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L’art. 135 Cost. prevede rigide incompatibilità per i componenti la Corte
costituzionale, funzionali ad assicurare l’indipendenza dell’organo (membro del
Parlamento, del Consiglio regionale, esercizio professione di avvocato, ogni
carica e ufficio indicati dalla legge). La delicatezza della funzione impone,
inoltre, ai giudici un atteggiamento di riservatezza circa le proprie opinioni
rispetto a tematiche che potrebbero essere oggetto di giudizio da parte della
Corte costituzionale o mettere in dubbio la posizione di indipendenza del
giudice. Sempre a garanzia dello status di giudice l’art.3 della legge
costituzionale n.1 del 1948 stende ai componenti il collegio le
immunità costituzionali proprie dei parlamentari.
Le decisioni della Corte costituzionale sono regolate dal principio di
collegialità. Secondo l’art. 17 delle norme integrative per i giudizi innanzi alla
Corte costituzionale, le sentenze e le ordinanze debbono essere sottoscritte dal
presidente o dai giudici che sono stati prescelti presenti a tutte le udienze. Con
tale previsione il sistema italiano di giustizia costituzionale si differenzia dalle
Corti supreme di tradizione nordamericana ove vige l’istituto del voto
(dissenting opinion).
dissenziente
La Costituzione italiana non esclude meccanismi di sindacato non
giurisdizionale sulle decisioni del legislatore, tra i quali assume
particolare rilievo il controllo svolto dal Presidente della Repubblica in sede di
promulgazione delle leggi statali, che può rinviarle alle Camere con messaggio
motivato, affinché queste procedano a una nuova deliberazione (art. 74 Cost.).
Per quanto concerne la natura dell’organo, va considerato che la giustizia
costituzionale è assicurata da un organo esterno al procedimento legislativo,
fornito dei requisiti di imparzialità e di professionalità, che gode di una
condizione costituzionale di autonomia rispetto agli altri poteri dello Stato.
L’art. 135 Cost. prevede che i giudici siano scelti tra magistrati delle
giurisdizioni superiori, tra professori ordinari di Università in materie giuridiche,
tra avvocati dopo vent’anni di servizio. Mentre, a garanzia della posizione di
indipendenza, l’art.7 della legge n. 87 del 1953 dispone che la carica di giudice
costituzionale sia incompatibile con uffici o impieghi pubblici e privati, con
l’esercizio di attività professionale, commerciale industriale, con funzioni di
amministratore o di sindaco di società aventi scopo di lucro, con cariche di
rappresentanza politica (come quella di parlamentare o di consigliere
regionale). Inoltre, i giudici non possono svolgere attività inerenti ad
un’associazione o partito politico. Nello stesso spirito, l’art. 3 della legge
costituzionale n. 1 del 1948 si preoccupa di assicurare l’autonomia
dell’organo nei confronti degli altri poteri dello Stato, statuendo che i
giudici non possono essere rimossi, né sospesi dal loro ufficio se non
con decisione della stessa Corte.
Il procedimento che si svolge innanzi al giudice costituzionale presenta
caratteri tipici di un processo. In proposito, il Titolo II, Capo I della legge n. 87
del 1953 introduce alcune regole proprie dell’attività giurisdizionale: tra queste
si segnalano, a titolo di esempio, la possibilità per le parti di costituirsi in
giudizio; la regola dell’udienza pubblica a eccezione delle questioni da decidere
con ordinanza come nei casi di manifesta infondatezza, di manifesta
inammissibilità o di mancata costituzione delle parti in giudizio; il fatto che il
procedimento si debba concludere con atti tipici della funzione giurisdizionale
come le sentenze e le ordinanze. La Corte costituzionale è, quindi, un
vero e proprio “giudice”, benché esterno all’ordinamento giudiziario,
che risolve e decide le questioni che gli sono sottoposte attraverso
regole processuali.
La stessa Corte costituzionale ha, d’altra parte, negato di poter essere inclusa,
tra gli organi giudiziari, ordinari o speciali. Non va dimenticato che un buon
sistema di giustizia costituzionale si basa su di un giusto equilibrio tra politica e
giurisdizione. sui generis
Si può, quindi, ritenere che quello costituzionale sia un processo per
almeno tre ragioni.
In primo luogo, il processo costituzionale, a differenza di altri procedimenti
giurisdizionali, si caratterizza per un elevato grado di flessibilità nell’uso degli
strumenti processuali. La Corte costituzionale, a differenza di tutti gli altri
giudici italiani, possiede, quanto alla disciplina del proprio processo, poteri
normativi che si concretano o nell’adozione di vere e proprie norme processuali
o in semplici decisioni processuali.
In secondo luogo, l’attività interpretativa del giudice costituzionale risente
della specificità delle norme costituzionali. Non va trascurato che le disposizioni
costituzionali non contengono delle definizioni legali di determinati istituti
(come la proprietà, la famiglia, l’autonomia), i quali non possono essere
ricostruiti interamente alla luce della legislazione vigente. Altrimenti si
creerebbe una confusione tra il parametro (la Costituzione) e l’oggetto (le leggi
ordinarie) del giudizio di costituzionalità.
In terzo luogo, il giudice costituzionale a differenza degli “altri” giudici si
configura anche come un soggetto che “crea” norme giuridiche; i giudici
costituzionali si affiancano al Parlamento e agli Esecutivi nella creazione di atti
aventi forza di legge, attraverso l’adozione di particolari tipi di decisioni che
producono effetti assimilabili a quelli propri degli atti normativi. Ciò avviene, in
particolare, nei casi in cui il giudice modifica l’ordinamento positivo:
erga omnes,
determinando la cessazione di efficacia di una legge con effetti
esplicitando delle norme inespresse, introducendo nuove norme.
Le decisioni della Corte costituzionale sono definitive e non
impugnabili. Tuttavia, questo principio risulta attenuato dalla possibilità di
presentare ricorso innanzi alle giurisdizioni sovranazionali (in particolare, la
Corte europea dei diritti) qualora si lamenti che una decisione del giudice
costituzionale possa aver leso un diritto convenzionalmente protetto.
Il sindacato della Corte costituzionale riguarda i vizi di legittimità delle leggi e
degli atti aventi forza di legge; è, quindi, escluso ogni sindacato sul merito delle
disposizioni. Non possono essere sindacati i vizi di merito relativi alle scelte di
opportunità politica del legislatore.
Il sindacato di legittimità consente, innanzitutto, di distinguere tra vizi formali
e sostanziali. Si parla di vizi formali quando l’atto avente forza di legge è
prodotto senza seguire il procedimento previsto (ad esempio, un decreto
delegato adottato senza acquisire un necessario parere preventivo da parte del
Parlamento, una legge che regola i rapporti con la confessione religiosa senza
aver raggiunto con la stessa un’intesa ai sensi dell’art. 8 Cost.; oppure una
legge in materia costituzionale votata in sede deliberante dalla Commissione
parlamentare competente in violazione dell’art. 72 Cost. I vizi sostanziali si
producono in caso di contrasto tra il contenuto normativo della legge e della
disposizione costituzionale (ad esempio, una legge che consenta di espropriare
una proprietà privata senza prevedere alcun indennizzo in lesione dell’art. 42
Cost.).
A loro volta i vizi sostanziali possono essere ulteriormente classificati
a seconda che la illegittimità consegua da:
una violazione di legge, allorché la norma contrasta con la
Costituzione sotto il profilo della disciplina sostanziale di una
determinata materia;
oppure consegua da una situazione di incompetenza, quando un
organo, un ente o un potere esorbita dai limiti che la Costituzione ha
posto alla propria competenza, invadendo quella di un altro soggetto. Le
ipotesi principali di illegittimità costituzionale sotto il profilo
dell’incompetenza si determinano, ad esempio, quando le Regioni e lo
Stato emanano norme legislative al di fuori delle materie indicate
nell’art. 117 Cost.;
oppure consegua da un eccesso di potere. In via generale questo
vizio funzionale, tipico degli atti amministrativi, si determina ogni
qualvolta un’autorità si avvale del potere di adottare un atto per un fine
diverso da quello specifico previsto dall’ordinamento.
Un importante criterio che il giudice costituzionale utilizza per verificare se le
scelte discrezionali del legislatore incorrano in un vizio di eccesso di potere è
costituito dal principio di proporzionalità. Tale criterio interpretativo
soddisfa a un’esigenza di coerenza dell’ordinamento nella misura in cui impone
alle norme di porre regole razionali; in particolare, impone al legislatore di
ricercare un ragionevole e proporzionato equilibrio tra interessi o diritti in
potenziale conflitto, al fine di evitare che la fruizione di un diritto avvenga con
modalità tali da comprimere i diritti altrui “oltre misura”, cioè oltre a quanto è
essenziale ed indispensabile per esercitare tale diritto.
Per compiere tale valutazione il giudice costituzionale sottopone la disposizione
test,
oggetto di giudizio ad un che prevede la verifica della legittimità dei fini
per cui tale diritto è stato limitato; della sussistenza di un’effettiva relazione tra
il contenuto della limitazione e le sue finalità; del carattere non irragionevole,
arbitrario o inutilmente oppressivo del limite; del non totale annullamento del
diritto.
La Corte costituzionale, nella sentenza n.1 del 1956, ha affermato che tutte le
disposizioni contenute nella Costituzione e nelle leggi costituzionali
costituiscono un parametro per valutare la legittimità costituzionale degli atti
aventi forza di legge. In tal modo la Corte, ammettendo l’immediata
applicazione dell’intero testo costituzionale e la sua vincolatività per tutti
pubblici poteri e per i privati, ha assicurato la giustiziabilità di tutte le
disposizioni della Costituzione.
Il controllo di costituzionalità tende a estendersi a tutte le norme di
rango legislativo, comprese quelle approvate ed entrate in vigore
anteriormente all’approvazione della Costituzione, determinando in
questi casi una situazione di illegittimità costituzionale sopravvenuta.
Non si deve confondere tra fonte del diritto e norma giuridica. La prima non
può che sorgere secondo il procedimento di formazione regolato dalla disciplina
al momento vigente, per cui sarebbe errato sindacarne la validità sulla base
delle norme poste dalla Costituzione sopravvenuta; la norma, per contro,
oggettivandosi nel sistema e acquisend