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I DIRITTI UMANI IN UNA PROSPETTIVA EUROPEA

- Corte europea dei diritti dell’uomo: Bljakaj e Altri versus Croazia

Sentenza del 18 settembre 2014

I ricorrenti sono cinque familiari di un avvocato croato ucciso dal marito di una sua cliente.

Poco prima dell’omicidio, l’uomo, che aveva un passato di atti di violenza, di abusi

domestici, di illegale possesso di armi da fuoco e di abuso di alcol, sio era recato presso una

stazione di polizia. Gli ufficiali di polizia lo avevano però lasciato andare, informando

tardivamente le istituzioni sanitarie del suo visibilmente alterato stato mentale. I ricorrenti

adiscono la Corte lamentando la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita) e dell’articolo 13

(diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione. La Prima Sezione riconosce la violazione

dell’articolo 2 e la non violazione dell’articolo 13.

Il caso Bljakaj e Altri riguarda l’omicidio commesso da una persona, presumibilmente

disturbata mentalmente, di un avvocato durante lo svolgimento della sua attività

professionale. Questo caso solleva due principali questioni:

1. Quale protezione avrebbe dovuto garantire lo Stato contro gli atti di violenza di un

individuo mentalmente disturbato?

2. Quale protezione avrebbe dovuto garantire lo Stato contro il possibile uso della

violenza verso l’avvocato nello svolgimento delle sue mansioni?

L'obbligo di protezione dello Stato contro atti di violenza da parte di persone mentalmente

disturbate

L’approccio utilizzato dalla maggioranza, ovvero essersi appoggiata in misura considerevole

sull’approccio seguito dalla Corte nel caso Mastromatteo versus Italia, è da ritenersi

insufficiente. Le potenziali vittime di A.N. erano sé stesso, sua moglie e i suoi più stretti

famigliari e la collettività.

La minaccia di suicidio, peraltro conosciuta dalle istituzioni, è da sola sufficiente a far

sorgere nei confronti dello Stato l’obbligo positivo di prevenire il danno alla vita e

all’integrità fisica della persona, in virtù degli articoli 2 e 3 della Convenzione.

Nel momento in cui lo Stato è (o dovrebbe essere) al corrente che parte dei suoi cittadini, nel

caso le donne, è soggetta a ripetute violenze e fallisce nella prevenzione del danno a fronte di

un rischio concreto e attuale, lo Stato stesso può essere ritenuto responsabile per omissione

delle violazioni dei diritti umani che ne derivano, violazioni commesse anche da privati

cittadini.

La minaccia, da parte di un individuo mentalmente disturbato, di provocare un danno a terze

persone (incluse persone non identificabili) è sufficiente a far sorgere, in virtù degli articoli 2

e 3 della Convenzione, l’obbligo positivo dello Stato di prevenire il danno alla vita e

all’integrità fisica di altre persone.

L’obbligo dello Stato di proteggere gli avvocati dagli episodi di violenza che potrebbero

derivare dalla loro attività professionale

Lo Stato è inoltre chiamato non solo a punire ma anche a prevenire queste condotte e, in

definitiva, ad assumere tutte le misure necessarie a garantire la sicurezza degli avvocati,

proprio per tutelare lo Stato di diritto, i diritti ad un equo processo e l’accesso alla giustizia,

come previsti dall’articolo 6 della Convenzione, oltre naturalmente al diritto alla vita e

all’integrità fisica degli avvocati.

Per riaffermare un principio ben radicato, gli avvocati devono ricevere un’adeguata

protezione da parte dell’autorità dello Stato laddove sono minacciati nell’adempimento dei

loro doveri. Pertanto, nel caso in cui gli avvocati siano oggetto di atti di violenza, a causa

della loro attività professionale, lo Stato, se questi atti costituiscono un rischio concreto e

attuale, può essere ritenuto responsabile, per omissione, della conseguente violazione dei

diritti umani.

La mancanza di un effettivo rimedio interno

La lieve sanzione disciplinare inflitta agli ufficiali di polizia, seguita dall’atteggiamento di

connivenza dell’ufficio del procuratore municipale di Slatina, l’erronea assoluzione

dell’ufficiale di polizia M.T. e la conveniente prescrizione dell’esercizio dell’azione penale

nei confronti dell’ufficiale di polizia M.Ko., lasciano seri dubbi sulla buona volontà dello

Stato resistente di portare avanti un’indagine appropriata, di punire quanti responsabili per

un’azione od un’omissione e di rimediare al danno causato ai ricorrenti. Si aggiunga

l’indifferenza dei tribunali civili per le sanzioni disciplinari agli ufficiali di polizia, l’evidente

disturbo mentale di A.N., la conclusione raggiunta dalla Corte suprema, il fatto che abbia

rigettato l’esistenza di un nesso causale tra la condotta degli agenti e il danno: il tutto porta

alla conclusione che i ricorrenti non abbiano avuto a disposizione dei rimedi effettivi.

Conclusione

L’omicidio di M.B.B. avrebbe potuto essere evitato e lo Stato resistente è responsabile per

non aver fatto ciò che era in suo potere per prevenirlo. Questo caso comporta la necessità di

sviluppare ulteriormente la teoria degli obblighi positivi dello Stato sia rispetto alle persone

violente mentalmente disturbate sia con riguardo agli avvocati vittime di violenza nello

svolgimento della loro attività professionale.

- Corte europea dei diritti dell’uomo: Khoroshenko versus Russia

Sentenza del 30 giugno 2015

Il ricorrente, Andrey Anatolyevich Khoroshenko, sta attualmente scontando una condanna

alla pena dell’ergastolo. La legislazione russa prevede che tutti gli ergastolani, per il solo

fatto di essere stati condannati all’ergastolo, quindi, unicamente in virtù della pena

comminata, devono essere detenuti, per i primi dieci anni, in una colonia correzionale a

regime speciale, sottoposti a un regime detentivo particolarmente rigoroso, specialmente per

quanto attiene alla possibilità di ricevere visite dai familiari e più in generale in riferimento

alla possibilità di comunicare con il mondo esterno. Il ricorrente adisce la Corte invocando la

violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e dell’articolo 14

(divieto di discriminazione) della Convenzione. La Grande Camera riscontra una violazione

dell’articolo 8 e dichiara non necessario esaminare la doglianza in riferimento all’articolo 14.

Vanno aggiunte delle considerazioni alle argomentazioni adoperate dalla Grande Camera. In

effetti, dopo aver esposto in modo molto convincente gli standard europei in materia di diritto

penitenziario, la Grande Camera non ha tratto tutte le possibili conseguenze del caso.

La risocializzazione come fine principale della pena detentiva

La prima ragione dell’insoddisfazione nei confronti del ragionamento adoperato dalla Grande

Camera consiste nel fatto che quest’ultima ha deciso di non esaminare la legittimità delle

regole del Codice russo sulla esecuzione delle condanne penali dell’8 gennaio 1997,

applicabili ai condannati alla pena dell’ergastolo e dei detenuti di regola in una speciale

colonia correzionale e sottoposti a un regime detentivo particolarmente severo. I fini della

reclusione a vita e delle restrizioni alle visite dei familiari, per come sono stati esposti dal

governo russo, siano illegittimi in considerazione del valore del principio di risocializzazione

dei detenuti, inclusi gli ergastolani e i condannati a pene di lunga durata, stabilito nel caso

Vinter e Altri versus Regno Unito e il cui contrario violerebbe l’articolo 3 della Convenzione.

L’obbligo dello Stato di garantire un programma trattamentale individualizzato

Il secondo motivo a fondamento dell’insoddisfazione verso le argomentazioni della Grande

Camera risiede nell’affermazione, non ulteriormente approfondita, secondo la quale gli Stati

godono di un ampio margine di apprezzamento nel delineare e nell’implementare le politiche

penali. Questa asserzione stride con quanto sostenuto dalla stessa Grande Camera in

riferimento alla risocializzazione quale elemento “obbligatorio” che gli Stati dovrebbero

tenere in considerazione nella strutturazione delle loro politiche penali. Nel contesto attuale

europeo vi è invece un “restringimento del margine di apprezzamento lasciato allo Stato

resistente al fine di valutare, in questa sfera, entro quali limiti sono possibili ingerenze con la

vita privata e familiare.

Gli stati dovrebbero considerare molto più seriamente l’obbligo internazionale di permettere

ai detenuti di scontare la condanna di costruttivo e rieducativo.

Il diritto del detenuto di ricevere visite familiari secondo il diritto internazionale

Il terzo punta dell'insoddisfazione rispetto al ragionamento seguito dalla Corte risiede nella

conclusione raggiunta dalla Grande Camera secondo la quale la limitata frequenza delle visite

familiari nel caso in esame, basata unicamente sulla gravità della condanna inflitta al

detenuto, era, in quanto tale, sproporzionata rispetto alle motivazioni invocate dal governo.

L’ingerenza con il diritto convenzionale del ricorrente, oltre a non rispondere ad alcuno scopo

legittimamente invocabile, appare sproporzionata anche riferendosi esclusivamente alla sola

limitata frequenza delle visite familiari.

Ciascun detenuto ha il diritto di ricevere visite familiari il più frequentemente possibile.

Secondo l’articolo 8, le visite familiari regolari sono un diritto e non un privilegio dei

detenuti e dei membri delle loro famiglie. La legge dovrebbe garantire un numero minimo e

non un numero massimo di visite familiari. Nessuna distinzione dovrebbe essere fatta tra

condannati alla pena dell’ergastolo o a pene di lunga durata e altri detenuti. Di conseguenza,

qualunque limitazione al diritto del detenuto di ricevere visite familiari dovrebbe basarsi

esclusivamente sulle esigenze di trattamento e di sicurezza di ogni singolo detenuto. Anche

ove siano imposte giustificate restrizioni alle visite, queste dovrebbero essere limitate ad un

numero tale da consentire la minore ingerenza possibile con il diritto alla vita familiare e, in

ogni caso, dovrebbero garantire alternative, quali ad esempio comunicazioni orali e scritte,

con la famiglia.

La conclusione è pertanto la seguente. Esiste un crescente consensus europeo sul fatto che

non dovrebbe essere prevista alcuna distinzione tra condannati all’ergastolo e a pene di lunga

durata e gli altri detenuti per quanto riguarda i diritti di visita familiare e devono essere

generalmente garantiti i diritti di visita familiare tra una e quattro volte al mese.

Conclusione

La legislazione russa contestata è chiaramente illegittima, poiché fonda la disciplina del

diritto dei detenuti alle visite familiari unicamente sulle esigenze della retribuzione e

dell’isolamento. La legislazione russa è an

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A.A. 2023-2024
24 pagine
SSD Scienze giuridiche IUS/09 Istituzioni di diritto pubblico

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher NicoRF045 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto pubblico e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Galliani Davide.