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Un viaggio è fatto di tappe, le quali vengono definite touch point. Questo schema
mostra il primo livello di evoluzione tra il modello tradizionale che era diffuso nella
società predigitale e il primo modello di sviluppo che McKinsey ha elaborato nel 2009.
Livello tradizionale: modello a imbuto, più vado avanti nel percorso, più l’imbuto si
restringe. Le tappe del percorso sono controllate integralmente dall’azienda. Azienda
attiva, cliente passivo.
1. Attenzione → io devo intercettare l’attenzione del mio cliente. Come faccio?
Cerco di cogliere l’attenzione in un panorama affollato. L’attenzione poi non è
garanzia di passare ai livelli successivi.
2. Interesse
3. Desiderio → è una cosa che coglie la mia attenzione, mi può interessare. Per
arrivare al desiderio devo avere una motivazione in più, devo sentire la
mancanza di qualcosa. Il desiderio dipende dall’identificare qualcosa che
risponde a quello che io cerco. Solo in questa fase l’utente diventa attivo.
4. Azione → azione vuol dire comprare effettivamente qualcosa. Devo percepire il
valore aggiunto che quell’oggetto ha rispetto ad altri. questo percorso a imbuto
va a restringersi progressivamente: in una logica di comunicazione di massa,
parto con un pubblico molto ampio da raggiungere e lo restringo fino a quando
quella persona compra quell’oggetto.
5. Fidelizzazione → ho bisogno che il cliente rimanga attaccato al mio prodotto.
questo dipende dall’esperienza che il cliente fa con il mio prodotto.
Cosa non funziona oggi di questo modello? C’è una verticalità, e un soggetto passivo.
Oggi non si può più ragionare in questi termini. Inoltre, in questo modello non c’è
personalizzazione: il messaggio che io propongo è un messaggio di massa. Cercare di
attingere ad un bacino ampio, so che questo bacino non corrisponde a chi comprerà il
mio prodotto. più ampio è il bacino, più è facile che io possa arrivare ad avere molti
acquirenti. Oggi questo modello non può funzionare.
Oggi il modello che funziona è un modello che punta sulla circolarità (Modello di
McKinsey) → il flusso comunicativo non è più di uno a molti, ma il modello è di molti a
molti. quali sono le fasi principali? Il presupposto è considerare l’utente come un
soggetto attivo: la circolarità ci da l’idea di un processo continuo.
1. Considerazione iniziale → necessità iniziale di prendere in esame quel brand e
quel prodotto. la considerazione resta qualcosa che va approfondito
2. Valutazione attiva → io vado a cercare le informazioni in rete, io voglio capire
che cosa mi interessa e se quello che mi interessa corrisponde a quello che mi
offri. Voglio capire gli altri cosa dicono.
3. Acquisto → acquisto e seleziono la marca che mi interessa.
4. Esperienza post acquisto → metto la mia esperienza a disposizione di tutti, in
modo che possa essere utile ad altri. L’esperienza deve essere positiva, così io
divento ambasciatore di quel brand. Quel brand può essere considerato per un
altro utente (fase di considerazione iniziale).
La complessità di questo modello non è solo di gestire degli strumenti, ma di gestire
un processo, entrare in un ambiente. Questo modello del 2009 era un primo tentativo.
Questo impegno ha a che fare con la dimensione digitale, ma nella prospettiva
integrata la prima fase (considerazione iniziale del brand) dipende non solo dalla
valutazione di altri clienti.
Ci sono stati altri modelli che sono intervenuti successivamente e che si sono basati
sulla necessità di maggiore condivisione dell’esperienza del cliente da parte
dell’azienda. Gli elementi che hanno segnato una linea di continuità tra questi modelli
sono elementi legati alla rete.
Modello del 2015 → rispetto al modello McKinsey aggiunge la definizione di Dynamic
customer journey, che stressa ulteriormente il tema del viaggio. Questo studioso
prende in esame la generazione C, cioè l’insieme delle persone connesse a
prescindere dall’età. Già oggi non possiamo più catalogare le persone solo in base
all’età, ma in base alla capacità di integrare gli strumenti digitali. Questo è
fondamentale, perché è sempre più evidente che non solo l’elemento dell’età fa la
differenza, ma anche l’elemento dell’istruzione.
Se noi consideriamo di vivere un ambiente ci sentiamo in obbligo di co-partecipare allo
scambio di informazioni.
Il modello evolve ulteriormente. Guardando lo schema, si vede come e perché viene
definito lo schema delle 5A:
1. Conoscenza di un brand (aware) → il cliente sta cercando dei contenuti, perché
cerca delle risposte su degli argomenti particolari. È un soggetto attivo.
L’importante è capire come i clienti, con strumenti diversi, vengano a
conoscenza del brand. Questo agisce sull’attitudine, non sul comportamento.
2. Interesse (Appeal) → devo dire se una cosa mi piace o non mi piace. Il like non
determina automaticamente l’essere cliente di un brand. Il cliente metabolizza il
flusso informativo e si sente attratto verso un numero circoscritto di brand. In
questa fase il viaggio si fa social, perché è una fase di condivisione.
3. Ask → fase che mi permette, attraverso la risposta alle domande, se il mi piace
si trasforma in un mi convince. Che una cosa mi piaccia ha a che fare con un
livello superficiale di percezione; se una cosa mi convince ha a che fare con un
livello più strutturale. Come si fa a convincere? Come fa il cliente a convincersi?
Confronto con la schiera più stretta di familiari e amici, e socializzazione. Da
questo confronto nasce la mia convinzione. Fase di socialità più attiva, si basa
sul dialogo. Il viaggio si fa molto social. L’elemento della conversazione viene
individuato come uno degli elementi decisivi per consolidare quest’idea che mi
sto facendo.
4. Azione (act) → per acquisto, rispetto all’idea tradizionale, dobbiamo intendere
tutta l’esperienza del cliente, dalla fase in cui ordina, alla fase in cui prova, alla
fase in cui giudica.
5. Advocacy → divento sostenitore e promotore del prodotto. In questa logica
circolare portare a termine l’esperienza del cliente in modo positivo significa
avere un diffusore, un amplificatore che parla bene del tuo prodotto e che si fa
l’attore più o meno consapevole della strategia di comunicazione.
Dalla prima interazione che porta all’acquisto, alla successiva diffusione che porta
conoscenza, il comportamento dell’utente che si fa parte attiva è la cosa che fa la
differenza.
Processo decisionale di acquisto → cerchiamo di capire le fasi principali su cui agire.
C’è un momento nel quale il cliente decide, entra in contatto con il prodotto. Nel 2005
… ha emesso la teoria del primo momento di verità (FMOT): il primo momento di verità
è il primo approccio che io ho e che dura dai 3 ai 7 secondi, rispetto al prodotto che
vado a valutare. Nella teoria della rete, grazie soprattutto a Google, si è rideterminato
questo primo momento di verità con il momento zero di verità (zero moment of truth):
significa individuare quel momento in cui io parto da un bisogno e faccio una ricerca in
rete per soddisfare e rispondere a quel mio bisogno. Che cosa utilizzo in questo
percorso? I motori di ricerca, i social, i siti che parlano del prodotto/ servizio che mi
serve. Anche qua, cambia la prospettiva: il primo momento di verità è qualcosa
tendenzialmente di passivo; qui invece partiamo da un’azione, da un approccio attivo
del cliente, che va a cercare, sulla base del bisogno, le informazioni. Si sposta la logica
da un atteggiamento passivo a un atteggiamento attivo. Questo è stato definito come
un’evoluzione del primo momento di verità.
A questo momento iniziale, si aggiunge il secondo momento di verità: è la verifica del
prodotto in relazione alle aspettative. Questo è fondamentale perché va a orientare i
miei comportamenti di acquisto di utente nelle decisioni successive al primo acquisto.
Il mio secondo momento di verità, se socializzato, può diventare il momento zero di
qualcun altro. Il secondo momento di verità è molto importante perché genera la
fidelizzazione del cliente, e dall’altro lato genera la risposta ai bisogni da parte di altri
clienti. Noi dobbiamo inquadrare il comportamento del cliente in alcuni momenti
decisivi.
L’autore aggiunge un ulteriore tassello, l’ultimo momento di verità: è quello in cui si
pubblicano le esperienze di acquisto, cioè mi faccio promotore e avvocato di quel
brand, stimolando il momento zero di qualcun altro. Tutti questi momenti sono
connessi l’uno con l’altro. Andando a individuare queste fasi, riusciamo a mettere a
fuoco gli aspetti motivazionali che presiedono ai comportamenti chiave del cliente.
Nella strategia comunicativa questo è fondamentale.
In linea con i presupposti teorici, ci troviamo di fronte all’esigenza per cui la strategia
comunicativa deve essere sempre di più omnichannel. È una cosa diversa da un’idea
strategica che si basava sulla comunicazione multichannel. La strategia multichannel
rispecchia l’idea di base della multicanalità e della multimedialità: molti canali
vengono gestiti in modo autonomo, l’uno dall’altro. C’è un adattamento del messaggio
ai canali, in modo tale che ogni canale abbia il suo messaggio. Ne consegue che i
canali non vengono integrati, e si propongono strategie differenti per pubblici
differenti. La strategia omnichannel, invece, è l’integrazione dei diversi canali. La
customer journey è qualcosa che non trova soluzione di continuità. Lavoriamo sul
rafforzamento dell’unitarietà del brand, perché questo comporta la fidelizzazione del
cliente. La mia esperienza di cliente deve essere un’esperienza unica: deve integrare
gli strumenti di comunicazione digitale, con gli strumenti analogici, e deve integrare
l’esperienza del singolo prodotto con i valori della marca prodotto. qualsiasi nuovo
prodotto troverà collocazione in un macrocosmo rodato, in cui tutto deve avere una
sua coerenza. Noi ci troviamo oggi di fronte ad un cliente che fa dello zigzagare una
sua caratteristica. Occorre trovare una risposta adeguata, che non spiazzi il cliente. Io
devo vivere un’unica esperienza se voglio fruire di quella marca in tutti i suoi aspetti.
se io opto per una strategia multichannel, ho una percezione diversa del prodotto a
seconda se lo