CANTO XIV
Il Canto XIV si divide simmetricamente in due parti. La prima è dedicata alla descrizione del terzo
girone del VII Cerchio, dove sono puniti i violenti contro Dio (bestemmiatori, sodomiti, usurai). Il
paesaggio è un deserto di sabbione infuocato su cui cade una pioggia incessante di falde di fuoco,
simili a fiocchi di neve che scendono lentamente.
Il contrappasso è evidente: la pioggia di fuoco ricorda la punizione divina contro le città bibliche di
Sodoma e Gomorra. Le falde infuocate sono una parodia delle folgori divine, colpendo
inesorabilmente i dannati, ma con una lentezza che ne accresce il tormento. La scena è arricchita da
riferimenti leggendari, come l'episodio di Alessandro Magno in India (che avrebbe incontrato una
pioggia di faville infuocate) e il deserto di Libia attraversato da Catone l'Uticense, anch'esso
paragonato a questa landa infuocata.
(Nota sui vv. 13-15: Si rifanno a Lucano, che descrive il deserto di Libia attraversato da Catone,
dove i soldati furono attaccati da serpenti.)
(Nota sui vv. 28-29: Riprendono il passo biblico della pioggia di fuoco su Sodoma e Gomorra. Il v.
30 si ispira a un sonetto di Guido Cavalcanti.)
(Nota sui vv. 31-37: La similitudine con la pioggia di fuoco di Alessandro Magno è tratta da
un'epistola a Aristotele e da Alberto Magno, fondendo due episodi.)
(Nota sui vv. 39-39: La similitudine "com'esca / sotto focile" allude alla pietra focaia che produce
scintille.)
(Nota sul v. 42: "Arsura fresca" è probabilmente un ossimoro ironico per "nuovo fuoco".)
Il protagonista di questa sezione è Capaneo, uno dei leggendari sette re che assediarono Tebe,
fulminato da Giove per le sue empie bestemmie. Dante lo descrive come una figura imponente, che
giace incurante della pioggia di fuoco, mostrando un fiero disprezzo per la pena e per tutto l'Inferno.
Capaneo si presenta a Dante con incredibile superbia, dichiarando che neppure Giove (inteso come
il Dio cristiano) potrebbe vendicarsi di lui, anche scagliando tutte le folgori. Virgilio lo rimprovera
severamente, spiegando che la sua tracotante alterigia gli procura una punizione ancora più dura.
Capaneo non è affatto "grande" come sembrava a Dante, poiché è inchiodato al suolo e colpito da
una pioggia di fuoco ben più lenta della folgore che lo uccise in vita. La fonte di Dante è la Tebaide
di Stazio, che descrive la superbia di Capaneo.
(Nota sul v. 56: "Mongibello" è il nome arabo dell'Etna. La "pugna di Flegra" è la battaglia in
Tessaglia dove Giove fulminò i giganti ribelli.)
La seconda parte del Canto prende spunto dal Flegetonte, la cui fonte sgorga vicino al sabbione
infuocato. Questo dà modo a Virgilio di spiegare l'origine di tutti i fiumi infernali.
La leggenda del Vecchio di Creta è ripresa da un passo biblico (Daniele, II, 31), ma Dante aggiunge
il particolare delle lacrime che è di sua invenzione. Il Vecchio è una statua colossale, allegoria della
storia dell'umanità, che dalla mitica età dell'oro (simboleggiata dalla testa d'oro) è degenerata
attraverso le età successive (argento, rame, ferro) fino al disordine morale del tempo di Dante (il
piede di terracotta). Le lacrime che gocciolano dalla statua formano i fiumi dell'Inferno: Acheronte,
Stige, Flegetonte e Cocito.
(Nota sui vv. 79-81: Alludono al Bulicame, una sorgente d'acqua calda vicino a Viterbo, paragonata
al Flegetonte. La nota discute anche l'incertezza sul termine "pectatrici".)
(Nota sul v. 86: La "porta" citata è quella dell'Inferno, vista nel Canto III.)
(Nota sul v. 96: Il "rege" è Saturno, il primo sovrano mitico di Creta, sotto il cui dominio si ebbe
l'età dell'oro.)
(Nota sui vv. 97 ss.: Alludono al mito di Giove, nascosto a Creta dalla madre Rea per sfuggire a
Saturno, che divorava i figli. I Coribanti coprivano i suoi vagiti.)
(Nota sui vv. 121 ss.: Alcuni commentatori ravvisano un'incongruenza con il Canto VII, dove Dante
ha già visto lo Stige sgorgare, suggerendo una possibile dimenticanza o un cambio di concezione.)
Dettagli della statua:
È formata da metalli che corrispondono alle età mitiche: oro, argento, rame, ferro.
I due piedi, uno di ferro e uno di terracotta, simboleggiano probabilmente l'Impero e la Chiesa, con
la terracotta che indica la debolezza della Chiesa rispetto al potere temporale.
Il Vecchio volge le spalle a Damietta (Egitto) e guarda Roma, simboleggiando il suo orientamento
verso l'Occidente e la città centro della cristianità, sede dell'imperatore e del pa
La digressione spiega l'origine dei fiumi infernali e cita anche il Lete, uno dei due fiumi dell'Eden
(nel Purgatorio), spesso identificato dai poeti medievali con il mondo dell'età dell'oro.
In sintesi, il Canto XIV offre una duplice prospettiva sulla giustizia divina: da un lato, la punizione
implacabile dei violenti contro Dio nel deserto infuocato; dall'altro, una complessa allegoria della
storia umana e dell'origine del male, che si manifesta nei fiumi infernali, tutti derivanti dalle lacrime
del Vecchio di Creta.
CANTO XV
Il protagonista assoluto del Canto XV è Brunetto Latini, il noto notaio, uomo politico e retore
fiorentino che fu anche maestro del giovane Dante. Dante lo incontra tra i sodomiti nel VII Cerchio,
terzo girone (i violenti contro Dio, natura e arte), che corrono incessantemente sotto una pioggia di
fuoco.
L'atteggiamento di Dante verso il suo antico maestro è di profondo affetto e rispetto umano ("Siete
voi qui, ser Brunetto?", gli dà del "voi", lo chiama "ser", ne rievoca la "cara e buona imagine
paterna" e la gratitudine per il magistero ricevuto). Tuttavia, questa deferenza umana convive con la
ferma condanna della sua sodomia, di cui non si hanno prove certe al di fuori del poema. Questo
contrasto evidenzia la distinzione tra i meriti terreni (letterari, politici) e l'implacabile giustizia
divina.
Brunetto, come altri dannati, mostra di non comprendere appieno la propria dannazione, rimanendo
ancora attaccato alla vita terrena e alla fama. Si complimenta con Dante per il privilegio del viaggio,
attribuendolo ai suoi meriti intellettuali e politici ("altezza d'ingegno"), come già aveva fatto
Cavalcante.
Dante risponde in modo ambiguo, accennando allo smarrimento nella "selva oscura" e a Virgilio
come colui che lo riporta "a ca" (sul retto cammino). Dante intende Virgilio come il suo vero
maestro morale e spirituale. Brunetto, però, non sembra cogliere il senso profondo di queste parole
e interpreta il viaggio di Dante come un percorso verso la "gloria letteraria e politica", escludendo
dal suo orizzonte la grazia divina e Beatrice, vero punto di arrivo del viaggio. Brunetto è prigioniero
di una dimensione unicamente terrena e materiale.
(Nota sui vv. 4-6: Guizzante e Bruggia sono città fiamminghe frequentate dai mercanti fiorentini.)
(Nota sui vv. 18-19: L'immagine è tratta da Virgilio, Eneide.)
(Nota sul v. 39: "Arrostarsi" significa "schermirsi" o "ripararsi".)
(Nota sul v. 51: Dante intende che lo smarrimento nella selva oscura è avvenuto prima dei 35 anni.)
(Nota sul v. 52: Indica che è passato circa un giorno dall'inizio del viaggio, essendo l'alba di sabato
9 aprile o 26 marzo.)
(Nota sul v. 55: La "stella" di Brunetto è una metafora per la giusta rotta verso la gloria, o forse la
costellazione dei Gemelli, segno zodiacale di Dante, alludendo alle conoscenze astrologiche di
Brunetto.)
Il discorso di Brunetto prosegue con una profezia dell'esilio di Dante da Firenze, simile a quella di
Farinata. L'invettiva contro la città parte dal presupposto che i Fiorentini diverranno nemici di
Dante per il suo "ben far" (la sua corretta azione politica).
Brunetto si rifà a una leggenda diffusa: i Fiorentini discendono in gran parte dai rozzi abitanti di
Fiesole, sopravvissuti alla distruzione della loro città da parte di Cesare (dopo la ribellione di
Catilina). Questa origine fiesolana spiegherebbe la "rozzezza" e le divisioni politiche di Firenze.
Dante, invece, si considerava discendente dagli antichi Romani, creando un contrasto tra la sua
nobiltà di sangue e la "selvatichezza" dei suoi concittadini.
Dante è paragonato a un "dolce fico" nato tra i "lazzi sorbi" (frutti dal sapore agro), ovvero tra gente
piena di invidia, superbia e avarizia, incapace di apprezzare la sua lealtà politica. Brunetto augura ai
Fiorentini di divorarsi l'un l'altro ("bestie fiesolane", "strame", "letame"), ma di non toccare la
"sementa santa" di puro sangue romano, la vera nobiltà fiorentina.
Dante ribatte che la Fortuna può indirizzare contro di lui i suoi colpi, ma la sua ruota girerà invano,
paragonando i Fiorentini a un "contadino" che trova un tesoro immeritato con la sua "marra"
(zappa), alludendo a una leggenda popolare toscana. Questo paragone sottolinea la rozzezza e
l'avidità dei Fiorentini.
(Nota sui vv. 61 ss.: Ricordano la leggenda di Fiesole ribellatasi a Roma e distrutta, e la fondazione
di Firenze da parte di Cesare con l'accoglienza dei Fiesolani.)
(Nota sul v. 65: I "lazzi sorbi" sono frutti aspri, metafora per la gente corrotta di Firenze. Dante è il
"dolce fico".)
(Nota sul v. 67: Si riferisce a un antico detto che vedeva i Fiorentini "ciechi" (sciocchi) per aver
permesso a Totila di radere al suolo la città.)
(Nota sul v. 68: I Fiorentini sono accusati di avarizia, invidia e superbia, gli stessi vizi già citati da
Ciacco.)
L'episodio si chiude con il commiato da Brunetto. Prima di allontanarsi, Brunetto raccomanda a
Dante il suo capolavoro, Li livres dou Trésor, una sorta di enciclopedia in lingua d'oïl. L'ultima
immagine di Brunetto è quella di un corridore che vince il palio di Verona, un'immagine di dignità e
successo, nonostante la sua dannazione.
(Nota sui vv. 110-114: Alludono al vescovo Andrea de' Mozzi, trasferito da Bonifacio VIII da
Firenze a Vicenza.)
(Nota sul v. 122: Il "drappo verde" era il premio per il vincitore del palio di Verona.)
In sintesi, il Canto XV è un momento di grande intensità emotiva e intellettuale. Dante rende
omaggio al suo maestro terreno, pur condannando il suo peccato, e usa il dialogo con Brunetto per
ribadire la sua critica alla corruzione di Firenze e per chiarire la differenza tra la gloria terrena e la
vera salvezza spirituale.
CANTO XVI
Il Canto XVI è strutturalmente diviso in due parti.
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