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tretutto assunto una maggior pregnanza al subentrare della terza motivazione, ossia al prevale-
re nella filosofia decisionale delle imprese internazionali di logiche finanziarie su quelle indu-
striali, riconducibile in larga parte al profondo mutamento del loro assetto proprietario; basti
pensare che il capitale azionario delle compagnie americane è detenuto per circa il 70% da in-
vestitori istituzionali (es. fondi mutualistici), per circa il 29% da investitori individuali e solo
per l’1% dai loro executives. Da qui, la preferenza delle imprese internazionali a massimizzare
la redditività a breve sul capitale investito, valorizzando giacimenti già scoperti attraverso inve-
stimenti di sviluppo, piuttosto che ricercarne di nuovi con più rischiose spese di esplorazione.
Bassa «spare capacity» e alti prezzi
D’altro canto, anche la quasi generalità delle compagnie nazionali dei paesi produttori dimostra
una bassa propensione/possibilità ad investire:
1. perché ampiamente condizionate nelle loro decisioni di investimento da obiettivi non
commerciali e da prevalenti interessi politici interni;
2. perché riluttanti a creare ingovernabili situazioni di overcapacity, che (secondo i paesi
OPEC) sono divenute ancor più probabili a seguito delle politiche di contenimento dei
consumi e di incentivazione delle fonti rinnovabili dei paesi consumatori;
3. perché assillate da enormi difficoltà tecnologiche e manageriali nell’affrontare nuovi te-
mi di ricerca mineraria o nell’accrescere il tasso di sfruttamento dei giacimenti in eserci-
zio;
4. perché paradossalmente a corto di risorse finanziarie, nonostante gli elevati introiti, a
causa del massiccio prosciugamento esercitato dalle inefficienti politiche sociali e
dell’esponenziale aumento della sussidiata domanda petrolifera interna.
Tutte queste difficoltà, esasperate dalle spinte nazionalistiche interne e dalle tensioni interna-
zionali, motivano quindi lo stato di profonda crisi in cui versano le imprese pubbliche di molti
stati produttori; basti pensare che il Venezuela ha ridotto di un 30% in un solo decennio la pro-
duzione di petrolio, con una crescente difficoltà a recuperarla anche a causa dell’estromissione
di molte imprese estere dal controllo e gestione dei maggiori progetti di sviluppo.
Resta comunque il fatto che, allo stato attuale, nessuno ha interesse o comunque è in grado di
realizzare investimenti per espandere l’offerta di petrolio e ricostituire margini di spare capacity
(capacità inutilizzata) tali da ricreare nuove condizioni di equilibrio dei mercati con minori
prezzi.
Nuovi profeti di sventura e abbondanza delle risorse
Passando invece al secondo ordine di ragioni che causa l’accresciuta rigidità ai prezzi
dell’offerta di petrolio, ossia l’inevitabile corso della natura (o below ground), è possibile osser-
vare che, come ciclicamente accaduto a ogni crisi petrolifera, anche nell’attuale si sono levati
timori da parte di profeti di sventura che il rialzo dei prezzi non dovesse imputarsi al «vuoto di
investimenti» ma all’inevitabile manifestarsi della scarsità assoluta delle risorse di petrolio. Si-
curamente, non si può escludere che ciò stia avvenendo per un gran numero di giacimenti: ba-
sti pensare che 18 dei 175 paesi produttori esterni all’OPEC hanno superato il picco della loro
curva di produzione, con un declino totale superiore ai 5 milioni di bbl/g (barili); ma trarne la
conclusione che ciò possa essere «imminente» anche per la produzione mondiale è logicamente
errato, non solo per il basso grado di conoscenza del sottosuolo in ampie parti del pianeta ma
anche perché attualmente la base mineraria di risorse su cui il mondo può teoricamente fare
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affidamento consentirebbe un flusso d’offerta nel lungo periodo di petrolio e metano in grado
di soddisfare l’attesa crescita della loro domanda. Allo stato delle cose, quindi, la natura non
pone un limite strutturale allo sviluppo dell’offerta di idrocarburi, seppur lungo una curva cre-
scente dei costi.
Peraltro, sostenere che il peak oil (picco del petrolio) non è alle porte non significa negare che
prima o poi quel momento sia destinato ad arrivare; anzi, la transizione al «dopo petrolio» do-
vrebbe costruirsi sin d’ora, sapendo che nessuna fonte potenzialmente ad esso alternativa è in
grado di generare un «surplus energetico» paragonabile a quello generato col petrolio. È per
tale ragione che i policy makers (responsabili politici) dovrebbero adottare un «principio di
precauzionalità» per evitare che la transizione al «dopo petrolio» sia troppo costosa e tardiva,
sapendo oltretutto che affinché ciò avvenga è necessario predisporre, ora per allora, di infra-
strutture di una dimensione da cinque a venticinque volte superiore a quelle che supportano lo
sfruttamento del petrolio.
Le compagnie internazionali hanno un futuro?
Attualmente invece, il mondo intero si trova inerte e inerme di fronte ai principali attori della
scena petrolifera che, essendo governati da decisori politici (nel caso delle compagnie nazionali
dei paesi produttori) e finanziari (nel caso di quelle internazionali), sono completamente indif-
ferenti all’esigenza di garantire un pieno e stabile equilibrio dei mercati energetici.
Se pertanto le grandi compagnie internazionali non muteranno profondamente il loro percorso
strategico, per esse non ci sarà futuro. Tale inversione poggia più precisamente sul verificarsi sia
di condizioni esterne che interne; nel primo caso infatti dovrebbero realizzarsi le condizioni po-
litiche necessarie per un ritorno dei loro capitali, tecnologie e professionalità nei paesi produt-
tori, mentre nel secondo caso dovrebbero affermarsi nuovi indirizzi strategici:
1. una gestione industriale e non finanziaria del portafoglio di business, per recuperare la fi-
siologica propensione al rischio dell’industria petrolifera;
2. una forte innovazione tecnologica, per ridurre i costi di investimento e di produzione,
per accrescere il grado di sfruttamento del petrolio ritrovato, per rafforzare le opportuni-
tà di accesso negli stati produttori, e per guadagnare posizioni di vantaggio competitivo
nelle frontiere delle risorse rinnovabili e dell’abbattimento delle emissioni gassose;
3. una maggiore capacità manageriale e creatività progettuale, per ricercare e disegnare più
avanzate «piattaforme relazionali» con gli stati produttori. 10
Cap. 5 – IL NUCLEARE TRA ASPETTATIVE E REALTÀ
Le illusorie speranze
Otto anni dopo le bombe su Hiroshima il presidente americano Eisenhower tenne
all’Assemblea delle Nazioni Unite il famoso discorso Atom for Peace, con cui propose alle altre
grandi potenze occidentali un comune impegno per avviare una nuova era di atomic welfare,
rendendo disponibile all’umanità energia a basso costo, senza ricatti politici e in quantità pres-
soché illimitata. Nel corso del tempo però, il contributo del nucleare si è dimostrato ben lonta-
no dalle speranze che si dischiusero nella comunità scientifica e in molte cancellerie occidentali
dell’epoca, raggiungendo infatti nel 1996 un massimo del 18% della produzione elettrica mon-
diale, per poi iniziare a decrescere inesorabilmente.
D’altra parte, se è pur vero che la biunivoca relazione tra atomo civile e atomo militare si è at-
tenuata dopo la caduta del muro di Berlino, è altrettanto vero che i timori/rischi di un ritorno
del nucleare per impieghi militari hanno ripreso a diffondersi dopo l’11 settembre 2001 per due
ovvie ragioni, ossia per gli aumentati rischi di atti terroristici e di sabotaggi alle centrali esisten-
ti e per l’acquisizione del controllo della tecnologia nucleare da parte di paesi come la Corea del
Nord e l’Iran che, incuranti di ogni ammonimento della comunità internazionale, si rifiutano di
sottoscrivere il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Alla prova della storia quindi,
l’atomic welfare si è dimostrato un fenomeno di breve e transitoria durata, con effetti contenuti
nel bilancio energetico mondiale e rilevanti solo in alcuni paesi.
Ciò non significa però che l’era del nucleare abbia esaurito le sue potenzialità tecnologi-
co/produttive. Per comprendere, infatti, il valore economico del nucleare non ci si può limitare
ai soli minori costi di produzione o alla maggior sicurezza di cui beneficiano i paesi che ne ac-
cettano la realizzazione, ma bisogna tener conto anche dei vantaggi di cui beneficia l’intera co-
munità internazionale. Tali vantaggi sono individuabili innanzitutto nel «costo opportunità»
del nucleare relativamente ai prezzi e alle esternalità ambientali che si dovrebbero sopportare
ricorrendo ad altre fonti di energia; basti pensare che se nel 2006 si fosse impiegato petrolio o
metano per produrre la medesima quantità di energia elettrica ottenuta col nucleare, le emis-
sioni di gas serra sarebbero state superiori di oltre l’8% su scala mondiale, mentre la domanda
di petrolio e metano sarebbe stata 2-3 volte superiore rispetto alla loro capacità produttiva di-
sponibile, facendo così schizzare i prezzi ben oltre i livelli attuali. Infine, un altro vantaggio
connesso all’impiego della tecnologia nucleare nel raffronto con le fonti fossili riguarda il mag-
gior grado di prevedibilità dei suoi costi relativi per via dei ridottissimi margini entro cui posso-
no variare i costi reali dell’elettricità.
Tutte queste esternalità positive non sembrano però sufficienti a garantire al nucleare un futuro
in crescita. Attualmente, infatti, solo la Russia sembra intenzionata ad assumere un ruolo di
primo piano a livello mondiale, non solo negli idrocarburi ma anche nel nucleare, attraverso
una triplice direzione:
1. aumentando la produzione interna, al fine di ridurre l’impiego del gas metano da desti-
nare ai più remunerativi mercati esteri;
2. raggruppando in un unico organismo tutte le competenze in campo nucleare per fare
concorrenza ai tre maggiori gruppi mondiali (la francese Areva, l’americana General
Electric e la giapponese Toshiba Westinghouse); 11
3. divenendo punto di riferimento dei paesi in via di sviluppo, specie dell’area asiatica e
medio-orientale, per la costruzione di centrali nucleari.
Le ragioni dell’impasse
Del tutto opposta è invece la situazione del mondo occidentale, dove l’impasse dell’energia nu-
cleare è bene evidente in alcuni paesi (sinora) più nuclearizzati per due principali ragioni, ossia
per l’ostilità della più parte dei governi e delle opinioni pubbliche all’installazione di nuovi reat-
tori o all’esercizio di quelli esistenti, specie per quanto riguarda il loro grado di sicurezza, e per
il venir meno, con la liberalizzazione dei mercati elettrici, delle favorevoli condizioni che in
precedenza ne avevano consentito la crescita. Trattasi in primo luogo dell’ampio e generalizza-
to sostegno delle finanze pubbliche alle imprese elettriche per favorire investimenti non ripaga-
ti dal mercato; basti pensare che nel mondo non vi è centrale in esercizio che non abbia benefi-
ciato di aiuti di stato. La seconda condizione fu costituita invece dalla certezza della domanda
finale, consentita dagli assetti monopolistici dei mercati e dall’assetto verticalmente integrato
delle imprese elettriche (che includeva cioè produzione, distribuzione e vendita). Infine, la ter-
za condizione fu data dalle politiche tariffarie che garantivano alle imprese un pieno recupero
dei costi sostenuti e un’equa remunerazione degli ingenti capitali investiti.
L’incompatibilità tra mercato e nucleare
In sintesi quindi, le speranze su una ripresa del nucleare sono oggi scoraggiate soprattutto dagli
effetti deterrenti della liberalizzazione dei mercati elettrici, dove gli investimenti sono guidati
principalmente dalla ricerca del profitto piuttosto che da considerazioni extraeconomiche.
Nonostante, infatti, il nucleare sia da un lato l’unica fonte in grado di generare grandi quantità
di energia a zero emissioni di gas serra, a zero dipendenza estera e a costi/prezzi stabili,
dall’altro i suoi forti e insostenibili rischi economici (alti costi di capitale, rischi di domanda e
incertezza dei costi e tempi di costruzione) portano gli investitori privati (e i loro finanziatori) a
puntare su fonti alternative più convenienti, in primis il metano. Sintomatica al riguardo è
l’esperienza della Finlandia, dove la costruzione dell’unica nuova centrale europea si è potuta
realizzare grazie a un accordo di cooperazione concluso al di fuori di ogni contesto di mercato;
a farsi carico dell’investimento è stato infatti un consorzio di sei imprese elettriche e alcune im-
prese energivore (specie del settore forestale e cartario) che si sono impegnate a ritirare con un
contratto a 60 anni la produzione elettrica della centrale ai soli costi di produzione in quantità
proporzionale alla loro partecipazione al consorzio, consentendo così di annullare ogni incer-
tezza di domanda e rischio di mercato e di ridurre drasticamente i costi di finanziamento.
Tutto ciò a dimostrazione del fatto che il rilancio del nucleare è difficilmente perseguibile in un
contesto di mercato liberalizzato e concorrenziale, malgrado i notevoli affinamenti che la tec-
nologia nucleare è andata osservando in termini di sicurezza, affidabilità e rendimenti.
Le condizioni per un rilancio
In generale comunque, le possibilità per un rilancio del nucleare rimandano a tre questioni irri-
solte: in primo luogo bisognerebbe infatti definire soluzioni per lo smaltimento sostenibile delle
scorie radioattive nel lungo termine, anche attraverso un’intensificazione dell’impegno di ricer-
ca e sviluppo verso la quarta generazione di reattori; in secondo luogo si dovrebbe giungere alla
condivisione di un «codice di condotta» a livello internazionale, per impedire la proliferazione
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nucleare in ambito militare; e infine, bisognerebbe conciliare mercato e interessi generali attra-
verso politiche fiscali, riconoscimento di carbon credits e meccanismi incentivanti, che tengano
coerentemente conto delle esternalità positive dell’energia nucleare sulle emissioni di gas serra
e sulla sicurezza energetica. 13
Cap. 6 – IL CASO ITALIANO TRA VECCHI OPPORTUNISMI E
NUOVE ILLUSIONI
Tra i primi a entrare, i primi a uscire
L’esperienza nucleare si avviò in Italia circa mezzo secolo fa con la realizzazione di tre centrali a
diversa tecnologia: quella di Latina voluta da Enrico Mattei, quella di Garigliano promossa da
Felice Ippolito (segretario generale del Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare e membro
del Consiglio di Amministrazione dell’ENEL) e quella di Trino Vercellese voluta da Giorgio Va-
lerio (presidente di Edison). Già però nell’agosto del 1963 l’esplosione dell’«affaire Ippolito» de-
terminò una prima interruzione della breve avventura industriale che aveva visto il nostro paese
guadagnare una posizione di assoluta rilevanza mondiale (come terzo paese nucleare dopo Stati
Uniti e Gran Bretagna), pur ricorrendo ad altri per l’acquisizione delle tecnologie industriali;
quella sconcertante e discussa vicenda vide, infatti, l’uscita di scena dell’uomo che più si era
battuto per controbilanciare col nucleare i rischi della monocultura petrolifera.
Il successivo «rientro» del nostro paese si ebbe quindi solo dieci anni più tardi quando, nel pie-
no della prima crisi petrolifera, il Parlamento approvò (quasi) all’unanimità una legge che defi-
niva le procedure di localizzazione di nuove centrali nucleari che fossero in grado di soddisfare
oltre il 70% dei fabbisogni elettrici nazionali. Quel «rientro» fu tuttavia di breve durata, non
tanto per l’opposizione ambientalista (che subentrò infatti molto tempo dopo) quanto piuttosto
per l’estenuante «scontro politico» che scoppiò attorno alle modalità di realizzazione del Piano
nucleare tra (e all’interno dei) vari governi che si sono succeduti, tra partiti e loro correnti, tra
sindacati e sindacalisti, tra regioni e comuni, e tra lobby d’ogni sorta; a motivare tale scontro vi
furono peraltro sia ragioni nobili, come la scelta delle filiere tecnologiche, ma anche ragioni
molto meno nobili, in primis il durissimo scontro di interessi che da subito esplose all’interno
dell’industria italiana, tra la componente pubblica (facente capo a Finmeccanica) e quella priva-
ta (facente capo al raggruppamento FIAT, Breda, Tosi, Marelli), per la spartizione di quello che
fu indicato come l’«affare del secolo», stimato fino a 100 miliardi di euro. Quel nefasto e biuni-
voco intreccio tra industria e politica contribuì così alla morte del «nucleare all’italiana», anche
se a seppellirlo definitivamente concorsero i fatti post-Chernobyl; la produzione nucleare in Ita-
lia raggiunse infatti il suo massimo storico proprio nel 1986, per poi essere del tutto azzerata
due anni dopo.
In sintesi quindi, il nostro paese è stato uno tra i primi ad entrare nella tecnologia nucleare, sal-
vo poi uscirne per primo, oltretutto con raro tempismo giacché le truppe di Saddam Hussein
invasero il Kuwait esattamente una settimana dopo la decisione formale approvata dal Parla-
mento sempre (quasi) all’unanimità, mettendo così a nudo per l’ennesima volta l’estrema debo-
lezza e vulnerabilità del nostro sistema energetico.
Giusti timori e false argomentazioni
L’uscita dell’Italia dal nucleare fu infatti una decisione tutta politica, presa ancor prima del refe-
rendum del 1987, e precisamente cinque mesi avanti quando, in occasione delle elezioni antici-
pate, il partito socialista pose l’immediato blocco delle centrali nucleari in costruzione come
condizione di ogni successiva collaborazione governativa. Il responso referendario valse, in so-
stanza, solo a dare legittimazione popolare a una scelta politica già presa, oltretutto in maniera
ipocrita giacché da un lato proibiva la produzione di nucleare ma dall’altro ne ammetteva
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l’impiego tramite importazioni che, da allora, sarebbero più che raddoppiate spazzando così via
le false argomentazioni che furono sparse per affossare la nostra pur ridotta presenza nucleare
senza tuttavia prestare alcuna attenzione alle conseguenze che ne sarebbero derivate.
Del tutto inascoltate furono in particolare le conclusioni emerse, in modo sostanzialmente
unanime, alla «Conferenza nazionale dell’energia» che si tenne a Roma per valutare la compati-
bilità del Piano energetico da poco approvato con le esigenze di sicurezza emerse dalla dram-
matica esperienza di Chernobyl e con quelle economico-politiche poste dall’evoluzione della
situazione energetica internazionale e nazionale.
Le nefaste conseguenze
Alla fallita Conferenza di Roma seguirono infatti tre principali conseguenze. In primo luogo, si
diffuse l’errato convincimento che la domanda elettrica nazionale dovesse inevitabilmente ri-
dursi, salvo poi far leva sui rischi di un incombente deficit elettrico per elargire ad ENEL gene-
rosi sussidi dietro il paravento del sostegno alle fonti rinnovabili. In secondo luogo, si sostenne
il passaggio del nostro sistema energetico al «tutto metano», miracolosamente «assimilato» alle
fonti rinnovabili, salvo poi definire le azioni di ENI come odiose «pratiche monopolistiche». E
infine, ne conseguì la delegittimazione di ogni approccio, sapere e competenza in campo ener-
getico dell’intera industria pubblica, dei centri di ricerca e delle università per lasciare campo
libero alla politica-politicante unicamente preoccupata di incassare i dividendi elettorali tratti
dal rifiuto del nucleare a scapito dei costi reali che si sarebbero addossati al paese: e in partico-
lare, un’enorme quantità di denaro che si andava a gettar via per quanto già realizzato, un mag-
gior costo delle importazioni di petrolio, un maggior costo dell’elettricità e la distruzione di una
delle poche industrie tecnologicamente avanzate di cui disponevamo.
È possibile ora rientrare nel nucleare?
Peraltro, proprio mentre il processo di distruzione della presenza italiana nel nucleare poteva
dirsi irrimediabilmente compiuto, voci pronucleare cominciarono a risvegliarsi nella classe poli-
tica, nel mondo industriale, nella grande stampa e perfino negli antinuclearisti pentiti, a seguito
dell’incredibile blackout del 2003 che, nella «versione ufficiale» e sempre per opportunismo po-
litico, fu attribuito a due cause: una contingente, indicata in un guasto alle linee di importazio-
ne dell’energia elettrica dalla Svizzera, e l’altra strutturale, indicata nell’insufficiente capacità
produttiva delle nostre centrali elettriche per l’uscita dal nucleare, salvo poi scoprire che in real-
tà quella notte un quarto delle centrali erano letteralmente spente. Facendo infatti leva sul pro-
fondo sconcerto che quell’evento aveva sollevato nell’intera opinione pubblica, così come con
Chernobyl se ne era strumentalizzata la paura, si prese ad addebitare ogni male del nostro si-
stema energetico all’uscita dal nucleare, a iniziare dal caro-petrolio.
Allo stato delle cose comunque, l’opzione nucleare per il nostro paese non sembra né realistica
né conveniente sia per ragioni d’ordine economico, che se colpiscono i grandi paesi nuclearizza-
ti a maggior ragione vincolano chi ne è uscito, sia per ragioni d’ordine sociale, che paiono insu-
perabili in un paese incapace di realizzare un termovalorizzatore, una centralina eolica o un ri-
gassificatore. Ad ogni modo, essere realisti sul presente non significa escludere per un futuro
che il nostro paese possa riprendere la via del nucleare; ma affinché questa prospettiva si tradu-
ca in un’effettiva scelta energetico-industriale è necessario pervenire alla definizione di una
chiara, coerente e condivisa strategia di lungo periodo attraverso l’individuazione puntuale de-
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gli obiettivi che si intendono raggiungere, degli organismi pubblici e privati attraverso cui farlo,
delle risorse finanziarie che si intendono impegnare e dei tempi entro cui conseguirli. 16
Cap. 7 – POTENZIALITÀ E LIMITI DELLE RISORSE RINNOVABILI
Il mito delle risorse rinnovabili
Vi è una duplice costante nelle reazioni alle cicliche crisi energetiche: da un lato, il convinci-
mento che esse siano la più evidente manifestazione dell’esaurirsi delle risorse fossili, e in parti-
colare del petrolio; dall’altro lato, l’utopia che le risorse rinnovabili possano costituire la rassi-
curante risposta ad ogni sorta di esigenza perché largamente e facilmente «disponibili», ecolo-
gicamente virtuose ed economicamente «convenienti». È vero infatti che ogni anno la superfi-
cie terrestre riceve dal Sole dieci volte l’energia accumulata in tutte le risorse fossili e d’uranio
del mondo, ma è altrettanto vero che l’infinito potenziale delle risorse rinnovabili è oltremodo
enfatizzato. Analizzando ad esempio quelle tradizionali, rappresentate essenzialmente da ener-
gia idroelettrica di grandi derivazioni e da biomasse (legna da ardere, scarti d’ogni genere, le-
tame), è possibile osservare che nel corso del tempo la loro produzione e il loro consumo hanno
teso a concentrarsi nei paesi in via di sviluppo, quale effetto indesiderato della loro impossibili-
tà a disporre di altre fonti più accessibili ed economiche, causando così due devastanti effetti
ambientali: da un lato, il degrado, l’erosione e la desertificazione delle terre indotta dalla loro
deforestazione; dall’altro, le mutazioni climatiche per le minori possibilità di assorbimento
dell’anidride carbonica emessa in atmosfera (basti pensare che ogni anno il mondo perde aree
forestali per una dimensione equivalente alla superficie dell’intera Irlanda).
Passando ad analizzare invece le risorse rinnovabili cosiddette nuove (es. solare termico, foto-
voltaico, eolico, biogas, moti ondosi) è possibile osservare che, malgrado le innovazioni e gli af-
finamenti tecnologici associati al loro utilizzo, esse riescono a malapena a soddisfare il consumo
energetico mondiale di appena due giorni l’anno.
I vincoli allo sviluppo
Diversi sono i vincoli che, allo stato delle tecnologie e dello stock di capitale esistente, rendono
difficoltoso, costoso e incerto lo sviluppo delle nuove rinnovabili. Trattasi in primo luogo di
vincoli qualitativi che discendono sostanzialmente dall’incompatibilità della più parte delle
nuove risorse con gli assetti organizzativi, sociali e produttivi delle moderne società, le quali
richiedono infatti: alta concentrazione dell’offerta in uno spazio relativamente ristretto (quel che
invece non è consentito ad esempio dalla bassa intensità dell’energia solare); massima affidabili-
tà e controllabilità dell’energia, ovvero possibilità di disporne nel posto e momento opportuni
(quel che invece non è consentito ad esempio dalla discontinuità del vento, dei corsi fluviali e
delle radiazioni solari); e flessibilità d’uso, ossia possibilità di convertire il calore in altre forme
di energia (es. cinetica, meccanica). L’insieme di questi vincoli qualitativi penalizza quindi for-
temente le rinnovabili rispetto alle risorse convenzionali, finendo molto spesso per controbi-
lanciare i vantaggi che pur manifestano e rendendo così del tutto inappropriato il termine-
emblema di fonti energetiche «alternative» che in genere viene loro associato rispetto alle fonti
fossili.
In secondo luogo, lo sviluppo delle nuove rinnovabili è ostacolato da vincoli economici che di-
scendono innanzitutto dagli alti costi di investimento, i quali infatti consentono un’accettabile
redditività solo nel lunghissimo periodo; inoltre, se da un lato le risorse rinnovabili (o di flusso)
generano minori esternalità negative e quindi minori costi sociali rispetto alle fonti tradizionali
(o di stock), dall’altro esse soffrono di costi monetari di produzione relativamente molto mag-
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giori. Nel loro insieme quindi questi limiti economici finiscono per sottostimare l’onerosità re-
lativa delle rinnovabili.
Infine, lo sviluppo di queste nuove risorse è impedito da vincoli ambientali che discendono in-
nanzitutto dal progressivo aumento delle potenze e delle dimensioni degli impianti, in partico-
lare di quelli eolici, ma anche dalla produzione dei biocarburanti, i quali infatti richiedono
grande impiego di terre, acqua, fertilizzanti e pesticidi per massimizzarne le rese.
La risposta è nell’innovazione tecnologica
Evidenziare i limiti allo sviluppo delle fonti rinnovabili non significa però disconoscerne le po-
tenzialità, bensì individuarne le ragioni di criticità verso il cui superamento dovrebbero operare
le politiche pubbliche e soprattutto l’innovazione tecnologica, così da poterle effettivamente
classificare come «fonti di energia», ossia come risorse in grado di generare più energia di quan-
to ne occorra per produrle.
La via della ricerca e sviluppo e degli affinamenti tecnologici rappresenta pertanto la via mae-
stra per rendere tali risorse un’effettiva ed efficace risposta alle sfide energetiche ed ambientali,
tenendo però presente che la traiettoria delle innovazioni in campo energetico segue un percor-
so imprevedibile nei suoi modi e tempi, impedendo così una programmazione degli esiti che si
potrebbero conseguire, come dimostrano i faraonici Piani energetici americani degli anni Set-
tanta a cui seguirono solo immense dilapidazioni di denaro pubblico; inoltre occorre tener con-
to che le rigidità strutturali dei sistemi energetici non consentono, se non nel lunghissimo ter-
mine, di modificarne in modo drastico le dinamiche tendenziali sia dal lato della domanda che
dell’offerta, come dimostrano i lunghissimi tempi di penetrazione degli sviluppi tecnologici e
industriali dell’auto elettrica o della filiera a idrogeno.
In sintesi quindi, una transizione quantitativamente significativa dai combustibili fossili alle
nuove risorse rinnovabili non può che intravedersi in un’ottica ancora di lunghissimo periodo e
non senza il verificarsi di una serie di condizioni pregiudiziali, ossia un forte sviluppo delle tec-
nologie in grado di ridurne i costi monetari ed energetici, un forte aumento del rapporto co-
sti/prezzi dell’energia convenzionale e un non meno forte sostegno pubblico. 18
Cap. 8 – I NUOVI TERMINI DELLA «SICUREZZA ENERGETICA»
La sicurezza come bene pubblico
L’acuirsi delle tensioni politiche internazionali col moltiplicarsi delle minacce e delle azioni di
terrorismo, l’impressionante aumento della domanda di petrolio, la difficoltà dell’offerta a te-
nervi dietro e il conseguente balzo dei suoi prezzi reali sono solo alcune delle ragioni che hanno
riproposto all’attenzione delle opinioni pubbliche e dei governi del mondo la centralità della
sicurezza energetica sullo sviluppo delle economie e sulla piena sovranità dei loro stati.
L’orologio e lo spettro della storia sembrano infatti tornati ai tempi della Prima guerra mondia-
le, quando il Primo Lord Winston Churchill tenne alla Camera dei Comuni dell’Ammiragliato
inglese il famoso discorso con cui sostenne fortemente la criticità che la «questione petrolifera»
avrebbe assunto per la marina inglese e per la stessa sopravvivenza della nazione, determinando
così l’immediata entrata della Gran Bretagna nell’industria petrolifera, con l’acquisto un anno
dopo della maggioranza dell’Anglo-Persian Oil Company (l’attuale British Petroleum) che dete-
neva, in un’unica concessione della durata di 60 anni, ogni diritto di ricerca, estrazione ed
esportazione di petrolio nei quattro quinti dell’Iran. Con l’era del petrolio, in sostanza, l’energia
cessò di essere fatto essenzialmente economico per divenire motivo e arena di scontro politico
tra stati e imprese.
In Europa, infatti, le politiche pubbliche in campo energetico nacquero proprio da
quell’esperienza bellica e dagli scontri internazionali che ne seguirono per la spartizione delle
risorse mediorientali, tant’è che la sicurezza energetica venne da allora considerata come
un’esigenza di difesa nazionale, ossia come un bene pubblico di cui avrebbe beneficiato l’intera
collettività, seppur nell’impossibilità degli agenti economici di definirne il prezzo e di renderlo
disponibile in quantità adeguata. Da qui, la scelta di fondo che l’energia dovesse considerarsi
dominio assoluto e parte integrante delle «sovranità nazionali», tale da non potersi lasciare
all’arbitrio della sola iniziativa privata, dei meccanismi del mercato e di ogni ingerenza esterna.
Dall’essenzialità economica e dalla strategicità politica del petrolio si originò così una filosofia
dell’intervento pubblico che prevalse grossomodo in tutti i paesi industrializzati, seppur lungo
una parabola ascendente con apice all’indomani delle crisi degli anni Settanta, quando il suc-
cessivo ritorno a condizioni di abbondanza d’offerta, bassi prezzi e relativa pace internazionale
alimentarono una duplice illusione: da un lato, che le cause di quelle crisi fossero struttural-
mente cadute e, dall’altro, che le politiche energetiche avessero perso ogni loro ragione d’essere,
nel convincimento che mercato e concorrenza potessero soddisfare ogni sorta di interesse ge-
nerale (sicurezza inclusa).
La caduta delle illusioni
L’insieme di queste illusioni svanisce però col nuovo millennio per due ordini di ragioni: in
primo luogo ragioni politiche, per i tragici fatti dell’11 settembre 2001 e per le reazioni americane
che ne sono seguite prima in Afghanistan e poi lungo l’«Asse del Male» (Iraq, Iran, Corea del
Nord); in secondo luogo ragioni economiche, per la nuova crisi dei prezzi che ha infatti riporta-
to l’energia al centro delle preoccupazioni delle opinioni pubbliche, dei governi e delle banche
centrali, che peraltro si sono dimostrati egualmente impreparati a comprenderne le ragioni e a
individuarne i rimedi. Alla similarità delle cause tra vecchie e nuove crisi, si è quindi contrappo-
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