Anteprima
Vedrai una selezione di 7 pagine su 30
Riassunto esame Antropologia culturale, Prof. Mannia Sebastiano, libro consigliato Antropologia culturale, Fabio Dei Pag. 1 Riassunto esame Antropologia culturale, Prof. Mannia Sebastiano, libro consigliato Antropologia culturale, Fabio Dei Pag. 2
Anteprima di 7 pagg. su 30.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Antropologia culturale, Prof. Mannia Sebastiano, libro consigliato Antropologia culturale, Fabio Dei Pag. 6
Anteprima di 7 pagg. su 30.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Antropologia culturale, Prof. Mannia Sebastiano, libro consigliato Antropologia culturale, Fabio Dei Pag. 11
Anteprima di 7 pagg. su 30.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Antropologia culturale, Prof. Mannia Sebastiano, libro consigliato Antropologia culturale, Fabio Dei Pag. 16
Anteprima di 7 pagg. su 30.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Antropologia culturale, Prof. Mannia Sebastiano, libro consigliato Antropologia culturale, Fabio Dei Pag. 21
Anteprima di 7 pagg. su 30.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Antropologia culturale, Prof. Mannia Sebastiano, libro consigliato Antropologia culturale, Fabio Dei Pag. 26
1 su 30
D/illustrazione/soddisfatti o rimborsati
Disdici quando
vuoi
Acquista con carta
o PayPal
Scarica i documenti
tutte le volte che vuoi
Estratto del documento

Il ramo d’oro

esempio di James G. Frazer. Frazer parte da una teoria molto

semplice, concentrata in poche pagine. A suo parere l’umanità primitiva è

dominata da un pensiero magico, basato sulle due grandi leggi

dell’associazione delle idee, la similarità e il contatto. La logica della magia dà

luogo a credenze e rituali che si sviluppano secondo alcuni ipotetici passaggi: lo

spirito della natura si manifesta in varie incarnazioni, culminanti nel mito di un

dio o un re divino che viene ucciso e risorge, simboleggiando il declino e la

rinascita del ciclo della vegetazione. L’opera procede quindi accumulando

centinaia e migliaia di pagine di esempi a supporto di queste ipotesi: esempi

tratti dalla letteratura antica e classica, da documenti del folklore contadino

europeo e da ogni genere di resoconti etnologici. Frazer e i suoi contemporanei

pensavano che la solidità di queste opere consistesse proprio nel loro

fondamento empirico. Ma oggi sono proprio questi resoconti ad apparirci ingenui

ed etnograficamente inutilizzabili, salvo averne riscoperto di recente una qualità

letteraria e quasi romanzesca. Comunque, la sprezzante qualifica di antropologia

da tavolino che nel Novecento sarà attribuita a Frazer e i suoi contemporanei è

eccessivamente ingenerosa. Occorre anche ricordare che gli studi vittoriani non

in loco,

trascuravano affatto la promozione di ricerche specie nelle aree

considerate più “primitive” e per le quali c’era una maggior scarsità di fonti. Gli

antropologi ottocenteschi non erano insensibili all’importanza di una ricerca in

grado di produrre fonti di prima mano.

Ma con il XX secolo si sviluppa progressivamente una diversa sensibilità, che

problematizza proprio il momento della raccolta dei fatti e della produzione

delle fonti. Si delinea allora una nuova figura di antropologo che è al tempo

stesso teorico e ricercatore sul campo. Nei primi vent’anni del Novecento questa

figura trova diversi interpreti soprattutto nel mondo anglofono. Negli Stati Uniti,

la scuola antropologica fondata da Franz Boas praticamente largamente

l’indagine diretta presso vari gruppi di nativi americani. In Inghilterra, si sviluppa

attorno a Cambridge una scuola di “ricerca intensiva in aree limitate”. Ma la

nuova concezione della ricerca sul campo trova la sua espressione più compiuta

e influente nel lavoro di un altro studioso, considerato oggi come vero e proprio

padre fondatore dell’antropologia moderna. Si tratta di Bronislaw Malinowski, un

polacco formatosi a Londra che tra il 1914 e il 1918, trascorse lunghi periodi di

studio nell’arcipelago melanesiano delle Trobriand. Qui condusse una ricerca

etnografica intensiva e solitaria, vivendo all’interno dei villaggi e documentando

tutti gli aspetti della cultura e delle vita quotidiana dei nativi. Al ritorno in Europa,

pubblicò nel 1922 un libro dal suggestivo titolo, Argonauti del Pacifico

occidentale, destinato in breve a diventare non solo un classico, ma il manifesto

e il paradigma di un nuovo modo di intendere la ricerca e di presentarne i

risultati. Gli aspetti caratterizzanti del metodo di Malinowski sono il

decentramento e il coinvolgimento personale, vale a dire quella postura che

egli ha chiamato della osservazione partecipante. Per studiare

adeguatamente una cultura occorre viverla, cioè immergersi in essa e

condividere per un periodo abbastanza lungo la vita quotidiana, le attività, il

modo di pensare dei nativi. Non si tratta solo di procurarsi informazioni

oggettive, ma di stabilire un rapporto empatico con i nativi, di entrare in sintonia

con la loro forma di vita. Questa sintonia soggettiva è per Malinowski una

dimensione fondamentale del sapere antropologico, e che gli studiosi da tavolino

non potranno mai avere. Senza l’osservazione partecipante, non si possono

cogliere quelli che Malinowski chiama “gli imponderabili della vita reale”, vale a

dire i fenomeni che costituiscono la fitta trama delle relazioni sociali. Non basta

essere solo viaggiatori o solo scienziati: nel buon etnografo l’esperienza

soggettiva e l’elaborazione teorica devono combinarsi e fecondarsi a vicenda.

Una conseguenza di ciò è quella che è stata chiamata la natura olistica della

rappresentazione etnografica. Una cultura dev’essere osservata e considerata

come un tutto. I singoli dati etnografici, la registrazione di comportamenti,

norme, valori, tratti di cultura materiale ecc, non si intendono se considerati

separatamente gli uni dagli altri. La cultura è un’entità organica, in cui ogni parte

dipende da ogni altra: e compito dell’antropologo è proprio quello di

comprendere le relazioni tra le varie parti. Argonauti del Pacifico occidentale non

è un resoconto di ricerca come tanti: è il paradigma di un nuovo genere di testo

antropologico, la monografia etnografica, che da allora in poi sostituirà

l’obsoleto format del trattato comparativo. La scrittura monografica è il terreno

in cui sembrano trovare composizione le due componenti apparentemente

inconciliabili della ricerca. Da un lato il carattere soggettivo e vissuto della

partecipazione, l’elemento di empatia necessario per immedesimarsi in una

cultura diversa; dall’altro l’esigenza di una rappresentazione oggettiva e di un

approccio scientifico, centrato su solidi dati piuttosto che su sfuggenti

esperienze.

Dobbiamo intanto notare che il tipo di ricerca proposto da Malinowski diventa lo

standard per le maggiori scuole antropologiche per circa mezzo secolo, dagli anni

’20 agli anni ’70. Ha significato, inoltre, costruire le carriere accademiche attorno

a una specializzazione areale ed etnica, studiando cioè una solo cultura, al

massimo, in alcuni casi, due o tre, ripetendo ogni volta l’intera esperienza di

fieldwork. Ad ogni antropologo il “suo” popolo. Questa organizzazione della

ricerca incoraggiava i giovani a cercarsi gruppi etnici “vergini”, non studiati

prima da altri. Era stato lo stesso Malinowski a insistere esplicitamente su questo

punto; con la motivazione che, in un contesto di rapido mutamento che

minacciava la persistenza delle culture tradizionali, era importante “salvarne” il

maggior numero possibile attraverso la registrazione etnografica. Di

conseguenza, erano scoraggiati i “doppioni”. In questa fase classica,

l’antropologia crede fermamente nell’oggettività dei dati prodotti

dall’osservazione partecipante: pensa alla propria impresa come a una

mappatura universale delle culture. Ma la somma di tante indagini partecipanti e

monografiche finisce per costituire una sorta di banca dati universale. La

dimensione comparativa, abusata dagli evoluzionisti e aggirata con cautela da

Boas e Malinowski, può così tornare in primo piano.

Nel periodo che va dagli anni ’60 agli anni ’80 del Novecento il modello classico

di ricerca sul campo entra in una crisi profonda. Mutano le condizioni che lo

rendevano possibile, dal punto di vista dell’oggetto (chi sono i “primitivi”) come

da quello del soggetto della ricerca (chi sono gli antropologi). Il fattore cruciale è

l’avvio del processo di decolonizzazione. Non si può più pensare a quei popoli

come a “primitivi” immersi in una statica dimensione di arretratezza.

Soprattutto, non si può più considerarli come soggetti “muti” e inconsapevoli,

che hanno bisogno di essere “descritti” da qualcun altro. Essi rivendicano il

diritto a prendere direttamente la parola. L’antropologia, che pretendeva di

parlare di loro e per loro, è vista con sospetto: come una disciplina occidentale

che, in modo esplicito o implicito, è portatrice del punto di vista e degli interessi

del dominio coloniale. Ma anche gli antropologi stessi cambiano, acquisendo una

crescente consapevolezza degli aspetti politici del loro lavoro, da un lato, e I

dall’altro della sua complessità epistemologica. Il successo di un libro come

dannati della terra di Frantz Fanon è indicativo di un atteggiamento del tutto

Dannati della terra

nuovo. Nei sostiene l’idea che l’ordine coloniale può essere

superato solo attraverso una rottura violenta, che implica il disfarsi dei saperi

l’Occidente ha prodotto sugli “altri”; saperi che pretendono una impossibile

neutralità, e cercano di far passare per “culture tradizionali”, “pensiero primitivo”

e così via dei modi di essere che sono di fatto prodotti dal dominio coloniale

stesso. L’esperienza di campo diventa qualcosa di molto diverso: condotta a

partire da ruoli meno “ufficiali”, in rapporto con realtà più fluide e mutevoli, e

“partecipata” in un altro senso, più umano o politico che non puramente

metodologico. Al mutamento delle condizioni etico-politiche della ricerca

corrisponde, nel periodo tra anni ’60 e ’80, un radicale ripensamento

epistemologico: una svolta riflessiva che sottolinea la complessità del rapporto

tra esperienza di ricerca e scrittura etnografica. Possiamo introdurla ripartendo

Diary

da Malinowski e dalla pubblicazione del suo di campo, avvenuta nel 1967

per iniziativa della vedova ma con molte perplessità da parte dei suoi allievi. Il

Diary è un testo eterogeneo, composto in parte in inglese e in parte in polacco,

che presenta l’esperienza di Malinowski alle Trobriand in una luce

Argonauti del Pacifico occidentale

completamente diversa rispetto ad e alle altre

sue monografie. Ne escono come irriconoscibili i due principali protagonisti di

Argonauti: la cultura trobriandese come insieme compatto e armonico, e il

ricercatore totalmente ed empaticamente immerso in essa. Il Malinowski del

Diary è tutt’altro che perfettamente integrato nella società indigena: vive un

profondo e angoscioso senso di spaesamento culturale, è ossessionato dalla

solitudine, dalla privazione sessuale e dall’ipocondria, attraversa frequenti crisi di

collera e depressione nel corso delle quali si lascia andare a insofferenza e

persino a disprezzo razziale verso i “selvaggi”. Da qui l’imbarazzo

dell’establishment antropologico: come ha scritto Clifford Geertz, l’apparizione

Diary

del “rese pubblica l’implausibilità del modo di lavorare degli antropologi

come è normalmente presentato. Il mito dello studioso sul campo simile a un

camaleonte, perfettamente in sintonia con l’ambiente esotico che lo circonda, un

miracolo vivente di empatia, tatto, pazienza e cosmopolitismo, venne demolito

Argonauti

dall’uomo che forse aveva fatto di più per crearlo”. è dun

Dettagli
Publisher
A.A. 2021-2022
30 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-DEA/01 Discipline demoetnoantropologiche

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Davidoski00 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Antropologia culturale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Palermo o del prof Mannia Sebastiano.