Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
L’APPROCCIO INTERAZIONISTA
L'idea alla base di tale approccio è che l'azione di un soggetto derivi dall'interazione continua
tra individuo e situazione in cui si trova. Come conseguenza, si può sostenere che non siano
solo le situazioni ad influenzare l'individuo, ma anche l'individuo stesso può essere in grado di
selezionare attivamente le situazioni che intende fronteggiare.
Il postulato alla base del modello interazionista, quindi, è che raccogliere informazioni
relativamente alle dimensioni di personalità di un atleta non è più sufficiente. Infatti, diventa
indispensabile identificare le specifiche situazioni sportive a cui riferire le risposte degli atleti.
Cox (2001) ha provato ad analizzare l'importanza di vari fattori in relazione alle prestazioni
sportive. Egli ha riscontrato che le variabili personalità, situazione ed interazione tra
personalità e situazione insieme contribuivano a spiegare quasi la metà della varianza relativa
alle prestazioni atletiche.
Un notevole interesse e numerose applicazioni ha prodotto un approccio interazionista ideato
per lo studio dell’ansia di tratto e di stato (Spielberger e colleghi, 1970). Tale modello aveva
l'obiettivo di distinguere l'ansia intesa in termini di reazioni a specifiche situazioni, da quella
relativamente costante e indipendente dalle circostanze. Quest’ultima è stata denominata
ansia di tratto e si riferisce ad una modalità stabile di percepire in maniera ansiogena un'ampia
ansia di stato
gamma di situazioni della propria vita quotidiana. La prima, invece, è definita ed
è stata teorizzata come uno stato emotivo passeggero, che si presenta quando un soggetto
percepisce in maniera ansiogena specifiche situazioni che gli si presentano. Tale modello è
stato applicato alla psicologia dello sport attraverso l’elaborazione di una specifica teoria ideata
da Martens, che prevede l'analisi di ansia di tratto e di stato competitiva attraverso l'utilizzo di
due distinti strumenti di misura.
Oltre tale lavoro, Morgan ha teorizzato un differente modello che non segue l'approccio tratto-
stato, bensì ipotizza che un certo numero di tratti e condizioni di stato interagiscono
reciprocamente determinando la salute mentale degli atleti. Egli si è servito delle dimensioni di
estroversione-introversione e nevroticismo- stabilità emotiva di Eysenck e del modello di ansia
di tratto-stato di Spielberger. Tale teoria prevedeva che uno stato mentale positivo fosse
determinato da livelli di estroversione elevati e da livelli di nevroticismo e di ansia di tratto e di
stato bassi.
STATI D'ANIMO DI PROFILAZIONE - POMS
Sappiamo che, nonostante siamo in grado di tracciare profili di personalità degli atleti, ciò non
è necessariamente utile per prevedere quanto bene gli atleti performeranno. Però, l’approccio
interazionista ci fornisce una diversa lente per approcciarci al problema. Infatti, una possibilità
alternativa al cercare di misurare i tratti di personalità di un individuo, consiste nel misurare il
suo umore al momento della prestazione. In generale, uno stato d'animo, in qualsiasi
momento, è un prodotto di personalità e situazione; esso, quindi, riguarda una condizione che
da un lato coinvolge in modo totale il soggetto, ma dall'altro si presenta come transitoria e
fluttuante. L’umore può essere definito come una condizione affettiva di fondo connotata in
maniera piacevole o spiacevole e che contraddistingue ogni pensiero o comportamento umano.
McNair e colleghi (1972) hanno sviluppato il Profile of Mood States (POMS), un
questionario di 58 aggettivi che descrivono diverse sensazioni ed a cui il partecipante deve
rispondere utilizzando una scala likert a 5 punti, i cui estremi sono “per nulla” e “moltissimo”.
La risposta che l'individuo è chiamato a fornire relativamente ad ogni aggettivo è funzione
dell'intensità con cui egli ha sperimentato quella sensazione nell'ultima settimana. Attraverso
45
le risposte dei partecipanti si ottengono dei punteggi relativamente a sei aree, che sono:
tensione, depressione, aggressività, vigore, stanchezza e confusione. Oltre a ciò, è
possibile anche ottenere un punteggio globale dell’umore che si ricava combinando i punteggi
delle 6 scale.
Il POMS è stato originariamente sviluppato per valutare lo stato dei pazienti psichiatrici, ma ha
rapidamente preso piede nel campo della psicologia dello sport.
Morgan (1979) è uno dei ricercatori che ha condotto il maggior numero di lavori su questo
tema, riscontrando che gli atleti di successo manifestano, in generale, stati dell'umore più
positivi rispetto agli atleti di minor successo. In base a tali studi, egli ha tracciato il profilo
dell'umore degli atleti d'élite, utilizzando ognuna delle sei scale previste dal POMS. In
particolare, ha riscontrato come gli atleti d'élite ottengano un punteggio basso per la maggior
parte delle scale in questione, in particolare per tensione e depressione, ma punteggi più in alti
profilo
alla scala sul vigore. Tale tipo di punteggi danno luogo al cosiddetto “
dell’iceberg(dell’umore) ”, che numerosi studi hanno dimostrato essere presente in molti
atleti d'élite di una varietà di sport differenti (fondisti, lottatori e canottieri). Bell e Howe
(1988) hanno, poi, trovato questo tipo di profilo nei triatleti, mentre Gat e McWhirter (1998)
lo hanno riscontrato nei ciclisti.
Sono state, inoltre, evidenziate delle differenze degli stati dell'umore pre-gara in relazione al
ruolo che agli atleti (rugbisti) era stato assegnato: titolari, riserve in panchina e in tribuna
(Beccarini, Cei, Manili, 1995). Differenze più marcate sono emerse tra i titolari e i panchinari; in
particolare, i titolari erano significativamente meno arrabbiati, depressi, stanchi e confusi.
DISCUSSIONE DELL'APPROCCIO INTERAZIONISTA
In definitiva, l'approccio interazionista esaminando il modo in cui gli individui rispondono a
specifiche situazioni legate allo sport, si è rivelato essere più utile dell’approccio che faceva
ricorso all’analisi dei tratti di personalità nel prevedere le prestazioni atletiche. Naturalmente,
nella pratica, i due approcci possono essere utilizzati contestualmente. Infatti, quando bisogna
tracciare il profilo di un atleta al fine di identificare le sue modalità di funzionamento e le sue
aree di miglioramento, il modo migliore per farlo consiste nell’includere informazioni sia sulla
personalità che sugli stati dell’umore.
Prapavessis (2000) sottolinea che, quando gli studi hanno provato a comparare i punteggi
medi POMS di atleti d'élite e di atleti di basso livello, non si sono riscontrate ampie differenze
individuali. Ciò è stato confermato anche da un lavoro sui golfisti (Hassmen et al, 1998), ad
esempio, in cui gli stati d'animo pre-performance erano associati con le prestazioni per alcuni
atleti, ma non per altri. Pertanto, ci sarebbero anche atleti di grande successo che non
mostrano il cosiddetto “profilo dell’iceberg”.
In generale, si può, quindi, sostenere che anche i punteggi POMS siano solo, moderatamente,
predittivi delle effettive prestazioni degli atleti.
L’AUTOEFFICACIA
Albert Bandura (1997) definisce l’autoefficacia come la fiducia che una persona ripone
nella propria capacità di affrontare un compito specifico raggiungendo livelli stabiliti
di prestazione.
Le convinzioni di autoefficacia svolgono un ruolo estremamente importante nei diversi contesti
dell’esperienza individuale, in quanto i modi in cui gli individui decidono di agire sono
significativamente condizionati da come e quanto essi si ritengono effettivamente in grado di
fare.
Gli individui mantengono il loro impegno costante in un'attività, anche difficile, se nutrono
fiducia nelle proprie capacità di portarla a termine positivamente.
La teoria dell'autoefficacia evidenzia la percezione soggettiva di capacità, focalizzandosi,
quindi, su ciò che un individuo crede di essere capace di fare.
Bandura successivamente alla definizione del concetto di autoefficacia, ha sviluppato una
cornice teorica più ampia, la Social-Cognitive Theory (1986; 1999; 2001), all’interno della
quale le convinzioni di autoefficacia svolgono un ruolo primario ed alla mente umana vengono
riconosciute le proprietà fondamentali di un sistema «agentico», cioè di un sistema
contraddistinto da straordinarie possibilità di trasformazione del mondo circostante, nel
persona comportamento
contesto di un rapporto di influenza reciproca e continua tra , e
ambiente (Bandura, 2006). Per tale relazione di causazione reciproca Bandura ha coniato
l’espressione «Reciproco Determinismo Triadico».
46
La teoria di Bandura prevede, quindi, che le convinzioni di autoefficacia rappresentino la
massima espressione della capacità umana di autoregolazione, autoriflessione ed
apprendimento dall’esperienza.
EFFETTI DELL’AUTOEFFICACIA
Osservando il ruolo che le convinzioni di autoefficacia svolgono nell’ambito del funzionamento
individuale, si possono individuare quattro tipi di processi (Bandura, 1997) da esse
influenzati. i processi decisionali e di
L’autoefficacia percepita, innanzitutto, come anticipato, influenza
selezione rispetto alle attività da intraprendere ; le persone, infatti, sono generalmente più
disposte ad impegnarsi in attività e compiti nei quali si ritengono efficaci e tendono ad evitare
quelli in cui percepiscono come elevata la probabilità di fallimento.
Una volta che si è deciso di intraprende un’attività o di affrontare un compito, le convinzioni di
la definizione degli obiettivi lo sforzo profuso, la perseveranza di
autoefficacia influenzano ,
fronte agli ostacoli e ai fallimenti le aspettative sulle conseguenze dei comportamenti adottati
,
e i giudizi di causalità sugli esiti delle azioni . Le persone che dubitano della propria efficacia
tendono a scegliere obiettivi poco sfidanti, limitano gli sforzi di fronte agli ostacoli e anticipano
scenari futuri di fallimento, attribuendo gli eventuali successi a cause esterne e transitorie o
alla fortuna. Al contrario, chi nutre un’elevata fiducia nelle proprie capacità tende a stabilire
obiettivi ambiziosi, mostra un saldo impegno anche di fronte alle difficoltà e anticipa frequenti
scenari di successo; un’elevata autoefficacia favorisce, inoltre, l’adozione di stili di attribuzione
causale a sé vantaggiosi, nei quali i successi vengono attribuiti alle proprie capacità, mentre gli
insuccessi sono imputati a strategie inadeguate, ma migliorabili, o a circostanze avverse che
non possono essere controllate.
i processi cognitivi
L’autoefficacia percepita influenza anche , favorendo l’adozione di strategie
appropriate di decision making e di problem solving , soprattutto di fronte a compiti ed
attività complesse che r