QUI CONTA COME LA DAMIGELLA DI SCALOT MORÌ, PER AMORE DI
LANCIALOTTO DEL LAC.
Una figliuola d'un grande varvassore si amò Lancialotto del Lac, oltre misura, ma elli
non le voleva donare suo amore, imperciò che elli l'avea donato alla reina Ginevra.
Tanto amò costei Lancialotto, ch'ella ne venne alla morte e comandò che, quando sua
anima fosse partita dal corpo, che fosse arredata una ricca navicella, coperta d'uno
vermiglio sciamito, con un ricco letto ivi entro, con ricche e nobili coverture di seta,
ornato di ricche pietre preziose: e fosse il suo corpo messo in questo letto, vestita di
suoi più nobili vestimenti e con bella corona in capo, ricca di molto oro e di molte
pietre preziose, e con ricca cintura e borsa. Ed in quella borsa avea una lettera, che
era dello infrascritto tenore. Ma, in prima, diciamo di ciò, che va innanzi la lettera. La
damigella morì di mal d'amore, e fu fatto di lei, ciò che disse. La navicella, sanza vela,
e sanza remi e sanza neuno sopra sagliente, fu messa in mare, con la donna. Il mare
la guidò a Camalot, e ristette alla riva. Il grido andò per la corte. I cavalieri e baroni
dismontaro de' palazzi, e lo nobile re Artù vi venne, e maravigliavasi forte, ch'era
sanza niuna guida. Il Re intrò dentro: vide la damigella e l'arnese. Fe' aprire la borsa:
trovaro quella lettera. Fecela leggere, e dicea così: «A tutti i cavalieri della Tavola
ritonda manda salute questa damigella di Scalot, sì come alla miglior gente del
mondo. E se voi volete sapere perch'io a mia fine sono venuta, sì è per lo migliore
cavaliere del mondo, e per lo più villano; cioè monsignore messer Lancialotto del Lac,
che già nol seppi tanto pregare d'amore, ch'elli avesse di me mercede. E così, lassa,
sono morta, per ben amare, come voi potete vedere!»
- 65 - Tristano e Isotta, amanti segreti, usano un segnale per incontrarsi: lui intorbida
l’acqua di una fontana nel giardino del re Marco, marito di Isotta. Un giardiniere scopre
il trucco e lo rivela al re, che si nasconde su un pino vicino alla fontana per spiarli.
Isotta, accortasi della sua presenza, finge di rimproverare Tristano pubblicamente per
averla disonorata, e lui, capendo il gioco, si difende e accetta di andarsene. Il re,
ascoltando tutto, crede alla loro innocenza. Tristano poi finge di partire, ma su ordine
del re e della regina, resta. Così i due amanti si salvano grazie alla loro astuzia.
L’intelligenza e l’astuzia possono salvare dall’inganno e dal giudizio, anche
in situazioni pericolose.
Isotta e Tristano, pur colti in un momento rischioso, usano la prontezza di spirito e la
finzione per proteggere il loro amore e il proprio onore.
QUI CONTA DELLA REINA ISOTTA E DI MESSERE TRISTANO DI LEONIS.
Amando messer Tristano di Cornovaglia Isotta la bionda, moglie del re Marco, si fecero
tra loro un segnale d'amore di cotal guisa: che, quando messer Tristano le volea
parlare, si andava ad un giardino del Re, dove era una
fontana, ed intorbidava il rigagnolo che facea la fontana. E andava questo rigagnolo
per lo palazzo, dove stava la detta madonna Isotta: e quando ella vedeva l'acqua
intorbidata, si pensava che messere Tristano era alla fonte. Or avvenne, ch'un mal
avventurato giardiniere se n'avvide, di guisa che li due amanti neente il poteano
credere. Quel giardiniere andò allo re Marco e contolli ogni cosa, com'era. Lo re Marco
si diede a crederlo. Si ordinò una caccia e partissi da' suoi cavalieri, sì come si
smarrisse da loro. Li cavalieri lo cercavano, erranti per la foresta, e lo re Marco n'andò
in su il pino che era sopra la fontana, ove messere Tristano parlava alla Reina. E
dimorando la notte lo re Marco sul pino, e messere Tristano venne alla fontana e
intorbidolla. E, poco tardante, la Reina venne alla fontana, ed a ventura le venne un
bel pensero, che guardò il pino. E vide l'ombra più spessa, che non solea. Allora la
Reina dottò, e dottando ristette, e parlò con Tristano in questa maniera e disse: –
Disleale cavaliere, io t'ho fatto qui venire, per potermi compiangere di tuo gran
misfatto; ché giammai non fu in cavaliere tanta dislealtade, quanta tu hai per tue
parole: ché me hai onita, e lo tuo zio re Marco, che molto t'amava. Ché tu se' ito
parlando di me, intra li erranti cavalieri, cose che nello mio cuore non poriano mai
discendere. Ed innanzi darei me medesima al foco, che io onissi così nobile re, come
monsignor lo re Marco. Onde io ti disfido, di tutta mia forza, sì come disleale cavaliere,
sanza niuno altro rispetto. – Tristano, udendo queste parole, dubitò forte e disse: –
Madonna, se malvagi cavalieri di Cornovaglia parlan di me tutto [ciò,] primamente
dico che giammai io, di queste cose, non fui
colpevole. Mercè, donna, per Dio! Elli hanno invidia di me; ché io giammai non feci, né
dissi cosa, che fosse disinore di voi, né del mio zio re Marco. Ma, dacché vi pur piace,
ubbidirò a' vostri comandamenti. Andronne in altre parti a finir li miei giorni. E forse,
avanti che io mora, li malvagi cavalieri di Cornovaglia avranno soffratta di me, sì
come elli ebbero al tempo dello Amoroldo, quandoio diliverai loro e loro terre, di vile e
di laido servaggio. – Allora si dipartiro, sanza più dire. E lo re Marco, che era sopra
loro, quando udì questo, molto si rallegrò di grande allegrezza. Quando venne la
mattina, Tristano fe' sembianti di cavalcare. Fe' ferrare cavalli e somieri. Valletti
vegnono di giù e di su: chi porta freni, chi selle. Il tremuoto era grande. Il Re s'adirò
forte, del partire di Tristano, e radunò baroni e suoi cavalieri, e mandò comandando a
Tristano, che non si partisse, sotto pena del cuore, sanza suo commiato. Tanto ordinò
il re Marco, che la Reina ordinò e mandolli a dire, che non si partisse. E così rimase
Tristano a quel punto, e non si partì. E non fu sorpreso, né ingannato, per lo savio
avvedimento ch'ebbero intra lor due (petronciani)
- 35 - Maestro Taddeo da Bologna insegna che mangiare melanzane per
nove giorni consecutivi causa la pazzia, secondo la medicina del tempo. Uno studente
decide di verificarlo di persona: mangia melanzane per nove giorni, poi torna dal
maestro e afferma di non essere impazzito… ma conclude il discorso mostrandogli il
sedere. Il maestro, vedendo il gesto folle, riconosce che il trattato è stato confermato
e dice ironicamente: “Annotate che è stato provato, e si faccia una nuova glossa
(commento).”
QUI CONTA DEL MAESTRO TADDEO DI BOLOGNA
Maestro Taddeo, leggendo a’ suoi scolari in medicina, trovò che, chi continuo
mangiasse nove dì di petronciani, che diverebbe matto; e provavalo secondo fisica.
Un suo scolaro, udendo quel capitolo, propuosesi di volerlo provare: prese a mangiare
de’ petronciani, et in capo de’ nove dì venne dinanzi al maestro e disse: «Maestro, il
cotale capitolo che leggeste non è vero, però ch’io l’hoe provato, e non sono matto»:
e pure alzasi e mostrolli il culo. «Iscrivete» disse il maestro «che provato è; e
facciasene nuova chiosa».
- Il secondo nucleo degli uomini di corte -
Con protagonista Marco Lombardo, lui nella divina commedia è un portavoce di Dante,
nel canto 16 del purgatorio si colloca nel complesso delle 3 cantiche e dei 100 canti si
trova esattamente a meta, gli dà una centralità geometrica e di notevole importanza,
Marco ci parla dei 2 poteri medievali, il papato e l’impero, 2 istituzioni in quel
momento storico l’uno contro l’altro e ne porterà anche altri di scontri. La mancanza
di equilibrio ha portato anche la divisione tra guelfi e ghibellini, e lui spiega la mala
condotta che hanno portato a questo disequilibrio tra i 2 poteri più importanti.
Attraverso lui dante dice in pochi versi quello che dice nel trattato della monarchi.
Prima di questo straordinario canto di marco lombardo non sappiamo nient’altro se
non quello che ci racconta l’autore del novellino, il novellino così rappresenta anche
un condensatore di fatti e racconti intorno a personaggi che non hanno lasciato
traccia, condensa quella caratteristica di Marco Lombardo SAVIO ovvero saggio. Lui
uomo di corte, uomo verticale che non baratta mai la propria dignità morale, uomo
talentuoso per quanto riguarda l’arte della parola, e queste caratteristiche ci fanno
capire perché Dante lo usa per darsi voce.
- 44 - D'UNA QUISTIONE, CHE FU POSTA AD UN UOMO DI CORTE.
Marco Lombardo fue nobil uomo di corte e savio molto. Fu, a uno Natale, ad una
cittade, dove si donavano molte robe, e non n'ebbe niuna. Trovò un altro uomo di
corte, lo quale era nesciente appo lui, ed avea avute robe. Di questo nacque una bella
sentenzia, ché quello giullare disse a Marco: – Che è ciò, Marco, che io ho avute sette
robe, e tu niuna? E sì, se' tu troppo migliore e più savio di me! Quale è la cagione? – E
Marco rispose: – Non è per altro, se non che tu trovasti più de' tuoi, ch'io non trovai
de' miei.
Un uomo saggio di corte che nel periodo natalizio gli si donavano molti vestiti, cosa
che all’epoca costavano tantissimo, non è carità, va in questa città dove agli artisti
vengono donate robe. Incontra un altro uomo che contava meno di Marco che è però
ebbe 7 vestimenti, mentre Marco niente, da li nasce una bella battuta, che con un po’
di ironia stuzzica Marco Lombardo. Marco risponde in modo altezzosa dicendo che
andando li non ha trovato nessuno che riconoscesse la sua saggezza.
- 55 - QUI CONTA UNA NOVELLA DI UNO UOMO DI CORTE, CHE AVEA NOME MARCO.
Marco Lombardo, [uomo di corte] savissimo, più che niuno di suo mestiero, fu un dì
domandato da un povero, orrevole uomo e leggiadro, il quale prendea i danari in
sagreto, da buona gente, ma non prendea robe. Era a guisa di morditore, ed avea
nome Paolino. Fece a Marco una così fatta quistione, credendo che Marco non vi
potesse rispondere: – Marco, – disse elli, – tu se' lo più savio uomo di tutta Italia, e se'
povero e disdegni lo chiedere. Perché non ti provedesti tu sì che tu fossi sì ricco, che
non ti bisognasse di chiedere? – E Marco si volse d'intorno; poi disse così: – Altri non
vede ora noi e non ci ode. E tu, com'hai fatto? – E 'l morditore rispose: – Ho fatto sì,
ch'io sono povero! – E Marco disse: – Tiello credenza a me, ed io a te.
Marco Lombardo,
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