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DOTTRINA DEL CONTAGIO
Come funzionava nel lazzaretto? C'erano delle camere dove operavano i religiosi mandati dal
cardinale, i barbieri (erano uomini senza istruzione ma che agivano sul malato, erano i
chirurghi, spesso era una tradizione portata avanti nella famiglia), mentre i dottori (erano
istruiti ma non avevano a che fare direttamente col malato) stavano fuori dal lazzaretto e
visitavano l'ammalato a distanza da una finestra, davano ordini che poi venivano eseguiti sul
malato dai barbieri o dai religiosi.
GLI STUDI DI FRANCESCO LA CAVA
Francesco La Cava (1877-1958), seppe coniugare la professione medica con la propria
formazione religiosa. Il suo incontro con Nicola Latronico lo introdusse nell’ambito della
Storia della Medicina alla metà del secolo scorso; la storiografia medica milanese deve a La
Cava il merito di essersi occupato negli anni Quaranta di storia sanitaria lombarda. Nel III
volume della collana “Studi di Storia della Medicina” del 1946 affrontò l’“Igiene e Sanità negli
Statuti di Milano nel sec. XIV”. Per l’autore lo studio delle “antiche norme igienico-sanitarie
municipali” conduceva alla conoscenza del clima, del commercio e del lavoro, del grado di
benessere economico e sociale di una determinata popolazione in uno specifico luogo; si
trattava di regole di profilassi in caso di malattie, ma anche dei primi tentativi di istituire
delle personalità giuridiche preposte alla sanità delle popolazioni. Prima del 1534 furono
emanati degli editti per la tutela degli abitanti, che purtroppo sono andati persi; essi
prevedevano un “Officio di Sanità” in cui operavano i “Ducales conservatores sanitatis Status
Mediolani”. L’11 aprile del 1534 venne creata la figura del “Magistrato di Sanità”, che continuò
ad esistere fino al 1786. Il duca Francesco Sforza raccolse tutte le disposizioni emanate in
precedenza per la tutela dell’igiene e della salute pubblica, le integrò e coordinò in un unico
“corpus”, i nuovi Statuti di Milano, che rappresentarono il primo codice di polizia sanitaria
municipale. Questi Statuti furono il frutto di elaborazione e trasformazione del “Codex
Statutorum Veterum Mediolanensi”. Lo studio di La Cava si concentra proprio su questo codice
milanese portando alla luce un tesoro della Storia della Medicina fino ad allora inedito.
L’importanza di possedere una cultura medica veniva sottolineata dal valore dei libri di
medicina, che non potevano essere trasportati fuori dalla città. Si costituì, salvaguardando la
personalità giuridica, il Collegium medicorum fisice al quale potevano accedere medici con tre
anni di frequenza ai corsi; anche per i chirurghi e gli speziali fu previsto un Collegio. Il
“Vicario alle provvisioni” era incaricato di eleggere sex probi viri che girassero nella città per
ricoverare negli ospedali gli infermi e i vagabondi. Era vietato spargere per le strade deiezioni
o immondizia, non si poteva scuoiare o salassare il bestiame in città, era proibito lavare nelle
acque correnti pelli e carte oltre che far affluire i residui delle tintorie. Per evitare miasmi
nelle carceri era prevista un’accurata pulizia, una fornitura di letti di paglia e pane ben cotto.
La macellazione non doveva avvenire in luoghi pubblici e le bestie pronte per la vendita
dovevano venire appese in modo che gli officiales potessero controllare lo stato delle carni.
Anche la vendita di pesce era disciplinata per evitare intossicazioni, come accadeva per i
cereali e i legumi, il pane e il vino.
LA PESTE DI SAN CARLO
Nel II volume della collana, “La peste di S. Carlo vista da un medico” del 1945, La Cava
affrontò un capitolo di storia come medico e storico; si tratta di un saggio sulla peste del
1575-78, che portò alla morte 18.000 abitanti di Milano, cifra inferiore rispetto a molte altre
città grazie ai provvedimenti igienici adottati dall’autorità civile e da quella religiosa.
Il primo capitolo tratta dell’eziopatogenesi della malattia, che a quell’epoca non si conosceva
ancora, ma era noto che “l’infezione era portata dall’Asia o dall’Europa Orientale, nelle quali
sterminate regioni la peste serpeggiava con focolai endemici, specialmente nel XVI secolo”.
Già da allora s’intuì che la derattizzazione e la segregazione degli infetti potevano essere dei
mezzi di profilassi efficaci e che il contagio poteva avvenire tra le persone o tramite
indumenti e coperte infette. Le prime misure disposte furono il divieto di impiantare risaie e
allevamenti dei bachi da seta nei pressi della città, l’incitamento alla pulizia delle case e delle
strade e il monito a vigilare sulla merce in vendita nei mercati, oltre al consiglio di accendere
fuochi e usare profumi per purificare l’aria.
Nel secondo capitolo La Cava si occupa della sintomatologia, dell’assistenza sanitaria e della
terapia; ampio spazio viene dedicato al sistema di norme igieniche-profilattiche che le
autorità misero in atto per contrastare la pestilenza. Tra i tanti provvedimenti si ricordano
“l’uso di fuochi aromatici”, quello di erbe e decotti, la consuetudine di portare al collo sfere di
canfora, di praticare salassi e di condurre una vita equilibrata. Per la disinfezione veniva usato
l’aceto o venivano fatte passare le dita sopra alla fiamma di una candela; si consigliava di far
bollire acqua e panni e di utilizzare “acqua di calce”, pece e incenso. I “monatti” avevano il
compito di svuotare ogni casa ritenuta infetta e di procedere alla sua disinfezione; si
costruirono lavanderie presso ogni porta della città dove avveniva la “purgazione” delle
masserizie delle case malsane. Dai “purgatori brutti” tramite acqua corrente tutto passava
alla “lavanderia netta” presso la quale veniva rilavato, profumato ed esposto al sole; solo allora
i proprietari potevano ritirare le proprie cose. Nel lazzaretto e nelle capanne l’assistenza
veniva fornita da religiosi volontari, mentre i medici prescrivevano le loro ricette tramite le
finestre dell’edificio. Per eseguire salassi, per la somministrazione delle cure e per le
medicazioni venivano impiegati i “barbieri”.
Il terzo capitolo del libro elenca i provvedimenti dell’autorità civile emanati dal Tribunale
sanitario. Una novità fu l’istituzione delle “bollette di sanità” che garantivano alla persona che
le deteneva di provenire da un territorio non contagiato; si bloccavano così le vie di
comunicazione, il commercio e i pellegrinaggi, mentre i soldati montavano di guardia alle porte
della città. Dato l’aggravamento dell’epidemia l’unica norma di profilassi era considerata la
quarantena, oggetto del quarto capitolo del volume. Questa rigida norma di prevenzione, che
comportò non poca spesa per il rifornimento di cibo e vestiario, la disinfezione delle case e il
pagamento del personale, portò da subito giovamento alla salute pubblica; all’inizio del 1578 si
poteva dire che la peste era stata sconfitta.
LA SPAGNOLA
I primi casi registrati durante la primavera del 1918 si presentavano come una semplice
influenza della durata di circa tre giorni. Inizialmente alcuni focolai furono individuati in
Spagna e le testate giornalistiche che ne parlarono per prime furono proprio quelle spagnole,
essendo la Spagna uno dei pochi Paesi non coinvolti nel conflitto mondiale: sui giornali
circolavano notizie allarmanti e crude sull’epidemia influenzale, definita dall’agenzia di stampa
ufficiale come una “strana forma di malattia a carattere epidemico”. La stampa europea,
invece, non poteva permettersi di allarmare la propria popolazione in un momento in cui si era
alle prese con una guerra sanguinosa, privando così gli storici di una delle più immediate fonti
di indagine; in nessuna Nazione belligerante venivano riferite informazioni riguardanti
l’avvento e lo sviluppo di tale influenza.
Oggi si concorda sul fatto che i primi focolai segnalati ufficialmente si svilupparono negli
Stati Uniti: a marzo un grande focolaio si ebbe in un campo di addestramento militare in
Kansas. La “prima fase” di morbilità costrinse decine di migliaia di soldati al riposo forzato; lo
stesso valse per i cittadini non militarizzati. La maggiore virulenza (“seconda fase” della
pandemia) si esplicò nella seconda metà dell’estate ed in autunno, per proseguire in una “terza
fase” nell’inverno del 1919; da semplice influenza (con tosse, febbre, algie muscolari) essa si
aggravò con gravi complicanze polmonari. Mentre nella fase primaverile non era obbligatoria la
denuncia dei casi di malattia, con questa seconda fase le autorità sanitarie imposero l’obbligo
di denuncia potendo così avere un quadro della situazione dell’andamento della patologia più
chiaro. Questa influenza colpiva prevalentemente soggetti tra i 20 e i 40 anni; osservando le
diverse ondate epidemiche influenzali nella storia, le vittime di questa fascia di età da
bambini non erano entrati probabilmente in contatto con un virus simile, non producendo così
anticorpi in grado di contrastare la malattia. La Spagnola fu una tragedia biologica per l’intera
umanità: colpì il mondo intero, scomparendo circa due anni dopo la sua comparsa per mutazione
virale. I medici si trovarono impotenti di fronte agli ammalati non avendo a loro disposizione
un bagaglio farmaceutico in grado di contrastare soprattutto le sovra-infezioni batteriche. I
farmaci utilizzati furono i più disparati senza purtroppo trovarne giovamento; fu consigliata a
tutti, per prevenire il contagio, l’uso della mascherina.
L’Italia fu una delle Nazioni più colpite dall’influenza “spagnola” con un tasso di mortalità
secondo solo a quello russo.
Diversi sono i rapporti clinici nei quali si affermò di essere in presenza di un’influenza “fuori
stagione”. La Direzione Generale di Sanità in un dispaccio la definì una “forma generalmente
assai mite e quasi senza mortalità, con caratteri uguali alle comuni epidemie primaverili
d’influenza”. Venne chiamata la “febbre dei tre giorni”; l’insorgenza era brusca, con febbre
alta, brividi, dolori muscolari e cefalea. Da fine luglio si ebbero casi di influenza più gravi dei
precedenti; i contagiati in pochi giorni morivano per complicanze batteriche polmonari o
emorragie massive dell’apparato respiratorio. Dal mese di agosto si accese una nuova e più
grave morbilità e mortalità tra la popolazione partendo dalle città del Sud Italia. Questa fase
proseguì aggravandosi esponenzialmente con a