano nel 2043 si potrebbe comunque richiamare l’art. 1438 (= minaccia di
esercitare un diritto): tale norma pare sancire un principio generale per cui un fatto di per sè giusto può
diventare ingiusto ove volto a conseguire vantaggi ingiusti.
Il suicidio può costituire oggetto di minaccia ai nostri fini, quantomeno se proveniente da coniuge, discendenti o
ascendenti?
- se riteniamo che per fatto ingiusto si debba ritenere fatto sanzionato, certamente no (= poiché il suicidio non è un
fatto colpito da una sanzione).
- ma ci si può chiedere se la mancata sanzione sia dovuta a ragioni di opportunità diverse dall’ingiustizia del fatto
→ può certamente essere oggetto di minaccia qualora sia il mezzo per commettere altri illeciti (per es. sottrarsi ad
un obbligo di assegno di mantenimento).
L'elemento soggettivo e l'ingiustizia del male
Molti comportamenti sono illeciti anche se meramente colposi, alcuni sono invece illeciti solo se dolosi.
Quando si versi nell’ipotesi dei comuni illeciti colposi (che possono cioè essere commessi anche non
intenzionalmente) la giurisprudenza ha buon gioco a sottolineare che la violenza è qui “ingiusta” anche
se il suo autore non abbia coscienza dell’ingiustizia medesima: non è, infatti, richiesto l'elemento
dell'intenzionalità della condotta, ai fini della sanzionabilità della stessa.
Quando si tratti di illeciti puniti a titolo di dolo, la massima giurisprudenziale diviene meno
rispondente.
(!) Il caso più importante di male, la cui ingiustizia dipende dalla buona o malafede di chi lo attua, è l’ipotesi
della via legale: infatti, il denunziare scientemente un innocente, o l’agire senza ragioni valide, comportano una
sanzione rispettivamente penale o civile e sono quindi illeciti.
Invece, la denunzia e l’azione civile, se proposte in buona fede, sono sempre lecite.
Ma la minaccia, fatta in buona fede, di una denuncia o di un’azione civile obiettivamente infondata sia ingiusta
perché obiettivamente tale o se difetti del requisito dell’ingiustizia perché il fatto minacciato sarebbe a sua volta
sprovvisto del momento psicologico che lo rende ingiusto?
Certo, il soggetto minacciato sarà meglio tutelato se si tiene conto dell'elemento puramente obbiettivo
dell'ingiustizia. Ma non è detto che la legge si preoccupi esclusivamente di tutelare il minacciato, senza
freno e limite alcuno
In primo luogo se esiste un elemento obbiettivo del fatto ingiusto, è però dubbia l'esistenza di una
ingiustizia, o antigiuridicità, obbiettiva: l'ordinamento conosce concrete figure di fatti illeciti
caratterizzati da tutti gli elementi (oggettivi o soggettivi) che sono loro propri, ma non è provato che
esso conosca una figura di illiceità, astratta dai requisiti soggettivi di ogni singola condotta illecita
In secondo luogo, quando difetta la ingiustizia concreta del male minacciato viene a mancare quella
peculiare ragione dell'annullamento per violenza, che consiste nella illiceità della condotta dell'agente.
Tale illiceità dipende dalla illiceità concreta del male minacciato. Se difetta questa illiceità, la minaccia è
lecita, e può determinare tutt'al più (in casi speciali) uno stato di necessità, o una ingiustizia del
vantaggio ottenuto dall'autore della minaccia.
Aggiungiamo che, accolta l'idea dell'irrilevanza del momento soggettivo della minaccia, qualsiasi accordo di
natura transattiva sarebbe condannato all'inutilità pratica, perché il soggetto che transigendo rinuncia a pretese
proprie, o riconosce pretese altrui, è sempre necessitato dalla esplicita o implicita minaccia della controparte, di
proporre denuncia penale, querela, o azione civile, di resistere in giudizio, o, quan