Le teorie sulla natura giuridica dell’azienda universalità di diritto o aziendale (in base alla
Sulla natura giuridica dell’azienda sono definizione di azienda del codice civile e alla
state formulate nel corso del tempo due diverse disposizione che consente il sequestro giudiziario
teorie: dell’intera azienda a tutela dei creditori; art. 670
• Le teorie atomistiche, che considerano l’azienda c.p.c.).
come un insieme di beni separati che conservano
la propria autonomia giuridica (in quanto la Entrambe le tesi tuttavia non sono esenti
cessione dell’azienda richiede la forma prevista da critiche: da un lato, infatti, l’azienda ha una
dalla legge per il trasferimento dei <<singoli funzione e un valore diversi dalla semplice somma
beni che compongono l’azienda>>; art. 2556); dei singoli beni che la compongono e, dall’altro,
• Le teorie unitarie, che sostengono che l’azienda può essere composta anche da beni immobili e/o
è una universalità di beni o, secondo un’altra da beni che non appartengono necessariamente
impostazione, una forma particolare di alla medesima persona.
La circolazione dell’azienda
L’azienda può formare oggetto di atti di disposizione di diversa natura. Può essere
venduta, conferita in società, donata e sulla stessa possono essere altresì costituiti diritti reali
(usufrutto) o personali (affitto) di godimento a favore di terzi. L’imprenditore può ovviamente
compiere anche atti di disposizione che riguardano uno o più beni aziendali.
È importante stabilire in concreto se un determinato atto di disposizione dell’imprenditore
sia da qualificare come trasferimento di azienda o come trasferimento di singoli beni aziendali,
dato che solo nel primo caso potrò trovare applicazione la disciplina ricollegata alla circolazione di
un complesso aziendale. La distinzione, netta in teoria, non sempre è però agevole in pratica,
soprattutto quando l’atto di disposizione comprenda solo parte dei beni aziendali. Inoltre, può
verificarsi che le parti ricorrano ad espedienti, quale il frazionamento del trasferimento
dell’azienda in più atti separati, per sottrarsi agli effetti nei confronti dei terzi che ex legge
conseguono al trasferimento di un’azienda (subingresso dell’acquirente nei contratti di lavoro e
responsabilità dello stesso per i debiti aziendali).
Un’azienda può essere trasferita a causa di morte, secondo le norme sulla successione
ereditaria, o per atto tra vivi. In particolare, il trasferimento tra vivi può riguardare la proprietà
dell’azienda (cessione dell’azienda: vendita, permuta o donazione) oppure un diritto di godimento
reale o personale di carattere temporaneo (usufrutto o affitto dell’azienda).
Secondo il principio generale di libertà della forma, che facilita la circolazione della
ricchezza, di regola l’atto di cessione di un’azienda non richiede una forma determinata; tuttavia è
necessaria, a pena di nullità, la forma essenziale eventualmente richiesta dalla legge per la
particolare natura di singoli beni aziendali o per il particolare tipo di contratto.
Il contratto di trasferimento di un’azienda agricola, comprendente il bestiame, gli attrezzi e una
stalla in affitto, può essere stipulato anche verbalmente o tacitamente; la vendita di un’azienda richiede la
forma scritta quando produce il trasferimento della proprietà o di un diritto reale di godimento su un bene
immobile; la donazione di un’azienda deve essere fatta con atto pubblico.
Per le imprese soggette all’obbligo di iscrizione nel registro generale delle imprese, però,
l’atto di cessione dell’azienda richiede:
• la forma scritta ma soltanto ai fini della prova o, in mancanza, non è possibile provare il
trasferimento con testimoni o per presunzioni (artt. 2725, 2729);
• un atto pubblico o una scrittura privata autenticata, non essendo sufficiente una semplice
scrittura privata, ai fini pubblicitari (art. 2556, modificato dalla l. 12 agosto 1993, n. 310) o, in
mancanza, non può essere iscritto nel registro delle imprese e il trasferimento è opponibile ai
terzi soltanto dimostrando che ne erano effettivamente a conoscenza.
La legge ricollega alla cessione di un’azienda i seguenti effetti:
• il divieto di concorrenza;
• la successione nei contratti;
• la cessione dei crediti;
• la responsabilità per i debiti.
Al riguardo è da notare che, secondo la giurisprudenza, la cessione di un’azienda non
richiede un’elencazione dettagliata di tutti i beni aziendali, mentre è necessario indicare uno per
uno i beni che si vogliono eventualmente escludere dal trasferimento; tuttavia i beni che vengono
esclusi non devono essere così numerosi o così importanti da trasformare, di fatto, la cessione di
un’azienda nel trasferimento di singoli beni aziendali.
La prima conseguenza legale del trasferimento di un’azienda è costituita dal divieto di
concorrenza a carico dell’alienante (art. 2557).
Colui che cede un’azienda non può iniziare per cinque anni una nuova impresa che,
in relazione alle circostanze in cui viene svolta (l’oggetto, l’ubicazione ecc.), sia idonea in
concreto a sviare o sottrarre la clientela dell’azienda ceduta (art. 2557).
Il gestore di una boutique non può, dopo averla ceduta, aprire un nuovo negozio di
abbigliamento nello stesso quartiere o nella stessa città, ma può farlo in un’altra città (perché non vi è il
rischio, in concreto, di sottrazione della clientela) oppure può iniziare un’attività completamente diversa (per
esempio la gestione di una macelleria o di una lavanderia) nella stessa città o in un’altra città.
La norma contempera due opposte esigenze. Quella dell’acquirente dell’azienda di
trattenere la clientela dell’impresa e quindi di godere dell’avviamento (soggettivo), del quale di
regola si è tenuto conto nella pattuizione del prezzo di vendita. Quella dell’alienante a non vedere
compressa la propria libertà di iniziativa economica oltre un determinato arco di tempo
(legislativamente ritenuto) sufficiente per consentire all’acquirente di consolidare la propria
clientela. Quindi la disposizione in esame introduce una limitazione della libertà dell’iniziativa
economica privata ed è giustificata dal fatto che l’alienante, sfruttando le sue conoscenze e le sue
capacità, potrebbe sottrarre i clienti all’acquirente dell’azienda.
Questo divieto è derogabile e ha carattere relativo: sussiste nei limiti in cui la nuova attività
di impresa dell’alienante sia potenzialmente idonea a sottrarre clientela all’azienda ceduta. Le
parti possono anche ampliare la portata dell’obbligo di astensione (ad esempio, ad attività non
direttamente concorrenziali.
L’eventuale patto di astensione dalla concorrenza però incontra alcuni limiti inderogabili
stabiliti dalla legge, per non ridurre in misura eccessiva la libertà di iniziativa economica
dell’alienante, in quanto:
• le parti possono anche ampliare la portata dell’obbligo di astensione (ad esempio, ad attività
non direttamente concorrenziali), ma non può impedire all’alienante l’esercizio di qualsiasi
attività professionale o, in caso contrario, è nullo;
• non può avere durata superiore a cinque anni o, se è stato concordato un periodo più lungo o a
tempo indeterminato, è valido soltanto per cinque anni.
Campobasso: è da notare che il divieto di concorrenza riguarda l’inizio di una nuova impresa
concorrente. Esso però non sempre è puntualmente rispettato dall’alienante e frequenti sono anzi i tentativi
di eludere il divieto attraverso diversi espedienti. Ad esempio, si vende l’azienda e si inizia attività
concorrente avvalendosi di un prestanome o costituendo una società di comodo. Ancora, si aliena l’azienda
e si entra come dirigente in un’impresa concorrente o si diventa amministratore unico di una società
concorrente.
È discutibile se in tutti questi casi vi sia stato inizio di una nuova impresa da parte dell’alienante e
violazione del relativo obbligo di non fare. L’esigenza di garantire l’effettivo rispetto del dettato legislativo
induce tuttavia a propendere per un’interpretazione estensiva della formula: il divieto dovrà ritenersi violato
ogni qualvolta si sia avuto sviamento di clientela dall’azienda ceduta, per fatto concorrenziale direttamente
o indirettamente imputabile all’alienante. Il che, però, non è sempre agevole da provare. È perciò
opportuno che ‘atto di alienazione contenga specifiche e ben congegnate clausole al riguardo, rese
possibili dalla consentita estensione pattizia del divieto di concorrenza (art. 2557, 2° comma).
e non anche la eventuale continuazione di un’altra impresa concorrente, che l’alienante già esercitava
prima della cessione dell’azienda.
Il divieto è da ritenersi applicabili non solo alla vendita volontaria di azienda, ma altresì quando la
vendita è coattiva. Il divieto graverà perciò in testa all'imprenditore fallito nel caso di vendita in blocco
dell'azienda da parte degli organi fallimentari, dato che la vendita pur sempre per oggetto l'azienda del
fallito e non possono che ricadere sullo stesso tutti gli effetti di legge ricollegati alla vendita. E ciò anche se
il negozio è posto in essere dagli organi preposti alla procedura.
Maggiori incertezze solleva invece l'applicazione del divieto di concorrenza in altre ipotesi non
espressamente regolate: a) divisione ereditaria con assegnazione dell'azienda caduta in successione ad uno
degli eredi; b) scioglimento di una società con assegnazione dell'azienda sociale ad uno dei soci quale
quota di liquidazione; c) vendita dell'intera partecipazione sociale o di una partecipazione sociale di
controllo in una società di persone o di capitali.
Nei primi due casi non si può affermare che vi è stato trasferimento di azienda da un erede all'altro
o da un socio all'altro, sicché sembrerebbe da escludersi che gli altri eredi o gli altri soci siano tenuti a
rispettare il divieto di concorrenza. Nel terzo caso poi un negozio traslativo c'è, ma ha per oggetto le quote
o le azioni della società e non l'azienda, che formalmente resta della società. Non ricorre quindi il
presupposto (vendita di azienda) per l'applicazione dell’art. 2557.
È indubbio però
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