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Il ramo d’oro
esempio di James G. Frazer. Frazer parte da una teoria molto
semplice, concentrata in poche pagine. A suo parere l’umanità primitiva è
dominata da un pensiero magico, basato sulle due grandi leggi
dell’associazione delle idee, la similarità e il contatto. La logica della magia dà
luogo a credenze e rituali che si sviluppano secondo alcuni ipotetici passaggi: lo
spirito della natura si manifesta in varie incarnazioni, culminanti nel mito di un
dio o un re divino che viene ucciso e risorge, simboleggiando il declino e la
rinascita del ciclo della vegetazione. L’opera procede quindi accumulando
centinaia e migliaia di pagine di esempi a supporto di queste ipotesi: esempi
tratti dalla letteratura antica e classica, da documenti del folklore contadino
europeo e da ogni genere di resoconti etnologici. Frazer e i suoi contemporanei
pensavano che la solidità di queste opere consistesse proprio nel loro
fondamento empirico. Ma oggi sono proprio questi resoconti ad apparirci ingenui
ed etnograficamente inutilizzabili, salvo averne riscoperto di recente una qualità
letteraria e quasi romanzesca. Comunque, la sprezzante qualifica di antropologia
da tavolino che nel Novecento sarà attribuita a Frazer e i suoi contemporanei è
eccessivamente ingenerosa. Occorre anche ricordare che gli studi vittoriani non
in loco,
trascuravano affatto la promozione di ricerche specie nelle aree
considerate più “primitive” e per le quali c’era una maggior scarsità di fonti. Gli
antropologi ottocenteschi non erano insensibili all’importanza di una ricerca in
grado di produrre fonti di prima mano.
Ma con il XX secolo si sviluppa progressivamente una diversa sensibilità, che
problematizza proprio il momento della raccolta dei fatti e della produzione
delle fonti. Si delinea allora una nuova figura di antropologo che è al tempo
stesso teorico e ricercatore sul campo. Nei primi vent’anni del Novecento questa
figura trova diversi interpreti soprattutto nel mondo anglofono. Negli Stati Uniti,
la scuola antropologica fondata da Franz Boas praticamente largamente
l’indagine diretta presso vari gruppi di nativi americani. In Inghilterra, si sviluppa
attorno a Cambridge una scuola di “ricerca intensiva in aree limitate”. Ma la
nuova concezione della ricerca sul campo trova la sua espressione più compiuta
e influente nel lavoro di un altro studioso, considerato oggi come vero e proprio
padre fondatore dell’antropologia moderna. Si tratta di Bronislaw Malinowski, un
polacco formatosi a Londra che tra il 1914 e il 1918, trascorse lunghi periodi di
studio nell’arcipelago melanesiano delle Trobriand. Qui condusse una ricerca
etnografica intensiva e solitaria, vivendo all’interno dei villaggi e documentando
tutti gli aspetti della cultura e delle vita quotidiana dei nativi. Al ritorno in Europa,
pubblicò nel 1922 un libro dal suggestivo titolo, Argonauti del Pacifico
occidentale, destinato in breve a diventare non solo un classico, ma il manifesto
e il paradigma di un nuovo modo di intendere la ricerca e di presentarne i
risultati. Gli aspetti caratterizzanti del metodo di Malinowski sono il
decentramento e il coinvolgimento personale, vale a dire quella postura che
egli ha chiamato della osservazione partecipante. Per studiare
adeguatamente una cultura occorre viverla, cioè immergersi in essa e
condividere per un periodo abbastanza lungo la vita quotidiana, le attività, il
modo di pensare dei nativi. Non si tratta solo di procurarsi informazioni
oggettive, ma di stabilire un rapporto empatico con i nativi, di entrare in sintonia
con la loro forma di vita. Questa sintonia soggettiva è per Malinowski una
dimensione fondamentale del sapere antropologico, e che gli studiosi da tavolino
non potranno mai avere. Senza l’osservazione partecipante, non si possono
cogliere quelli che Malinowski chiama “gli imponderabili della vita reale”, vale a
dire i fenomeni che costituiscono la fitta trama delle relazioni sociali. Non basta
essere solo viaggiatori o solo scienziati: nel buon etnografo l’esperienza
soggettiva e l’elaborazione teorica devono combinarsi e fecondarsi a vicenda.
Una conseguenza di ciò è quella che è stata chiamata la natura olistica della
rappresentazione etnografica. Una cultura dev’essere osservata e considerata
come un tutto. I singoli dati etnografici, la registrazione di comportamenti,
norme, valori, tratti di cultura materiale ecc, non si intendono se considerati
separatamente gli uni dagli altri. La cultura è un’entità organica, in cui ogni parte
dipende da ogni altra: e compito dell’antropologo è proprio quello di
comprendere le relazioni tra le varie parti. Argonauti del Pacifico occidentale non
è un resoconto di ricerca come tanti: è il paradigma di un nuovo genere di testo
antropologico, la monografia etnografica, che da allora in poi sostituirà
l’obsoleto format del trattato comparativo. La scrittura monografica è il terreno
in cui sembrano trovare composizione le due componenti apparentemente
inconciliabili della ricerca. Da un lato il carattere soggettivo e vissuto della
partecipazione, l’elemento di empatia necessario per immedesimarsi in una
cultura diversa; dall’altro l’esigenza di una rappresentazione oggettiva e di un
approccio scientifico, centrato su solidi dati piuttosto che su sfuggenti
esperienze.
Dobbiamo intanto notare che il tipo di ricerca proposto da Malinowski diventa lo
standard per le maggiori scuole antropologiche per circa mezzo secolo, dagli anni
’20 agli anni ’70. Ha significato, inoltre, costruire le carriere accademiche attorno
a una specializzazione areale ed etnica, studiando cioè una solo cultura, al
massimo, in alcuni casi, due o tre, ripetendo ogni volta l’intera esperienza di
fieldwork. Ad ogni antropologo il “suo” popolo. Questa organizzazione della
ricerca incoraggiava i giovani a cercarsi gruppi etnici “vergini”, non studiati
prima da altri. Era stato lo stesso Malinowski a insistere esplicitamente su questo
punto; con la motivazione che, in un contesto di rapido mutamento che
minacciava la persistenza delle culture tradizionali, era importante “salvarne” il
maggior numero possibile attraverso la registrazione etnografica. Di
conseguenza, erano scoraggiati i “doppioni”. In questa fase classica,
l’antropologia crede fermamente nell’oggettività dei dati prodotti
dall’osservazione partecipante: pensa alla propria impresa come a una
mappatura universale delle culture. Ma la somma di tante indagini partecipanti e
monografiche finisce per costituire una sorta di banca dati universale. La
dimensione comparativa, abusata dagli evoluzionisti e aggirata con cautela da
Boas e Malinowski, può così tornare in primo piano.
Nel periodo che va dagli anni ’60 agli anni ’80 del Novecento il modello classico
di ricerca sul campo entra in una crisi profonda. Mutano le condizioni che lo
rendevano possibile, dal punto di vista dell’oggetto (chi sono i “primitivi”) come
da quello del soggetto della ricerca (chi sono gli antropologi). Il fattore cruciale è
l’avvio del processo di decolonizzazione. Non si può più pensare a quei popoli
come a “primitivi” immersi in una statica dimensione di arretratezza.
Soprattutto, non si può più considerarli come soggetti “muti” e inconsapevoli,
che hanno bisogno di essere “descritti” da qualcun altro. Essi rivendicano il
diritto a prendere direttamente la parola. L’antropologia, che pretendeva di
parlare di loro e per loro, è vista con sospetto: come una disciplina occidentale
che, in modo esplicito o implicito, è portatrice del punto di vista e degli interessi
del dominio coloniale. Ma anche gli antropologi stessi cambiano, acquisendo una
crescente consapevolezza degli aspetti politici del loro lavoro, da un lato, e I
dall’altro della sua complessità epistemologica. Il successo di un libro come
dannati della terra di Frantz Fanon è indicativo di un atteggiamento del tutto
Dannati della terra
nuovo. Nei sostiene l’idea che l’ordine coloniale può essere
superato solo attraverso una rottura violenta, che implica il disfarsi dei saperi
l’Occidente ha prodotto sugli “altri”; saperi che pretendono una impossibile
neutralità, e cercano di far passare per “culture tradizionali”, “pensiero primitivo”
e così via dei modi di essere che sono di fatto prodotti dal dominio coloniale
stesso. L’esperienza di campo diventa qualcosa di molto diverso: condotta a
partire da ruoli meno “ufficiali”, in rapporto con realtà più fluide e mutevoli, e
“partecipata” in un altro senso, più umano o politico che non puramente
metodologico. Al mutamento delle condizioni etico-politiche della ricerca
corrisponde, nel periodo tra anni ’60 e ’80, un radicale ripensamento
epistemologico: una svolta riflessiva che sottolinea la complessità del rapporto
tra esperienza di ricerca e scrittura etnografica. Possiamo introdurla ripartendo
Diary
da Malinowski e dalla pubblicazione del suo di campo, avvenuta nel 1967
per iniziativa della vedova ma con molte perplessità da parte dei suoi allievi. Il
Diary è un testo eterogeneo, composto in parte in inglese e in parte in polacco,
che presenta l’esperienza di Malinowski alle Trobriand in una luce
Argonauti del Pacifico occidentale
completamente diversa rispetto ad e alle altre
sue monografie. Ne escono come irriconoscibili i due principali protagonisti di
Argonauti: la cultura trobriandese come insieme compatto e armonico, e il
ricercatore totalmente ed empaticamente immerso in essa. Il Malinowski del
Diary è tutt’altro che perfettamente integrato nella società indigena: vive un
profondo e angoscioso senso di spaesamento culturale, è ossessionato dalla
solitudine, dalla privazione sessuale e dall’ipocondria, attraversa frequenti crisi di
collera e depressione nel corso delle quali si lascia andare a insofferenza e
persino a disprezzo razziale verso i “selvaggi”. Da qui l’imbarazzo
dell’establishment antropologico: come ha scritto Clifford Geertz, l’apparizione
Diary
del “rese pubblica l’implausibilità del modo di lavorare degli antropologi
come è normalmente presentato. Il mito dello studioso sul campo simile a un
camaleonte, perfettamente in sintonia con l’ambiente esotico che lo circonda, un
miracolo vivente di empatia, tatto, pazienza e cosmopolitismo, venne demolito
Argonauti
dall’uomo che forse aveva fatto di più per crearlo”. è dun