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ANALISI DI SEQUENZA VS ANALISI CON MARCATORI FINGERPRINTING
Quando si vuole impiegare un marcatore molecolare in ambito forense, le vie possibili sono 2: l’analisi di
sequenza o l’analisi di marcatori fingerprinting. In realtà negli ultimi anni si preferiscono le nuove tecniche di
sequenziamento, NGS, che mescolano l’analisi di sequenza con il fingerprinting. Qual è la differenza tra le due
vie? Le analisi di sequenza prevedono il confronto di sequenze nucleotidiche, mentre i marcatori di
fingerprinting non si basano sull’analisi di pochi tratti di DNA (da cui si ottengono le sequenze nucleotidiche),
bensì indagano porzioni dell’intero genoma. Quindi, con il secondo tipo di analisi, per ogni individuo vengono
prodotti dei profili molecolari che, se il protocollo è stato sviluppato bene, permettono di ottenere risultati
individuo-specifici. Si riesce a caratterizzare geneticamente un individuo grazie ad un marcatore molecolare
fingerprinting. Nell’analisi di sequenza invece l’approccio è un altro: si ottengono sequenze nucleotidiche che
permettono di individuare la variabilità a livello di specie, difficilmente anche a livello intraspecifico di
sottospecie.
Per riassumere, nel caso dei marcatori fingerprinting è possibile svolgere un’indagine molto profonda che
valuta la variabilità di gruppi di individui all’interno della specie. Con l’analisi di sequenza si elimina gran parte
della variabilità che intercorre tra gruppi di individui (a livello di popolazione) e si riesce invece a valutare il
livello di omogeneità del rango tassonomico di specie. Scegliendo il primo approccio, per individuare una
specie confrontandola con quelle vicine può succedere che si osservi una variabilità talmente elevata che
rende molto complicato separare le varie specie coinvolte. Per cui si osserverebbero gruppi di individui affini
tra loro, ma che poi sono specie separate. È come se si osservasse in maniera troppo fine un concetto: lo si
vede talmente da vicino che si perde la visione d’insieme. L’analisi di sequenza elimina questo problema,
consente di rendere evidente la variabilità tra gruppi tassonomici differenziati, senza mostrare la varietà
interna (eventuali aplotipi, per esempio). Quindi, quando si effettua questo tipo di analisi, bisogna avere ben
chiaro l’obiettivo della ricerca, per poi scegliere il marcatore più corretto da utilizzare.
ANALISI DI SEQUENZA
Per identificare una specie si impiega un’analisi di sequenza, classica o con approccio barcoding. Questo vale
anche per gli ibridi? Sì, vale soprattutto per gli ibridi. Un ibrido è il risultato di un incrocio tra due specie più o
meno affini, da cui si ottiene una generazione successiva che può essere fertile o meno. Ad ogni modo si
ottiene un’entità che geneticamente è una mescolanza.
Con il fingerprinting, bisognerebbe confrontare il gruppo ibrido con i due parentali analizzando la struttura
genetica, e così individuare la porzione di genoma ibrido più affine ai due parentali. Però è complicato.
Con l’analisi di sequenza si riconoscono più facilmente gli ibridi. Quando si analizzano le sequenze
nucleotidiche, si possono osservare due differenti tipologie di DNA (per quanto riguarda le piante): nucleare
e plastidiale. In particolare per le piante il DNA plastidiale generalmente più utilizzato è quello del cloroplasto.
Questo non vuol dire avere la sequenza nucleotidica di tutto il genoma del nucleo o del cloroplasto (si
potrebbe anche fare se si avessero a disposizione fondi e tempi necessari, che di solito sono molto contenuti).
I tempi brevi (e i costi ridotti), nel caso di un’analisi forense, consentono di non allungare troppo il processo
d’indagine. Quindi viene utilizzato molto spesso, se possibile, un approccio di analisi nucleotidica di porzioni
di DNA nucleare e plastidiale. Queste porzioni di DNA devono avere delle caratteristiche specifiche?
All’interno del DNA nucleare e plastidiale, cosa significa sceglierne delle porzioni? Significa selezionare parti
che sono identificative della specie, riconoscere regioni del DNA polimorfiche, con una doppia caratteristica:
devono contenere una certa variabilità al loro interno e questa variabilità deve consentire di individuare la
specie. Chiaramente, in qualità di biologi forensi non si può fare uno studio sulle migliori regioni del DNA per
riconoscere la specie, bensì bisogna basarsi sulle ricerche pregresse. Ci sono delle regioni (sempre per quanto
riguarda le piante) che, sia nel nucleo che nel cloroplasto, sono dei marcatori molecolari molto forti,
significativi. Generalmente queste regioni sono degli spaziatori intergenici, quindi non sono regioni
codificanti. Infatti le porzioni codificanti mutano molto più lentamente delle non codificanti. Una regione che
codifica dà luogo ad una proteina che ha una certa funzione. In presenza di mutazioni nella zona in questione,
la proteina non viene più costruita nella maniera più corretta, perde la propria funzione con conseguenze
sulla fitness dell’organismo. Alcune regioni del DNA non sono codificanti e generalmente sono spaziatori
intergenici, con magari funzioni epigenetiche. Queste porzioni raccolgono mutazioni ed è a livello di queste
zone che si concentra l’analisi di sequenza.
A livello del DNA nucleare, una delle principali regioni maggiormente impiegata per l’analisi di sequenza, per
riconoscere le specie (ed è anche una regione di barcoding), è la ITS (Internal Transcribed Spacer) 1 e 2. Si
tratta di spaziatori intergenici che si trovano in una regione che include anche altri geni: vi è il 26S (codificante
per una subunità dell’rRNA), poi l’ITS1, il 5,8S, l’ITS2 e il 28S. In particolare la regione ITS1-5,8S-ITS2 viene
impiegata in misura elevata per analisi di sequenza. Per quanto riguarda il DNA plastidiale, le regioni sono
moltissime. Alcune sono veri e propri spaziatori intergenici, come il trnL-trnF. Altre invece sono proprio regioni
codificanti, come il MALK. Infine per gli animali, così anche per le piante, c’è il COI, a livello del mitocondrio.
Come mai ci sono tantissimi esempi per il cloroplasto e molti meno per il DNA nucleare? Esistono delle
differenze tra marcatori del DNA nucleare e marcatori del DNA plastidiale? Ci sono differenze dal punto di
vista strutturale, in particolare delle mutazioni? Sì, ci sono differenze. Generalmente il DNA nucleare accumula
più mutazioni rispetto al plastidiale, quindi è più variabile. Altre differenze? Il DNA nucleare è molto più
esteso, ad esempio si osservano 150.000 paia di basi per il glicine e così anche per il pomodoro. Al massimo
si raggiungono le 700.000 paia di basi per altre specie di piante. Ma, da un punto di vista generale, la differenza
principale risiede nella tipologia di trasmissione. Il DNA nucleare deriva dall’unione dei gameti di entrambi i
genitori, quindi ha origine biparentale, mentre il cloroplasto (e il mitocondrio nell’uomo) è uniparentale,
generalmente femminile. Questo è vero se la riproduzione degli organismi avviene per via sessuata. Di
conseguenza quello plastidiale è più conservato e meno variabile.
Nel caso di un ibrido (per ritornare alla domanda iniziale), si avrà discrepanza tra DNA nucleare e plastidiale.
Più nello specifico dal confronto del marcatore nucleare si osserva che le relazioni sono di un certo tipo tra gli
organismi. Queste relazioni variano se si analizza un marcatore plastidiale. Una discrepanza tra linee evolutive
evidenzia l’origine della linea X a partire da un incrocio tra un’entità di un gruppo con un’altra di un altro
gruppo. Difatti da un’analisi di sequenza si ottengono alberi filogenetici a partire sia dal DNA nucleare che da
quello plastidiale, che poi si confrontano alla ricerca di un match. L’assenza di un match indica che si sta
osservando il fenomeno dell’ibridazione.
Di seguito sono elencate alcune caratteristiche dell’analisi delle sequenze nucleotidiche.
Il DNA nucleare è più variabile e generalmente ha un’origine biparentale. Quindi può essere utilizzato per
rappresentare le relazioni evolutive di varie identità e identificare una specie. Se ne conoscono meno copie
(ci sono meno regioni analizzabili e indagabili) rispetto al DNA plastidiale, perché generalmente bastano
poche regioni per eseguire un’analisi filogenetica risolutiva (perché è molto più variabile). Il DNA del
cloroplasto invece, essendo molto meno variabile, richiede l’analisi di più regioni.
A livello del DNA nucleare c’è un problema: queste regioni possono essere talmente variabili da sottolineare
una varietà presente a livello intraspecifico, introducendo così un elemento di potenziale confusione. Inoltre
spesso può succedere che tratti di DNA nucleare si evolvano e seguano una propria via evolutiva, a livello di
una stessa specie. Si formano così delle famiglie geniche. Si ottengono quindi dei geni paraloghi, che possono
presentare una propria via evolutiva, con mutazioni specifiche e indipendenti. Di conseguenza effettuando
un’analisi di DNA di un individuo con geni paraloghi A1 e A2, può risultare che lo stesso soggetto presenti
delle mutazioni confermate. Pertanto anche questo fenomeno rappresenta una fonte di potenziale
confusione, che è possibile eliminare selezionando ad hoc delle regioni di DNA: si deve sapere quali regioni
sono leggermente più esenti da paralogia, c’è quindi bisogno di conoscenza bibliografica.
Quando si verifica questo evento? Quando ci si trova di fronte a problemi di paralogia? Con organismi
poliploidi, per cui a livello genomico si hanno n copie per allele. Con corredo cromosomico poliploide è
probabile, analizzando regioni di DNA nucleare, che si osservino problemi di paralogia e quindi ottenere
sequenze nucleotidiche che hanno dei problemi. Più nello specifico, analizzando e amplificando le regioni di
uno stesso individuo più volte, è possibile ottenere sequenze nucleotidiche con mutazioni negli stessi punti.
Non si tratta di errori di sequenziamento, bensì di modifiche legate alla presenza di famiglie geniche. Quindi
bisogna evitare di analizzare geni paraloghi.
A questo punto si cerca di mettere in pratica quanto affermato finora, seguendo il workflow dell’indagine che
si basa sull’utilizzo di marcatori. Si parte dall’estrazione del DNA e dall’amplificazione, fino al sequenziamento.
Questo metodo di analisi si può applicare solamente se si ha un frammento di una pianta o una pianta intera
e non si può applicare a contenuti stomacali o a campioni fecali (perché in questo caso non si ha un singolo
frammento, ma una mescolanza, quindi l’approccio è d