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INTERPRETAZIONE E APPLICAZIONE DEL DIRITTO
Dottrina tradizionale vs nuova coscienza ermeneutica
Riguardo l’interpretazione possono distinguersi due macro dottrine:
- TRADIZIONALE dell’interpretazione
- Dal ‘900 in poi si sviluppa una coscienza ERMENEUTICA
Quello che cambia è il modo di interpretare i canoni ed i criteri dell’interpretazione stessa.
Broccardo ha costituto per tanti anni ha costituito la regola nell’ambito dell’interpretazione, che recita “in claris non
fit interpretatio” (non è data interpretazione laddove v’è chiarezza). Per generazioni è stata concepita come
autoevidente, tanto che i giuristi hanno ritenuto che l’attività di interpretazione fosse ancillare ed eventuale e quindi
un’attività marginale.
Già nell’epoca classica, con Cicerone, appariva scontato come l’interpretazione altro non fosse che un mus exercitum,
cioè un compito modesto.
Oltre ad essere considerata come attività eventuale, fino ad epoche molto recenti, era anche considerata come
un’attività pericolosa, che doveva essere tenuta sotto stretto controllo da parte del legislatore. In un certo senso la
dottrina tradizionale dell’interpretazione (costituita nei secoli, a partire da questi presupposti) presupponeva che il
senso dell’enunciato normativo fosse fondamentalmente univoco. Quindi normalmente di regola il senso degli
enunciati poteva e doveva essere colto e riespresso dagli interpreti senza bisogno di alcuna particolare fatica
interpretativa.
A questa tradizionale dottrina devono riferirsi le norme che attualmente sono vigenti.
Es: art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, che precedono il codice civile
Le linee fondamentali di questa dottrina tradizionale si fondano su una serie di presupposti/dogmi, detti DOGMI
DELL’INTERPRETAZIONE. Sono:
1. l’idea della precostituzione della norma giuridica rispetto all’attività dell’interprete.
Questo presuppone una distinzione tra l’attività di produzione della norma, posta in essere dal legislatore, e l’attività di
interpretazione della norma, che viene invece affidata ad un giurista/giudice;
2. distinzione tra interpretazione applicativa ed interpretazione scientifica.
Quella applicativa è posta in essere dal giudice, considerato il “Bouche de la loi”.
L’interpretazione scientifica è invece propria del giurista, scienziato del diritto.
3. delimitazione dell’ambito di liceità dell’interpretazione ad alcuni casi specifici.
Questi casi sono di oscurità, insufficienza, silenzio della legge positiva. Dunque è necessario intervenire con
un’interpretazione solo nei casi in cui l’enunciato di diritto positivo/la legge sia insufficiente (non spieghi alcuni punti),
non vi sia (la legge manca del tutto, silenzio della legge), oppure sia oscuro (quindi non chiaro). Solo in questi casi, secondo
la dottrina tradizionale dell’interpretazione, è ammessa ed ammissibile un’attività interpretativa.
Questo dogma è considerato il cuore dell’attività della dottrina tradizionale dell’interpretazione.
4. L’accentuazione del carattere non politico, ma conoscitivo dell’interpretazione
L’interpretazione è un processo finalizzato alla comprensione autentica di un testo normativo – positivo.
5. La fiducia nella possibilità di individuare dei canoni interpretativi logico-razionali, finalizzati a garantire
l’esattezza dell’interpretazione
Questi canoni sono l’osservanza dell’analisi logica e grammaticale del testo, lo studio delle intenzioni di colui che ha scritto
quell’enunciato, quindi lo studio dei lavori preparatori, della volontà del legislatore, della considerazione sistematica
.
dell’ordinamento in cui si inserisce quell’enunciato da interpretare
A partire da questi principi/dogmi si è sviluppata una dogmatica in tema di interpretazione e si può sostenere che
proprio grazie a questa elaborazione dogmatica la teoria dell’interpretazione ha occupato uno spazio epistemologico
nella didattica della giurisprudenza molto importante.
Nel ‘900 si sviluppa però una nuova coscienza, per definirla si è utilizzata l’espressione “ermeneutica in senso stretto”.
L’ermeneutica ci impone di ritematizzare il nostro rapporto con la verità, rivalutare il nostro metodo di interpretazione,
di riconoscere l’inscindibilità del conoscere dall’interpretare e di ritematizzare tutto il nostro modo di pensare e la
filosofia del conoscere e la filosofia stessa in generale (che viene ad acquisire un carattere propriamente ermeneutico).
Qualcuno scriveva l’uomo è un animale ermeneutico, perché parla, perciò la filosofia ed in particolare la filosofia
ermeneutica ritrova l’unità dell’uomo con se stesso e con il mondo.
L’ermeneutica ci pone davanti a problema del senso, ma che in questa chiave di lettura assume un’assoluta
principalità. Mentre con la dottrina tradizionale si riponeva una fiducia quasi cieca nella univocità e quindi nella
oggettività del senso, a questa ingenua fiducia si sostituisce la consapevolezza dell’irriducibile pluralità e quindi del
necessario carattere personale di ogni enunciato. Quindi in questo senso la nuova coscienza ermeneutica capovolge
completamente la chiave di lettura di ogni cosa e crea un nuovo orizzonte filosofico che si rivela estremamente
fecondo e che costituisce comunque un luogo ormai tradizionale/classico del pensiero del nostro secolo. LEZ. 6
LE FUNZIONI DEL DIRITTO
L’agire strategico vs agire comunicativo
Per spiegare le relazioni sociali dobbiamo fare riferimento a due diverse modalità di interazione: un agire strategico vs
un agire comunicativo. Si tratta di due modalità in linea di principio alternative.
L’uomo di fronte al “tu” è libero di scegliere il modo in cui intenzionarsi ad esso. Può scegliere se affermare la sua
individualità e quindi agire secondo una modalità di chiusura di conflittualità, oppure agire nel riconoscimento della
relazionalità sussistente nel contesto.
Non posso agire mirando all’intesa ad un consenso e però agire orientando la relazione esclusivamente al mio
interesse.
Caloggero, ed altri filosofi del diritto che si occupavano di filosofia del dialogo, spiegava quanto questa scelta fosse
una scelta categorica; o si vive un’esperienza di ricostruzione della coscienza altrui entro di se o non la si vive affatto;
o si è mera egoità, o si è una egoità che comprende un’egoità altrui.
Quindi l’uomo d’innanzi all’altro uomo avrà la possibilità di vedere nell’altro o un oggetto dell’azione individuale, o un
partner della relazione (un partner il cui consenso in una certa misura ci interessa). Quindi l’alternativa è tra
riconoscere l’altro nella relazione o come oggetto, o come soggetto della comunicazione.
Potremmo chiederci se è possibile che un soggetto, pur perseguendo il suo interesse, veicoli la propria azione secondo
modalità comunicative ed è quello che avviene nell’ambito processuale. Nell’ambito processuale sembra essere
conciliabile il fatto che l’interesse individuale, pur considerato come scopo primario dell’agire del singolo, venga
perseguito veicolando la propria azione nel paradigma comunicativo.
Al di fuori di quest’ambito processuale, sembra all’agire strategico e comunicativo rimangano due alternative. Nel caso
dell’agire strategico il principio di coordinamento è dato da calcoli di utilità egocentricamente determinati. L’individuo
ha una prospettiva assolutamente egocentrica.
Nell’agire comunicativo il principio di coordinamento è impostato come un processo cooperativo di interpretazione.
Quindi mentre quando agisco strategicamente sono orientato al successo della mia azione individuale, quando agisco
in maniera comunicativa le condizioni sono diverse, perché mi pongo in termini di relazione, di comunicazione, di
ascolto, di riconoscimento dell’altro.
Quindi nell’agire strategico ciò che conta è il successo, nell’agire comunicativo ciò che conta è che le pretese siano
razionalmente giustificate.
Se ricordiamo Thomas Hobbes, il cosiddetto problema hobbesiano si adatta perfettamente alla questione di come
sia possibile un’interazione pacifica, quindi dialogica, tra attori orientati al successo individuale e capaci di azioni
razionali rispetto allo scopo. Il problema è il passaggio da questo livello di conflittualità strategica ad un livello di
interazione discorsiva.
Per quale motivo gli attori dovrebbero rinunciare a perseguire i propri scopi secondo una modalità puramente
strategica, per adattarsi a perseguirli secondo un modello di consenso razionale. Sembra che questo sia contro
intuitivo.
Eppure nell’ambito processuale, in cui si assiste ad un’interazione dialogica tra i partecipanti, tra attore e convenuto
come nel processo civile, il processo è un agire comunicativo. È possibile il darsi di una comunicazione, seppur in un
ambito conflittuale, in un ambito in cui ci sono soggetti che non condividono una definizione comune della
situazione, altrimenti non ci si troverebbe dinnanzi ad un processo; eppure anche laddove vi sono soggetti che non
condividono quella serie di convinzioni di fondo, comunque ad essi non resta che relazionarsi secondo una modalità
nella quale intendersi è importante e nella quale il dialogo è fondamentale.
Potremmo chiederci quali sono le motivazioni per cui un soggetto, tendenzialmente ispirato dal desiderio di far
valere la sua azione individuale, il proprio interesse, la propria posizione egocentrica, dovrebbe abbandonare
quest’agire strategico per preferire un agire comunicativo.
1. La prima risposta fa leva su un’azione morale del soggetto: in qualche modo il soggetto nutre una personale
pulsione ad entrare in dialogo.
2. Una seconda motivazione può far leva sul calcolo strategico: al soggetto conviene adottare il paradigma
comunicativo e dunque sceglie il paradigma comunicativo in vista dello scopo a cui mira, perché l’interazione
continuerà a modellarsi su calcoli di mezza al fine, che sono propri della razionalità teleologica, quindi
orientata al fine ed anche strategica.
3. Una terza strada potrebbe essere di ritenere che il soggetto, che inizialmente sarebbe magari anche spinto
da un calcolo strategico, poi sia obbligato a veicolare il proprio comportamento secondo un modello non
strategico e precisamente secondo un modello comunicativo, è il modello del leviatano di Hobbes, cioè il
soggetto è spinto a stipulare un pat