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Il ricorrente evidenziava come il tipo di detenzione a cui era sottoposto fosse incompatibile
con la sua età e le sue condizioni di salute. Ciò che è importante tenere a mente che dopo un
numero di anni trascorsi in un regime detentivo differenziato o raggiunta una determinata età
anagrafica, sarebbe necessario prevedere in modo espresso una valutazione prima
ministeriale e dopo giurisdizionale in un arco di tempo il più ravvicinato possibile, anche a
cadenza semestrale o annuale, per evitare che la detenzione carceraria diventi simbolica e che
quindi si viri verso una violazione della dignità umana.
La Corte sostiene che, per poter dichiarare la violazione dell’articolo 3, debba essere
raggiunto un livello di sofferenza che in questo caso non si ritiene raggiunto: di fatti quando il
ricorrente era detenuto nel carcere è stato nel centro clinico, costantemente monitorato, e
quando c’è stato bisogno di trasferirlo presso l’ospedale civile, questo è avvenuto. Inoltre,
non vi sono prove per valutare se il personale medico del carcere sia stato o meno negligente
per quanto riguarda la caduta del letto e l’ospedalizzazione del ricorrente.
Non sono state prese, come riconosciuto dalla Corte stessa, tutte le precauzioni necessarie per
evitare che il ricorrente cadesse. Per quanto riguarda le condizioni di scarsa igiene contestata
dal ricorrente, la Corte non disponeva di sufficienti elementi per valutare la prova.
La somma delle due conclusioni porta alla dichiarazione di non violazione dell’articolo 3 per
quanto riguarda la questione delle condizioni di salute.
La proroga deve essere sempre e comunque un provvedimento individualizzato che si
focalizzi sulla pericolosità sociale e sullo stato di salute. Una volta ottenuta la decisione
negativa del tribunale di sorveglianza, il ricorrente non aveva fatto ricorso in cassazione e per
questo il governo sostiene che non abbia esaurito i rimedi interni.
La Corte di Strasburgo però sostiene che la parte resistente non ha provato in alcun modo che
il rimedio interno in cassazione doveva essere presentato.
Dalle dichiarazioni e dalla documentazione del governo, la corte non è certa che la
pericolosità del ricorrente possa essere sufficiente da sola a giustificare la proroga del regime
differenziato. La sottoposizione al regime detentivo differenziato, senza sufficienti e rilevanti
motivi basati su una valutazione individualizzata, viola la dignità umana e quindi l’articolo 3
della Convenzione. La proroga del 2016 è ingiustificata e la Corte dichiara la violazione per il
periodo successivo alla proroga stessa, perché il quadro clinico era cambiato ma nonostante
ciò la proroga non ha provveduto a documentare la nuova situazione.
La tutela della dignità umana implica sempre che esistano delle motivazioni adeguate alla
base delle scelte che riguardano le persone; altrimenti, come nel caso Provenzano, si
verificano abusi e arbitri, trattamenti inumani e degradanti contrari al senso di umanità.
Il caso provenzano ha portato nel tempo la Corte costituzionale a giustificare sempre le
proroghe del regime detentivo in base a valutazioni individualizzate, riguardanti ogni caso
specifico che si stava esaminando.
Il caso Viola N.2 - l’ergastolo ostativo e la tutela della dignità umana
L’ergastolo ostativo nell’ordinamento italiano prima della sentenza viola
Il comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione stabilisce che le pene devono avere la funzione
di rieducare il reo: lo Stato deve offrire un percorso di risocializzazione orientato al rientro
del condannato nella società.
Per i diritti assolutamente ostativi, l’eventuale condanna all’ergastolo ostativo non consente,
in assenza della collaborazione con la giustizia, l’accesso ai benefici penitenziari, riconosciuti
invece per l'ergastolo. Fino alla sentenza 23/2019, la Corte costituzionale sosteneva che
l’ergastolo ostativo non violava la Costituzione in quanto la perdita dei benefici possibili
derivava dalla decisione dell’ergastolano di non collaborare.
La collaborazione rappresenta un indice di rottura dei collegamenti con la criminalità
organizzata e condizione necessaria per poter accedere alle altre alternative alla detenzione ai
benefici previsti dall’ordinamento penitenziario.
Allo stesso tempo, però, bisogna necessariamente considerare che esistono casi in cui la
decisione di non collaborare con la giustizia deriva da una valutazione di natura etica; per
questo motivo la mancata collaborazione non può essere assunta come indice di pericolosità
specifica. Di conseguenza, il fine di risocializzazione del condannato, nel caso degli
ergastolani ostativi, viene completamente meno, privando di fatto il soggetto di accedere ai
benefici penitenziari e quindi al riacquisto della libertà.
Il caso Viola C. Italia
Il ricorrente è stato condannato all’ergastolo perché colpevole di una serie di reati di omicidio
con l’aggravante mafiosa; egli però si è sempre proclamato innocente. Non gli è riconosciuto
il permesso premio, mentre la liberazione anticipata sì.
Fa anche domanda per la liberazione condizionale confermando la sua innocenza, motivo per
cui la sua collaborazione con la giustizia non sarebbe stata possibile e chiedendo al tribunale
di sorveglianza di sollevare il dubbio di costituzionalità dell’articolo 4-bis c.1 ord. pen. e
articolo 3 CEDU.
Sia il tribunale che la corte di cassazione non rilevano l’incostituzionalità e così il ricorrente
decide di appellarsi alla corte europea dei diritti umani, la quale rileva una violazione
dell’articolo 3 e 8
La corte ritiene l’ergastolo obbligatorio senza possibilità di liberazione condizionale in
contrasto con l’art. 3 della convenzione perché in questo modo il condannato è privo di una
prospettiva di liberazione dal carcere e perché manca una valutazione periodica sulla
eventuale sproporzionalità della protrazione della condanna. Per questo motivo la corte
accoglie il ricorso di viola individuando quattro punti di contrasto dell'istituto dell’ergastolo
ostativo italiano con l’art. 3 della CEDU:
- l’ergastolo ostativo è una pena de jure e de facto;
- l’ordinamento italiano non offre all’ergastolano ostativo una concreta prospettiva di
liberazione e una possibilità di riesame della detenzione al fine di verificare se essa sia
ancora giustificato;
- la possibilità di ridurre la pena solo attraverso la collaborazione con la giustizia non
soddisfa i criteri della giurisprudenza europea perché la decisione di non collaborare
potrebbe derivare da valutazioni che non dipendono dall’appartenenza del soggetto
all’attività mafiosa;
- l’ergastolo ostativo non tende alla risocializzazione del condannato;
La mancanza di una revisione della detenzione rende la pena irriducibile e di conseguenza in
contrasto con il principio di tutela della dignità umana che impedisce di privare una persona
della libertà senza allo stesso tempo optare per un percorso di reinserimento per recuperare un
giorno tale libertà.
La sentenza da parte della Corte di Strasburgo ha imposto all’Italia di attuare una riforma del
regime della reclusione all’ergastolo ostativo che garantisca la possibilità di riesame della
pena. Inoltre, questa riforma doveva garantire la possibilità per il condannato di beneficiare
del diritto di sapere cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali siano le
condizioni applicabili.
È quindi intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza 253/2019, dopo essere stata
chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità di un caso fotocopia del Caso Viola.
Con questa sentenza la Corte critica la natura assoluta della preclusione posta alla
concessione dei benefici penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia
Ci si deve basare su una presunzione relativa di pericolosità del reo che deve essere valutata
per ciascun singolo detenuto secondo criteri stringenti in merito all’assenza di legami con la
criminalità organizzata e al pericolo di ripresa dei rapporti criminali usufruendo dei benefici
penitenziari esterni
La sentenza riguarda però soltanto i permessi premio: La corte costituzionale dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis nella parte in cui non prevede che agli ergastolani
ostativi possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la
giustizia
Ciò è possibile solo nei casi in cui siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di
collegamenti con la criminalità organizzata e il ripristino di tali collegamenti
Se le informazioni acquisite fanno supporre la permanenza dei legami o il pericolo di
ripristino, allora spetta al condannato provare il contrario.
Corte costituzionale, sentenza N. 186/2018 - 41 - bis e cottura dei cibi
Durante un processo il magistrato di sorveglianza di spoleto ha sollevato un dubbio di
costituzionalità nell’art. 41-bis comma 2-quater, lettera f) nella parte in cui “impone che
siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la
assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi”.
Da una nota proveniente dall’istituto penitenziario si legge che l’uso dei fornelli per i detenuti
in regime differenziato è consentito solo per riscaldare liquidi e cibi già cotti e per preparare
bevande
Il reclamo al giudice a quo proviene da un detenuto in regime differenziato, il quale si
lamenta dei divieti impostigli dall’amministrazione penitenziaria di acquistare cibi che
richiedono cottura e di cucinare quelli di cui gli è consentito l’acquisto
A fronte del reclamo, il giudice a quo dubita della conformità di tale disposizione agli articoli:
- Articolo 3 della Costituzione;
- Articolo 27, comma 27 della Costituzione;
- Articolo 32 della Costituzione;
Secondo il giudice a quo la disposizione viola l’articolo perché il divieto di cuocere i cibi
rappresenterebbe una disparità di trattamento tra i detenuti al 41-bis e i detenuti comuni non
giustificata dalle esigenze poste a base dell'imposizione del regime differenziato. Questa
disparità non è giustificata in quanto le uniche differenze di trattamento accettate per i
detenuti al 41-bis sono quelle che riguardano le limitazioni necessarie a garantire le esigenze
di ordine pubblico e sicurezza, nonché quelle finalizzate ad impedire i collegamenti del
detenuto con l’associazione criminale di riferimento.
Il divieto di cuocere cibi per il detenuto in regime differenziato non si fonda sulla necessità di