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MONTALE
Nei manuali è spesso presentato come colui che propone una
poesia antidannunziana e per certi aspetti antipascoliana; in
quest’ottica Pascoli e D’Annunzio vengono catapultati alla fine
dell'ottocento ed etichettati come poeti decadenti mentre Montale
sarebbe il primo poeta della modernità. Sappiamo già che non è
così perché Pascoli e D’Annunzio non sono solo degli anticipatori
del novecento, ne sono i protagonisti.
Montale nasce nel 1896 e le sue raccolte principali ripercorrono tutti
i momenti salienti del ‘900:
- OSSI DI SEPPIA pubblicato nel 1925 da Gobetti, giovane
intellettuale liberale, raccoglie le poesie degli anni ‘20 quindi
scritte negli anni di affermazione del fascismo
- LE OCCASIONI del 1939 propone una poesia capace di
raccontare l’esperienza bellica
- LA BUFERA è del 1956, anno terribile per l’Europa: è l’anno in
cui i sovietici entrano a Budapest ponendo fine all’idea di un
internazionalismo in qualche modo fraterno dei paesi
comunisti. Si comprende come l’URSS voglia in realtà imporsi
sui popoli che raccoglie sotto la sua egida
- SATURA del 1971, sono di nuovo anni tragici, gli anni di
piombo in Italia
Una poesia come I LIMONI da Ossi di seppia è significativa per
capire quale sia il programma poetico di MOntale e se egli sia
veramente in opposizione a Pascoli e D’Annunzio
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.
La poesia ha un tono da inno, si rivolge a qualcuno: “Ascoltami”; nel
‘900 gli editti, gli inni, i proclami sono molto amati, pensiamo ai vari
Manifesti che vengono pubblicati e ai discorsi con cui Hitler,
Mussolini e Lenin arringano le folle.
Montale si rivolge al lettore e apre con una polemica: afferma che la
poesia dei poeti laureati cioè dei poeti colti (D’Annunzio e Pascoli
forse?) agisce solo in mezzo a quella natura che ha nomi poco
usati.
Ad un primo livello di interpretazione quindi Montale ci sta dicendo
che i poeti laureati sono coloro che parlano di cose poco note, non
popolari, ermetiche, sono coloro che parlano della natura usando
parole non comuni, sono coloro che fanno della poesia una
macchina di dottrina, di conoscenza, di cultura. Allora potremmo
davvero pensare che si stia riferendo a D’Annunzio e Pascoli che
hanno fatto della natura il loro punto di riferimento (Alcyone è il
racconto della Versilia; Myricae e I canti di Castelvecchio sono la
poesia della campagna).
Ma il poeta ha sempre un rapporto con la natura, da Omero fino ai
poeti moderni la natura è la questione dell’Io, del chi siamo, della
nostra morte. E c’è un’altra contraddizione: Montale ci dice quale
sono queste parole poco usate: bossi ligustri e acanti che non sono
affatto termini poco noti, sono piante conosciute.
Prosegue poi parlando di sé “Io” e dice che lui, all’opposto degli
altri, ama i sentieri lungo i fossi; ci sta dicendo che non vuole stare
nel bosco della Versilia di D’Annunzio o nella campagna di Pascoli
ma neanche nella città di MArinetti; il paesaggio di Montale sta a
metà strada tra la parte più selvatica e quella più urbana; Montale
vorrebbe stare dove i bambini giocano a prendere le anguille quindi
in quel luogo a metà dove l’infanzia è crudele e dove l’elemento
naturale diventa un segno forte della poesia; in un luogo in cui la
realtà è pura come i giovani, è crudele come il loro gioco e scivola
via come un’anguilla.
Allora la scelta di Montale non è veramente contro qualcuno, è la
scelta di un poeta che può stare solo in un luogo angoscioso dove
le cose sono e non sono, che è il luogo della poesia.
Nell’ultimo verso della strofa entra per la prima volta il colore: fino a
qui era una foto in bianco e nero ma all’improvviso compare il
colore del limone, il giallo che però non colora tutta la poesia ma
sembra investire solo la parola “limoni”. All’improvviso nel non luogo
grigio della poesia appare una luce e poi subentra un cambiamento
segnato da un gioco di terzine dantesche nelle quali ritroviamo le
stesse sonorità del Purgatorio.
Montale sta scrivendo alla maniera degli ermetici, in una maniera
difficile, perché sta raccontando un’esperienza sensoriale fatta di un
elemento acustico (le gazzarre degli uccelli e il sussurro dei rami) e
di un elemento olfattivo, un odore che non sa staccarsi da terra, è
l’odore della vita che fa piovere in petto una dolcezza inquieta ed è
l’odore dei limoni che permette al poeta la memoria.
D’Annunzio è presente nella sintassi di Montale, nel suo lessico ed
è presente anche la voce inquieta di Pascoli, allora Montale non è
un poeta in opposizione a D’Annunzio e Pascoli ma è il loro
continuatore, è colui che racconta l’angoscia ma anche la verità.
L’angoscia che D’Annunzio e Pascoli avevano scoperto e portato
nella nostra letteratura. Chiaramente Montale non recupera di
D’Annunzio l’immagine del dandy, Montale è l'uomo nascosto ma
non come Pascoli perché è l’uomo della città e non della campagna
non è l’uomo della solitudine, è il giornalista del Corriere della Sera.
Comprendiamo allora che è altro rispetto ai due ma non è il nuovo
in opposizione al vecchio.
Montale è definito un poeta dell’ermetismo ma il suo ermetismo non
è scrivere un testo che non si fa capire ma è l’esaltazione della
capacità della lingua di conoscere non della lingua come strumento
per nascondere.
Spesso si cita il rapporto di Montale con Eliot e con il concetto di
correlativo oggettivo da lui elaborato cioè l’esprimere un’emozione
attraverso oggetti o situazioni che sono la concretizzazione del
sentimento che il poeta vuole esprimere. Ciò che si racconta in
questo modo mantiene sempre in sè il mistero che è tipico della
modernità ed è proprio dell’ermetismo di Montale.
Montale è l’uomo che non sa e il non sapere è la modernità.
LA CASA DEI DOGANIERI
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t'attende dalla sera
in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all'avventura.
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s'addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola