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LA PRIMA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
La prima rivoluzione industriale, che prese avvio alla fine del XVIII, segnò una profonda rottura con il
sistema agricolo-artigianale-commerciale, dovuta all’innesco di un processo di industrializzazione che vide
emergere principalmente il settore tessile-metallurgico. Simbolo di questo primo grande processo
rivoluzionario è la macchina a vapore.
La “rottura” non riguardò esclusivamente il settore, transitando da quello agricolo a quello tessile-
metallurgico, ma anche e soprattutto il modo di concepire il lavoro.
Ad esempio, nella fase pre-rivoluzionaria, la lavorazione dei tessuti prevedeva quattro fasi distinte, che
richiedevano il coinvolgimento di circa 15/20 persone per telaio. Con l’avvento dell’invenzione di Wright ,
era sufficiente un solo uomo per supervisionare due telai meccanici, con un risparmio, in termini di forza
lavoro, notevole: il rapporto è, infatti, di 1:40.
Altro aspetto caratterizzante la rivoluzione fu l’impiego di nuove fonti energetiche, principalmente
idrocarburi e combustibili fossili.
Ultimo ma non meno importante fattore innovativo riguarda il luogo dove ha sede l’attività lavorativa, la
fabbrica, principale luogo di produzione dove si concentrano capitale e lavoro. Nasce la classe operaia (o
proletaria) che riceveva, in cambio del lavoro e del suo tempo, un salario.
Differentemente dall’artigiano (che, al pari degli artisti, si occupava interamente del processo produttivo),
la classe operaia riceveva specifici compiti impartiti dal capitalista (imprenditore proprietario della fabbrica
e dei mezzi di produzione, orientato alla massimizzazione del profitto).
Si assistette ad un’impennata della capacità produttiva delle aziende, e fu possibile un miglioramento
diffuso, sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo.
Appunti non ufficiali del corso ORGANIZZAZIONE AZIENDALE tenuto dal prof GABRIELE MORANDIN distribuiti gratuitamente Dario Cannata
Tra i primi a studiare come l’organizzazione del lavoro poteva fungere da leva per incrementare la capacità
produttiva, va citato Adam Smith, filosofo ed economista scozzese, che si focalizzò con maggiore attenzione
sulla divisione del lavoro.
Nel 1776 pubblica “La ricchezza delle nazioni” dove, in uno dei passi più celebri, esplora il funzionamento
della fabbricazione degli spilli. Rilevò che un operaio non addestrato né abituato all’uso di macchine
specifiche avrebbe potuto produrre massimo uno spillo al giorno. Con l’avvento della rivoluzione, l’attività
di fabbricazione si sarebbe potuta dividere in molte fasi distinte, ciascuna corrispondente a mestieri
particolari con compiti specifici (ad es. c’è chi si occupa di svolgere il filo metallico, chi di raddrizzarlo, chi di
tagliarlo, chi di arrotolarlo nella parte destinata alla capocchi etc.). Ripartendo in 18 operazioni distinte la
fabbricazione dello spillo, e assegnando a ciascuna persona una, due o massimo tre fasi, con dieci uomini si
riuscivano a produrre complessivamente oltre 48.000 spilli in un giorno, con una media di 4.800 spilli a
testa. E quanto applicato in questo campo era da potersi replicare nella maggior parte delle altre arti o
produzioni. Così come dimostrato da Smith, “la divisione del lavoro, nella misura in cui può essere
introdotta, determina in ogni attività un aumento della produzione del lavoro”.
LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Tra fine Ottocento e inizio Novecento il panorama geopolitico muta (il Risorgimento italiano porta
all’unificazione del Regno; in Europa, la Francia, la Prussia e molti altre nazioni si contendono il
predominio). Gli Usa soffrono per la grande depressione che affligge il paese tra il 1873 e il 1896.
Poco dopo scoppia il primo conflitto mondiale, al termine del quale, mentre l’economia europea stenta e in
Italia, tra il 1919 e il 1920, le fabbriche del triangolo industriale vengono occupate, negli Stati Uniti si assiste
ad una crescita del 70% della produzione, nel periodo 1919-1929, che porterà, il 24 ottobre 1929 (il famoso
“giovedì nero”), ad una nuove impasse economica: la sovrapproduzione. Per far fronte alla crisi, Roosevelt
nel 1932 propone il New Deal, riuscendo a ristabilizzare la situazione.
Ma le conseguenze del disagio economico europeo, affiancate alle mire espansionistiche dei despoti del
continente, porteranno allo scoppio del secondo grande conflitto mondiale.
IL TAYLORISMO
Nel frattempo, nuove e grandi imprese (ad oggi ancora in salute) diventano protagoniste della scena: la
Fiat, la Pirelli, la Piaggio, la Ford, la Mercedes e tante altre ancora. Nasce il cinema, comincia a diffondersi la
radio e si rivoluziona il modo di vivere la quotidianità.
L’incremento della produttività sposta il focus del problema organizzativo all’interno delle unità produttive.
Ci si comincia a chiedere come suddividere i processi in fasi e impiegare la manodopera in maniera
efficiente.
In questo scenario fa la sua comparsa Frederick Taylor, considerato tra i più grandi pensatori statunitensi.
Nato in Pennsylvania in una famiglia agiata, inizialmente destinato ad Harvard, diventa poi capo operaio e si
laurea in ingegneria grazie a studi serali. Comincia a fare esperienze formative presso due acciaierie (la
Midvale Steel Company e la Bethlehem Steel), nelle quali conduce i primi studi sulla riorganizzazione della
produzione, ma fu presto costretto ad abbandonarle a causa delle cattive relazioni con il resto del corpo
dirigente. La sue idee entrarono in contrasto con molti esponenti del mondo politico e industriale, tant’è
subì un processo al congresso degli Stati Uniti.
Appunti non ufficiali del corso ORGANIZZAZIONE AZIENDALE tenuto dal prof GABRIELE MORANDIN distribuiti gratuitamente Dario Cannata
Per Taylor era possibile analizzare scientificamente le azioni e le operazioni per massimizzare l’output con il
minimo input di risorse. Per farlo, parte da una prospettiva micro, iniziando a studiare le azioni individuali
dei singoli lavoratori. L’approccio che adotta è noto come Scientific Management, articolato in fasi come di
seguito elencate:
1. Campionamento di un alto numero di modalità empiriche praticate da persone eccezionalmente
abili;
2. Scomposizione del lavoro (mansione) nelle operazioni (compiti) e nei movimenti elementari;
3. Determinazione con il cronometro del tempo richiesto per compiere ciascun movimento e scelta
del procedimento più rapido, anche attraverso l’eliminazione dei movimenti inutili;
4. Determinazione del tempo relativo alla mansione per somma dei tempi elementari dei
procedimenti più rapidi;
5. Studio delle attrezzature con la stessa logica.
I cambiamenti proposti da Taylor erano tanti e vari. Genericamente, la strategia da lui ritenuta vincente
doveva prevedere:
Assegnazione a ogni operaio di un compito giornaliero esattamente definito;
Predisposizione di condizioni standardizzate e strumenti tali da consentire al lavoratore il suo
compito;
Riconoscimento di una paga alta in caso di riuscita;
Penalizzazione progressiva in caso di insuccesso;
Stabilire un “ufficio programmazione” per:
o predisporre il lavoro nei minimi dettagli;
o occuparsi di tutte le attività non esecutive, sottraendole all’arbitrio di operai e caporeparto.
Oggi molte delle cose da lui introdotte sono presenti nelle imprese (ad es. gli “uffici tempi e metodi”, che
hanno come obiettivo quello di determinare movimento e tempi elementari per massimizzare la
produttività).
L’introduzione della direzione scientifica non solo toccò la sorte dei lavoratori, ma anche quella dei
dirigenti. Gli imprenditori e i manager non potevano fare quello che ritenevano più sensato: avrebbero
dovuto fare ciò che l’analisi scientifica faceva risultare ottimale. Scrive Taylor, “Sotto la direzione scientifica
il potere della direzione cessa: e ogni singolo tema, piccolo o grande, diventa soggetto dell’indagine
scientifica, alla riduzione in leggi. L’uomo alla testa dell’impresa sotto la direzione scientifica è governato da
regole e leggi che sono state sviluppate grazie a centinaia di esperimenti, così come è stato per il lavoratore,
e gli standard sviluppati sono imparziali.”
In questo modo, Taylor arriva a definire i principi dell’organizzazione scientifica dell’attività produttiva,
ritenendo che è possibile:
studiare scientificamente il lavoro;
selezionare scientificamente le persone (identificando le capacità ottimali di ognuno);
addestrare e rispettare impeccabilmente le procedure codificate;
separare nettamente attività di programmazione e di esecuzione.
Taylor credeva che con questo metodo gli interessi dei lavoratori e dei manager sarebbero stati compatibili,
perché tutti erano governati dal potere imparziale della scienza.
Appunti non ufficiali del corso ORGANIZZAZIONE AZIENDALE tenuto dal prof GABRIELE MORANDIN distribuiti gratuitamente Dario Cannata
In questo modo cambia completamente l’esperienza del lavoro. Gli operai diventano semplici esecutori e la
direzione diviene il fulcro della fabbrica, intorno cui ruota tutto, il cuore scientifico che avrebbe garantito ai
capitalisti la massima produzione.
Le conoscenze tecniche andavano sottratte a chi ne sapeva di più (in quel momento, gli operai). Per
ottenere la loro collaborazione Taylor studiò un sistema di cottimo (definito "differenziale") ben diverso da
quelli in vigore all'epoca. Basato su compensi e penalizzazioni "a gradini", legati al raggiungimento di
determinati obiettivi, il cottimo differenziale avrebbe permesso ai migliori di aumentare i guadagni. Per
contro, avrebbe portato all'espulsione di coloro che non si piegavano alla razionalizzazione.
LE CRITICHE A TAYLOR
Il metodo Taylorista si è portato dietro ingenti critiche soprattutto a causa dell’approccio asettico con i
lavoratori, considerati non più individui scienti ma obbedienti automi. Nel 1803, Battista Sei scrive, a tal
proposito, “è triste raccontare di non aver fatto altro che 1/18 di uno spillo”.
La critica più marcata e insolita a Taylor, fatta eccezione per il processo al congresso, venne niente di meno
che da Charlie Chaplin.
Chaplin nasce in una famiglia di artisti di strada. A 30 anni firma già contratti milionari. La sua vita privata è
burrascosa: 4 matrimoni, 10 figli ufficiali. Per via delle sue accese simpatie per i movimenti di sinistra fu
messo sotto controllo dall’FBI, che gli negò il rientro negli Stati Uniti nel 1952. Morì in svizzera nel 1977, il
giorno di Natale.
L’opera che meglio lo ritrae è Tempi Moderni (la cui pellicola, insieme alle altre, è stata consegnata dalla
famiglia alla cineteca di Bologna), risal