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LA TERZA PAROLA/COMANDAMENTO
“ricordati del giorno di sabato per santificarlo”
Tradotto nella nostra comprensione quotidiana sarebbe: “vai a messa”, ma più nello specifico si tratta di
un’indicazione su come relazionarci al tempo (il senso morale del tempo).
Il testo completo sarebbe questo: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo
lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio. Tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio,
né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro le tue porte. Poiché
in sei giorni Dio ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e il settimo giorno si è riposato. Perciò il
Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro. “ (sacro = degno di dio)
In greco il tempo ha 3 modi per essere detto:
--Chronos: tempo cronologico e misurabile (es. oggi è 25 marzo 2021)
--Kairos: tempo (che fa parte del Chronos) di relazione con Dio
--Escaton: il tempo che verrà
Il primo termine che incontriamo in questa terza Parola è zakhor, che comunemente traduciamo con “ricordati”. La
forma verbale e il tempo, in ebraico indicano la continuità dell’azione, non una cosa che si fa di tanto in tanto.
Non è quindi un imperativo che ci rimanda solo al passato, una volta a settimana, a precisi eventi in base a cui lo
shabbat sarebbe stato istituito. La traduzione esatta sarebbe “sii e permani nello shabbat; ricorda costantemente
lo shabbat”. È quindi un imperativo che ci rimanda in parte al passato ma soprattutto al presente e al futuro. La
declinazione temporale si fonde. 15
Questa dimensione temporale porta con sé un’importante indicazione per la dinamica morale: è la dimensione
dell’avanti, del “davanti a me”, della proiezione verso il futuro del mio essere, della forza interiore che ho dentro,
in base al progetto originario di Dio.
È quindi il desiderio e la possibilità di costruire sé stessi in vista del futuro, di entrare in una dinamica che sappia
creare il senso della mia esistenza futura e la mia relazione con il Signore.
Questa dimensione dinamica non è vuota: subito dopo la zakhor ci viene indicato in quale ricordo dobbiamo
rimanere (lo shabbat) e perché (per santificarlo).
Lo shabbat, il sabato, il giorno del riposo, non è considerato singolarmente: è visto insieme agli altri 6 giorni. Sei
giorni di lavoro e uno di riposo. Lo shabbat pone l’accento sull’esigenza di un tempo di riposo nel ritmo della vita e
di un tempo esplicitamente dedicato all’espressione della fede.
L’operosità umana (il “lavorare”) appartiene al dono affidatoci dal Creatore di poter realizzare noi stessi usando le
disponibilità che il creato offre. E vivere da persone significa non essere schiavi delle cose. Proprio per questo è
necessario che l’operare sia consapevole, di persona che discerne e responsabilmente decide del suo agire,
orientandolo in base a quanto comprende essere conforme al senso del suo vivere. Il 6 + 1 dei giorni, con la
sottolineatura del “rimanere nello shabbat”, indica quindi che si deve avere cura della propria interiorità personale
affinché sia personale pure l’operare nel mondo.
Secondo la tradizione ebraica, ogni giorno è “sposato” con un altro: la domenica con il lunedì, il martedì con il
mercoledì, il giovedì con il venerdì. Lo shabbat invece è solo. Ma il Midrash afferma: “Lo shabbat è sposato con
Israele”. Con il termine Israele bisogna intendere la comunità di uomini che accetta di essere costituiti da una legge
che consente loro di andare al di là di loro stessi.
Il tempo qui gioca un importante ruolo: è insieme tempo presente di riposo che consente di ordinare il tempo
dell’agire futuro. È un tempo sottratto al lavoro affinché gli sia reso in modo più pieno, più personale, più ordinato.
Il tempo quindi di propone, in questa Parola, come valore (qualcosa che vale) alla propria umanità, al progetto di
Dio per ciascuno e per tutti.
Il numero 6 corrisponde al mondo visibile, al mondo creato e offerto agli occhi. Il numero 7 all’invisibile, a quanto
ci sfugge. Shabbat vigila su ciò che non si vede. Il visibile non è tutto. Esiste un aldilà dal visibile, sia perché il visibile
si rende invisibile (sono necessari uno sguardo nuovo e una nuova attenzione per vedere il visibile con occhi diversi),
sia perché nel mondo c’è dell’invisibile: Dio, l’ambito dei sentimenti, la soggettività e la coscienza di ciascuno…
“Ricordati dell’invisibile”: significa ricordarsi di ciò che non abbiamo ancora visto, né vedremo mai ma di cui siamo
responsabili: Dio e le generazioni future.
Moralmente parlando siamo vincolati non solo al rispetto del prossimo, a colui che mi sta di fronte. Siamo vincolati
anche a ciò che è lontano, anche a coloro da cui non ci possiamo aspettare alcuna reciprocità.
È la rottura totale di una morale basata sul do ut des. Si tratta di perpetrare la storia umana, l’umanità futura che è
fragile, peritura, ponendo attenzione a come interpretiamo il nostro pro-creare (ovvero a come rispondiamo al
dono di Dio che ci lascia la responsabilità del creato). “… non lavorerai…” cioè devi lasciare del lavoro per chi verrà
dopo; oppure: devi fare riposare la terra, non sfruttarla al di là del ragionevole e dell’utile… affinché le altre
generazioni abbiano ancora di che produrre, lavorare, vendere, vivere. Essere.
Il giuramento rientra per sua natura nell’ambito dell’invisibile: il soggetto agente, morale, ad un processo “giura”
che le cose si sono svolte come egli afferma. Egli parla di avvenimenti che non sono più, che sono invisibili.
Se invece il soggetto promette lo fa su un futuro che non è ancora, che è invisibile. Il giuramento è quindi nella
dimensione del 7. Il reciproco rimando, tra giuramento e dimensione invisibile, è evidente nel “non nominare il
nome di Dio invano”, che, in altro modo, richiama la nostra responsabilità morale.
Lo shabbat deve essere santificato, ovvero reso partecipe della santità che sola appartiene Dio: è quindi tempo
pieno della presenza di Dio. È su questa linea che lo stesso Gesù Cristo risponde, quando lo si accusa di violare la
santità del sabato: “Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Mt 2,27; cfr. Gv 9,16 e Mc 1,21,
dove Gesù “proprio di sabato” va alla sinagoga e inizia a insegnare).
Non è il giorno in sé, in quanto sabato, ma il tempo che deve essere santificato, ovvero reso significativo in ordine
alla nostra relazione con Dio e quindi gli altri e le cose, con il nostro operare. 16
È il tempo in cui ritroviamo il senso e la direzione della nostra vita e di quella altrui. Siamo quindi nell’ambito
dell’ordine da dare e da cercare per sé e per gli altri, quindi nel campo della morale. Santificare lo shabbat significa
quindi, per chi vuole vivere una vita significativa tra gli uomini, l’impegnarsi per cercare un’attività silenziosa o un
riposo attivo. Il riposo domenicale, quindi, non è quindi tanto un fine quanto un mezzo.
Ma la ci offre almeno altre due indicazioni importanti per il nostro agire morale:
quarta Parola
1) tutti si devono riposare (colui che ascolta, i figli, gli schiavi, il bestiame…).
È evidente, sullo sfondo, una società di tipo rurale. Forse sorprende la presenza dello schiavo tra coloro che si deve
far riposare: normalmente è considerato meno del bestiame e costretto a lavorare ininterrottamente, senza alcun
diritto. Ma questa Parola spezza la detta regola antica: per costruire la società occorre fare riposare tutti. Da notare
come l’azione dell’uomo deve corrispondere all’azione di Dio: questa Parola è indirizzata a un popolo che è appena
stato liberato dalla schiavitù d’Egitto e il Dio cui si rivolge è il suo liberatore. Non è solo, quindi, un’indicazione su
cosa dobbiamo fare (chi dobbiamo far riposare), ma sul come dobbiamo agire. Questo ci porta alla seconda
indicazione
2) Dio, il settimo giorno, non ha oziato. Ha creato il riposo e lo ha osservato Egli stesso. Non ha semplicemente
detto: “osservate il risposo” ma si è risposato Egli stesso. Questa è la singolare forza dello shabbat. Da notare che
per indicare il rapporto tra Dio e lo shabbat sono usati due verbi (benedire e santificare) e per indicare il rapporto
tra l’uomo e lo shabbat – in prima battuta – ve ne è uno solo.
L’identità cristiana, rispetto a questa Parola, consiste nell’essere memoriale della risurrezione di Cristo, quel Cristo
presente e venturo (ancora una volta il tempo, passato, presente e futuro nonché l’eschaton si fondono).
L’esigenza morale della domenica, sia nel suo riferimento teologico, sia nel suo riferimento cristologico, è, quindi,
in primo luogo, la partecipazione alla celebrazione eucaristica, non certo come abitudine, come formalità vuota, ma
come spazio di esistenza (in quanto esistenza in relazione con la presenza reale di Gesù Cristo, che ha pienamente
realizzato l’intimità tra Dio e l’uomo).
La costituzione sulla liturgia, Sacrosanctum Concilium, del Concilio Vaticano II, al n° 106, afferma: “[…] in questo
giorno, infatti, i fedeli devono riunirsi in assemblea, perché, ascoltando la Parola di Dio e partecipando all’eucaristia,
facciano memoria della passione, della risurrezione e della gloria del Signore Gesù, e rendano grazie a Dio […]”.
Ecco perché la messa domenicale è definita “precetto”: non incutere timore o punire in caso di assenza, in senso
legalistico, ma per indicare l’estrema importanza di questa Parola in ordine alla relazione d’amore del singolo e della
comunità. “
Nel caso in cui uno non possa partecipare alla messa domenicale, per motivi proporzionati, non si parla più di “cause
scusanti” ma di “giustificazioni legittime”. Il passaggio è sottile ma, nel contempo, estremamente importante.
LA QUARTA PAROLA
“onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paesi che ti dà il Signore, tuo Dio”
Riferimento al senso morale del rapporto con le creature.
È importante ricordare che questa Parola non ci obbliga