IN ITALIA
In Italia lo sviluppo di questi diritti è stato fortemente ritardato rispetto ad altri Paesi per
ragioni storiche e culturali, dovute in gran parte alla cultura strettamente conservatrice. Le
battaglie per il diritto di voto, l’accesso all’istruzione e i pubblici uffici, la parità salariale
restano patrimonio di una élite e trovano riconoscimento solo dopo la seconda Guerra
Mondiale, quando la Costituzione sancisce la parità formale tra i sessi di fronte alla legge e
sul lavoro.
Sarà proprio la Carta Costituzionale a promuovere la rimozione degli ostacoli che limitavano
di fatto la libertà e l’uguaglianza tra cittadini. Tuttavia, il concetto di pari opportunità riesce a
farsi strada solo molti anni dopo, in una stagione di grandi movimenti sociali e riforme in cui
le donne diventano protagoniste e soggetto politico.
Bisogna aspettare gli anni Settanta per riconoscere l’effettivo principio della Costituzione
sulla parità nelle diverse sfere della vita sociale, della famiglia e del lavoro istituendo i primi
organismi finalizzati a perseguire l'uguaglianza e pari opportunità, all’inizio solo con funzioni
consultive poi con funzioni di controllo e di iniziative.
Negli anni Ottanta anche la partecipazione a processi decisionali.
Nascono così il Comitato nazionale di parità al Ministero del lavoro (1983) e la
Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità (1984).
A favorire lo sviluppo delle politiche di pari opportunità in Italia è comunque ancora una volta
l’UE in termini di legislazione, finanziamenti e indirizzi di programmazione.
2 giugno 1946 → le donne per la prima volta possono esercitare il diritto di voto in
occasione del referendum istituzionale monarchia-repubblica.
1963 → accesso agli impieghi pubblici (legge 9 febbraio n.66). La donna può accedere a
tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli,
carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera.
L’arruolamento della donna nelle forze armate e nei corpi speciali è regolato da leggi
particolari.
1956 → la Cassazione abolisce lo Jus Corrigendi, ovvero il potere correttivo del marito (in
pratica, la facoltà di picchiare la moglie).
1968 → abrogato il reato dell’adulterio (art.559 cp) che puniva solo la moglie. Eppure l’art.3
della Costituzione stabilisce che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso”. Nello stesso anno viene abrogato anche
l’art.553 che vietava la propaganda di pratiche contraccettive nonostante l’enciclica di Paolo
VI, pena la reclusione a un anno.
1 dicembre 1970 → legge sul divorzio.
19 maggio 1975 → riforma del diritto di famiglia. Servì una legge (n.151) per decretare la
parità di diritti tra marito e moglie. Il marito non è più a capo della famiglia e spetta a
entrambi i coniugi concordare l’indirizzo della vita familiare.
22 maggio 1978 → la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza.
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DELITTO D’ONORE (art.587 cp)
1966, Belluno → l’operaio che già aveva ucciso la prima
moglie per gelosia 48 ore dopo le nozze (scontò 5 anni in un
manicomio criminale), ha ferito la seconda moglie a coltellate e
ha ucciso i due suoceri. Pazzo, forse, ma la sua follia è
comunque governata dalla convinzione che uccidere per
l’onore sia un dovere.
Al momento dell’arresto dichiarò con una disarmante
tranquillità di aver agito per gelosia, cioè per motivi d’onore. Il
che appariva sufficiente per ottenere le attenuanti.
1948, Milano → omicida condannato a soli 1 anni e 4 mesi per
aver ucciso l’amante della moglie.
1955, Roma → omicida condannato a 3 anni e 6 mesi per l’uccisione della moglie e
dell’amante.
1965, Catania → omicida (un maestro) condannato a 2 anni e 11 mesi per aver ucciso il
seduttore della figlia. Il pubblico in aula ha applaudito la mite sentenza. L’omicida ha
interposto appello ritenendo la pena troppo severa.
Il ministro della Giustizia Oronzo Reale propose l’abolizione dell’art.587 oppure di alzare la
pena da 9 al massimo di 15 anni tenendo però in considerazione, nel caso di delitto d’onore,
come attenuanti l’aver agito in stato d’ira o per particolari motivi di ordine sociale o morale.
Ma all’epoca, in molte regioni italiane, chi, oltraggiato nell’onore rinunciava a farsi giustizia,
era oggetto di disprezzo e dileggio. Chi lavava l’onta con il sangue invece non era
considerato un omicida ma alla stregua di un giustiziere.
Molti avvocati siciliani, intervistati ritenevano un errore e addirittura un’ingiustizia abolire di
punto in bianco l’art.587. Favorevoli a una modifica i legali più giovani.
Autorevoli magistrati siciliani invece ritenevano che l’art.587 non aveva più giustificazione
d’essere, che era superato dal punto di vista giuridico e assurdo dal punto di vista morale.
La sua abrogazione era opportuna in quanto avrebbe potuto influire sulla mentalità popolare
considerando il delitto d’onore alla stregua di un qualsiasi delitto comune.
Il 5 agosto 1981 cadono finalmente le attenuanti del delitto d’onore (condanna da tre a sette
anni) e nello stesso anno decade anche il matrimonio riparatore.
Sono due lasciti legali del Codice Rocco di epoca fascista. La loro abolizione è considerata
un punto di svolta fondamentale per i diritti della persona in generale e delle donne in
particolare.
“Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la
illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della
famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette
circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la
figlia o con la sorella”. Art.587
In altre parole, fino al 1981 l’art.587 concedeva, in caso di omicidio per disonore, uno sconto
della pena. In questo modo lo Stato giustificava parzialmente il delitto stesso.
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Il matrimonio riparatore era invece regolamentato dall’art. 544 che recitava:
“Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’art.530, il matrimonio che l’autore del reato contragga con
la persona offesa estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo: e,
gli effetti penali”.
Riassumendo, per il colpevole di stupro il reato si estingueva se lo stesso si rendeva
disponibile a sposare la vittima, spesso minorenne. A perdere l’onore, infatti, era solo la
vittima e non il soggetto che l’aveva violentata.
Lo stupratore offrendosi di sposare la vittima accollandosi tutte le spese matrimoniali evitava
la pena detentiva, il tutto in una visione per cui la donna era considerata un oggetto e una
proprietà. Va ricordato che all’epoca lo stupro veniva ancora considerato un reato non contro
la persona ma contro la moralità pubblica e il buon costume.
Il Codice Rocco, nella sua originaria stesura, era molto chiaro nel disciplinare il corpo e la
sessualità femminile. Infatti, nella sua visione patriarcale, esso scindeva completamente il
corpo e la mente della donna, giacché il corpo della donna - come nella visione di ancien
régime - era visto come res di proprietà dell’uomo.
15 febbraio 1996 → lo stupro viene inteso come crimine contro la persona e non più contro
la morale pubblica.
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Il 25 gennaio 2010 con il decreto legislativo (in attuazione della direttiva europea 2006/54)
veniva stabilita la pari opportunità e parità di trattamento tra uomo e donna in materia di
occupazione, lavoro e retribuzione.
In precedenza la legge n.242 del 19 giugno 1902, a imitazione di precedenti esperienze
straniere, vietava l’impiego delle donne minorenni nei lavori pericolosi e insalubri. Legge mai
applicata.
Già nel 1957, con il trattato di Roma, l’UE aveva adottato il principio di pari retribuzione per
pari lavoro. Eppure, nonostante i proclami, siamo ancora lontani da un’effettiva parità tra i
sessi.
Il 12 luglio 2011 la legge 120 introduce il principio delle quote rosa nei Consigli di
amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate in borsa e delle società a
controllo pubblico ovvero il principio che tutela quote di genere meno rappresentate.
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Il riconoscimento del diritto di voto alle donne è avvenuto il 30 gennaio del 1945, ad opera
del Consiglio dei ministri su proposta di Palmiro Togliatti (PC) e di Alcide De Gasperi
(DM). Contrari, o meglio non favorevoli, alcuni esponenti del Partito repubblicano, liberale e
del Partito d’Azione. Ma ormai i tempi erano maturi e il 1 febbraio del 1945 viene firmato il
decreto legislativo che permette il diritto di voto alle donne con più di 21 anni.
Ma con un’eccezione: non possono votare le prostitute schedate che esercitano “fuori dei
locali autorizzati”.
In realtà dal 10 marzo del 1946 (un anno e due mesi dopo il decreto legislativo sul voto e
due mesi prima del referendum) alle donne è permesso anche di essere elette. Per la prima
volta vengono elette due donne sindaco: a Massa Fermana e a Borutta (Sassari).
Le donne comunque dovevano presentarsi al voto senza rossetto sulle labbra. Perché?
Perché dovevano umettare con le labbra il lembo della scheda e avrebbero potuto,
inconsapevolmente, lasciare traccia identificativa, rendendo nullo il voto.
Dalla Guerra molto è cambiato in fatto di diritti delle donne: legge sul divorzio, delitto
d’onore, interruzione volontaria di gravidanza, diritto di famiglia ecc. Ma molto c’è ancora da
fare su quote rosa, parità di retribuzione, femminicidio, violenza di genere. Esiste ancora un
problema culturale.
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Ebbene, nel campo dell’informazione siamo in una partita a scacchi con i diritti. Le mosse
devono essere ponderate e lungimiranti. Qui entra in gioco l’autodeterminazione (non
individuale ma di categoria) cioè l’introduzione delle carte deontologiche. Va salvaguardata
la notizia, sempre. Ma emerge anche il rispetto della persona.
Fino al 1990 si poteva scrivere di tutto (la notizia completa) ora subentra l’essenziale, il
bilanciamento dei diritti.
Un
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