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Si tratta di domande induttive, nel senso che suggeriscono la risposta che ci si attende di ricevere.

Ogni intervento induttivo è considerato scorretto nella tecnica del counseling. un intervento

allusivo o induttivo, infatti, comunica al cliente il pt di vista del counselor e lo spinge in modo

sottile ad aderirvi e ad uniformarvisi.

Le domande del cliente

Nel counseling anche il cliente pone delle domande al counselor. Le domande, molto spesso,

riguardano aspetti concreti del counseling, quelli che solitamente sono definiti dal contratto (es.

durata delle sedute, frequenza, ecc.). Succede spesso che nel corso dell’intervento il cliente ponga

altri tipi di domande. Può trattarsi, ad es., della richiesta di un consiglio, di un’informazione

specifica, di un giudizio, oppure del tentativo di conoscere l’opinione del counselor riguardo ad

un dato argomento. Similmente, vi possono essere domande tese ad avere informazioni sul

counselor, sulla sua vita privata o su altri aspetti extra-lavorativi. Infine, può trattarsi di domande

che il cliente pone su di sé, sull’andamento dei colloqui e sulla relazione di aiuto. In alcuni casi, le

domande sono poste in forma retorica, vale a dire senza lasciare realmente il tempo al counselor

di rispondere oppure dandosi da soli la risposta.

La fiducia nel counselor

Il counselor dovrebbe riuscire a far sentire al cliente che può affidarsi e avere fiducia nei suo

confronti. Inizialmente, parte di questa fiducia deriva da come il counselor si presenta agli oggi

del cliente. La conferma fondamentale che il counselor dovrebbe dare al cliente riguarda la

propria capacità di ascoltarlo e comprenderlo. Il cliente inizia ad avere fiducia nel counselor

quando sente di essere ascoltato attentamente, senza giudizi, con empatia, con un sincero

tentativo di comprenderne il pt di vista. Il cliente ha bisogno di un certo tempo per sentire di

essere accettato, ascoltato e accolto. Per questo può fare delle domande che derivano dal suo

desiderio di sapere se può fidarsi. In alcune aree specifiche del counseling, alcuni autori

suggeriscono l’uso di tecniche particolari quali l’autorivelazione (self-disclosure). Il counselor

comunica di proposito al cliente informazioni personali su di sé, al fine di testimoniargli sostegno

e partecipazione. Il counselor può raccontare di avere vissuto difficoltà simili a quelle

sperimentate dal cliente, con l’intento di condividere con lui quel tipo di esperienza. Altre volte,

le richieste e le curiosità del cliente circa il counselor contengono una valenza più o meno marcata

di aggressività, sfiducia, diffidenza o svalutazione. Cliente: “è un po’ giovane lei, quanti anni ha?”

In alcuni casi è preferibile affrontare garbatamente e direttamente la questione. Es. “forse lei si

sta domandando se ho sufficiente esperienza per poterla aiutare?”. Il counselor dovrebbe fare

questo tipo di intervento solo se è ragionevolmente sicuro che il problema sia effettivamente

collegato ad un aspetto di sfiducia o di diffidenza nei suoi confronti. Il counselor dovrà prestare

attenzione a questi aspetti della comunicazione, prenderne nota mentalmente e discuterne

apertamente quando diventa utile e/o necessario per il cliente.

Le richieste sul colloquio e sul counseling

Alcune domande riguardano aspetti molto pratici come la durata dei colloqui, le modalità di

pagamento, la possibilità e il modo di disdire o spostare un appuntamento, ecc. In questo caso è

importante dedicare il tempo necessario a dipanare i dubbi del cliente e a fornire tutte le

informazioni necessarie. Spesso si tratta anche di domande su come funziona il colloquio di

counseling, su quello che è giusto o utile dire, su quello che il counselor pensa del cliente. È molto

importante rassicurare il cliente, verbalizzando il fatto che il colloquio rappresenta uno spazio che

gli appartiene, che può utilizzare parlando degli argomenti che più ritiene utili.

Domande difensive

Altre volte, le richieste del cliente assumono una valenza più difensiva. Come se, attraverso le

domande, il cliente volesse alzare una barriera autoproteggendosi da qualche aspetto della

relazione di aiuto, vissuta come disturbante o pericolosa. In queste situazioni, il counselor può

affrontare l’argomento con molto tatto e prudenza: può provare, ad esempio, a vedere se vi è la

possibilità di far riflettere il cliente sul significato che può avere il suo comportamento. Riflettere

sul motivo che spinge a porre le domande, più che sul loro contenuto in sé. Ad esempio:

Counselor -> “Ho notato che ultimamente mi sta facendo molte domande. Mi stavo domandando

se questo suo comportamento abbia un significato…”. Si tratta di un intervento che ha lo scopo di

offrire uno spazio di riflessione sul significato del bisogno di fare domande.

Come apprendere e migliorare la propria capacità di formulare le domande

Soprattutto all’inizio può essere utile:

- Fare attenzione alla formulazione delle domande, cercando di utilizzare la forma più appropriata

ed evitando di commettere gli errori più grossolani.

- Privilegiare le domande aperte

- Adottare un linguaggio semplice

- Evitare di fare troppe domande

- Chiarirsi lo scopo di una domanda prima di porla

- Prestare attenzione al momento in cui si fa la domanda, cercando di scegliere il momento giusto

e il modo opportuno

- Tenere sempre in considerazione il tipo di rapporto che si è stabilito con il cliente e il grado di

fiducia che questi pone nella relazione di aiuto; più le domande vanno in profondità, più deve

essere solida la relazione di aiuto

- Ricordarsi che formulare delle buone domande non significa fare domande brillanti o che

mettano in mostra l’intelligenza e la capacità del counselor. L’importante è saper fare le

domande necessarie per aiutare il cliente ad approfondire il suo pt di vista e a riflettere su quanto

sta esponendo

- Introdurre le domande cercando di utilizzare sempre dei collegamenti o delle frasi che facciano

da trait d’union con il discorso del cliente

- Concedere al cliente il tempo sufficiente per rispondere

Hough ha proposto un utile schema di valutazione, una checklist per valutare quando e con quale

frequenza porre le domande.

Capitolo 7 – Fasi dell’intervento e modelli di relazione di aiuto

Le fasi del counseling

Nel counseling vi sono alcune fasi distinte e successive. Ogni fase è caratterizzata da un compito

specifico, sul quale si focalizza il lavoro del counselor e del cliente. La maggior parte dei modelli

concorda nel riconoscere nel counseling una prima fase, che solitamente è dedicata al

l’esplorazione e all’approfondimento della situazione problematica del cliente, vale a dire dei

problemi e delle difficoltà che hanno determinato la richiesta di un aiuto qualificato. La prima

fase, dunque, si focalizza principalmente sul motivo che ha portato il cliente a rivolgersi ad un

counselor ed è caratterizzata da un intenso lavoro di facilitazione della comunicazione che porta

alla conoscenza reciproca, fra counselor e cliente, e alla costruzione di una relazione di fiducia,

basata sull’ascolto e sulla comprensione empatica. Il counseling si differenzia dal colloquio

psicologico clinico-diagnostico in quanto il suo scopo non è di effettuare una diagnosi del soggetto

in senso tradizionale, ossia in senso medico. Si tratta di mettere in atto un processo condiviso di

esplicitazione e di approfondimento, denominato da Egan “assessment” centrato sul cliente.

Binetti e Bruni definiscono “investigazione” la prima fase del counseling. Rientra nei compiti della

prima fase l’analisi della domanda del cliente, vale a dire una comprensione sufficientemente

approfondita non solo dei problemi, ma anche delle risorse, dei limiti, delle motivazioni, delle

aspettative e della consapevolezza del soggetto circa la sua situazione. La maggior parte dei

modelli di counseling, nelle fasi successive alla prima, tende a spostare il focus dell’intervento

dalla comprensione della situazione attuale, all’elaborazione di nuove consapevolezze e insight

e/o alla definizione di obiettivi, strategie e piani di cambiamento. A parte questo aspetto generale

di comunanza, tuttavia, le fasi successive in cui si articola il counseling, dopo la prima fase di

assessment o di approfondimento del problema, sono maggiormente differenziate fra loro dai vari

autori e dai differenti modelli delle relazioni di aiuto. Una prima differenza riguarda il significato

stesso da attribuire alle fasi dell’intervento. Le fasi del counseling, secondo alcuni, rappresentano

momenti chiaramente distinti, che il counselor deve affrontare e gestire secondo una sequenza

ordinata e precisa. Per altri, invece, le fasi sono più che altro una guida concettuale ideale, un

modello teorico da adattare in modo flessibile alla pratica: di situazione in situazione e di cliente

in cliente, le varie fasi del counseling si possono fondere, possono unirsi fino a formare fasi più

ampie o ancora possono anche non verificarsi oppure non essere necessarie. Nel modello di

counseling più vicino alla teoria originale di Rogers, è il soggetto il vero motore e regista del

cambiamento. È il soggetto che, autonomamente, anche se in modo implicito scandisce il

passaggio da una fase all’altra. Anche nel counseling psicoanalitico le fasi dell’intervento sono

scandite dai progressi interni del cliente. Dal punto di vista operativo, per questo approccio, il

passaggio da una fase all’altra è principalmente determinato dal counselor, in funzione dei

progressi raggiunti dal cliente: è soprattutto l’operatore a decidere quando passare dalla prima

fase di assessment alle successive, così come a stabilire fino a che punto accompagnare il cliente

nel suo percorso di cambiamento. Alcuni studiosi hanno proposto modelli di intervento molto

articolati e sofisticati, entro i quali sono definiti in dettaglio le caratteristiche delle varie fasi, gli

obiettivi da perseguire in ciascuna di esse, le competenze e le tecniche che il counselor dovrebbe

utilizzare in ciascun momento e così via. Di solito si tratta di modelli integrati, in cui confluiscono

approcci e metodologie differenti, come l’approccio centrato sulla persona e le tecniche di

pianificazione e di problem solving.

Di volta in volta, secondo il modello, cambia anche il ruolo svolto dal counselor nella presa di

decisione e nell’attuazione del passaggio da una fase a quella successiva. Tre diversi modelli di

intervento nelle relazioni di aiuto:

1. Proposto da Michael Reddy. È un modello che nelle sue linee generali risulta molto chiaro e

descrittivo delle fasi principali che caratterizzano ogni processo di aiuto. Si tratta di un

mode

Dettagli
Publisher
A.A. 2023-2024
53 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/08 Psicologia clinica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher nnoemiis di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Counseling psicologico clinico e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Firenze o del prof Casale Silvia.