La paura o l’ostilità verso lo straniero si fondano su esperienze soggettive, ma sono poi amplificate
e condivise all’interno di comunità, rafforzando dinamiche collettive. L’etimologia stessa del
termine mette in luce una certa ambiguità: nell’Antica Grecia, lo xénos non era necessariamente
visto con ostilità. Era spesso l’abitante di un’altra polis, quindi potenzialmente un pari, e si
instauravano con lui rapporti di ospitalità e scambio. Diverso era invece il barbaros, colui che non
parlava greco e che, proprio per questo, era percepito come inferiore. In questo senso, già nelle
società antiche si osservava una distinzione tra lo straniero “diverso ma uguale” (xénos) e lo
straniero “diverso e inferiore” (barbaros). Il concetto di estraneo o straniero è dunque un
universale antropologico: tutte le culture, in tutte le epoche, hanno costruito l’idea di un altro da
sé. Diverso è il concetto di xenofobia, che è invece storicamente situato e culturalmente
costruito: nasce nel momento in cui la paura dell’alterità si trasforma in avversione, ostilità e
disprezzo.
Il termine xénophobie comparve per la prima volta all’inizio del Novecento, coniato dallo scrittore
francese Anatole France nel 1901, e fu registrato nel vocabolario francese nel 1906. In Italia il
termine fu introdotto da Giovanni Papini nel 1915 sulla rivista Lacerba, dove scrisse che “ci sono
momenti nella vita dei popoli in cui la xenofobia diventa necessità di governo”: un’affermazione
inquietante che rivela come la xenofobia possa essere strumentalizzata per rafforzare l’identità
nazionale e giustificare politiche autoritarie. Negli anni Venti e Trenta del Novecento, le ideologie
razziste contribuirono a istituzionalizzare la xenofobia, indirizzando il malcontento delle masse
verso stranieri ed ebrei. In ambito anglosassone, l’espressione xenophobic outburst (esplosione
xenofoba) fu utilizzata per descrivere l’aumento dell’antisemitismo in Germania. In tedesco,
tuttavia, si preferivano altri termini, come Überfremdung (eccesso di elementi stranieri, perdita
d’identità nazionale) e Fremdenfeindlichkeit (ostilità verso gli stranieri), che rimangono in uso
ancora oggi. La xenofobia si manifesta storicamente in parallelo con il consolidarsi di una visione
del mondo fondata su distinzioni nette tra razze, etnie, nazioni e culture. 23
Secondo la psicologia sociale, la xenofobia risponderebbe a un bisogno di coesione del gruppo:
definendo un nemico esterno, si rafforza il senso di appartenenza interna (ingroup vs outgroup).
Anche in assenza di reali conflitti, l’etnocentrismo può produrre codici di amicizia o di inimicizia,
sufficienti a generare discriminazione. Tuttavia, per le scienze sociali, la xenofobia non nasce solo
da meccanismi psicologici, ma da strutture e dinamiche storiche: è il prodotto di valori, norme e
condizioni socio-politiche specifiche. L’idea stessa di “straniero” è legata alla nascita dello
Stato-nazione, alla definizione arbitraria di confini e all’invenzione dell’identità nazionale. In
quest’ottica, la xenofobia si lega a sistemi simbolici e normativi che legittimano pratiche di
esclusione o inclusione. Un esempio significativo si è avuto negli anni Novanta del Novecento: la
globalizzazione, la competizione sul mercato del lavoro e la crisi dello Stato sociale hanno
prodotto una nuova ondata di xenofobia in molti paesi occidentali. Invece di criticare lo
smantellamento del welfare o le scelte politiche, il malcontento si è riversato contro gli stranieri. La
percezione è un altro elemento chiave: numerosi studi mostrano che le opinioni anti-immigrati si
basano più su paure percepite che su dati reali. In particolare, l’associazione tra immigrati poveri
e criminalità è spesso frutto di pregiudizi, alimentati da una narrazione mediatica distorta.
Emblematico è il modo in cui i media raccontano la violenza: se una donna viene stuprata da un
italiano, la notizia riguarda la vittima; se lo stupratore è straniero, l’enfasi si sposta sulla sua origine,
trasformando un caso individuale in una questione collettiva. Negli ultimi anni, i social media
hanno avuto un ruolo crescente nel rafforzare gli atteggiamenti xenofobi. Le piattaforme digitali
tendono a mostrarci contenuti in linea con ciò che già pensiamo – è il cosiddetto effetto echo
chamber – e ciò rende più difficile il confronto con opinioni diverse. Questo fenomeno è
aggravato dalla spirale del silenzio, secondo cui le persone con opinioni più moderate o razionali
preferiscono tacere, per non essere attaccate.
V come Vittima. Il concetto di vittima è molto complesso e articolato, come evidenziato nella
lettura critica di Daniele Giglioli intitolata “Critica della vittima”. Secondo Giglioli, la figura della
vittima è divenuta quasi un “eroe del nostro tempo”: essere vittima conferisce prestigio, impone
ascolto e riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto e autostima. La vittima
è infatti considerata immune da qualsiasi critica, perché l’idea dominante è che la vittima non
possa essere colpevole o responsabile di qualcosa. L’identità della vittima si costruisce sul fatto di
essere stata privata di qualcosa, di aver subito un torto, di poter perdere ancora qualcosa. Non
siamo ciò che facciamo, ma ciò che ci è stato fatto. Questa condizione di passività rende la
vittima una figura che incorpora insieme mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa,
desiderio di avere e desiderio di essere. Nei grandi conflitti attuali come quelli tra Russia e Ucraina
o tra Palestina e Israele, la questione “chi è la vittima?” torna costantemente, perché ciascuno
dei contendenti si identifica come vittima. In queste situazioni, stabilire in modo netto chi sia la
vera vittima è spesso impossibile e problematizzare questa identità fa emergere estremismi e
polarizzazioni. Il concetto di vittima si presta anche a riflessioni più ampie. Oggi, ad esempio, si
parla spesso di “dittatura delle minoranze”, in cui le maggioranze si percepiscono come vittime di
attacchi da parte di gruppi storicamente marginalizzati. Questo è un ribaltamento del punto di
vista: chi detiene il potere si appropria della retorica della vittima per legittimare la propria
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posizione. Essere vittima è comodo perché implica irresponsabilità: la vittima non deve giustificarsi
né rispondere di nulla, è esente da critica. Per chi detiene il potere, questo è il sogno, poiché così
può eludere il confronto e mantenere il controllo. Nel discorso vittimario si realizza
paradossalmente la promessa impossibile dell’individualismo proprietario, ossia il ridurre l’essere
umano a una “proprietà” intoccabile e indiscutibile. Proprio per questo la vittima diventa oggetto
di scontri e guerre, che spesso si manifestano come competizioni su chi è più vittima, chi lo è stato
prima o più a lungo. La vittima genera leadership e guida i conflitti. Un fenomeno collegato è
quello dell’alterizzazione: si tratta di definire l’altro come radicalmente diverso e altro da sé, in
modo da escluderlo e non riconoscerlo come parte della comunità.
La vittima ha un ruolo chiave anche nella politica e nel populismo. Il populismo si fonda su un
meccanismo di equivalenza fra richieste eterogenee di vari gruppi sociali, che si uniscono contro
un nemico comune percepito come responsabile dei loro problemi. Il “popolo” è un “significante
vuoto” che può essere riempito con i significati più diversi: chi è “il popolo”? Chi è “l’altro”? Il
legame che tiene insieme il “popolo” si basa su un legame emotivo, non solo razionale, che ha
bisogno di individuare un nemico o un oppressore di cui sentirsi vittima. Ad esempio: “gli uomini
per bene sono vittime delle donne”, “i bianchi sono vittime dei migranti”. Nel populismo non c’è
amore senza nemico e nessuno identifica un nemico senza sentirsi vittima reale o potenziale.
Questo dispositivo vittimario ha la forza della parola immediata, senza mediazioni, che si presenta
a sé stessa e non ammette verifiche esterne. La vittima diventa insindacabile, assoluta, al di sopra
di ogni critica, padrone dello sguardo e delle parole altrui. Questo atteggiamento è un
travestimento del cosiddetto “Discorso del Padrone” (Lacan), che impone il contesto e i termini
del confronto senza permetterne il cambiamento. In politica e movimenti populisti questo
atteggiamento prospera soprattutto nel web 2.0, che è al contempo uno spazio controllato e un
“paradiso” di soggettività incontrollate e irrelate.
L come legislazione. Il rapporto tra la norma giuridica, la libertà di parola e la tutela delle
persone, in particolare quando si tratta di contrastare i discorsi che incitano alla discriminazione e
all’odio, è un tema cruciale, sebbene non sempre semplice da comprendere per chi non è
esperto del settore. Proviamo a tracciare un quadro sintetico, ma chiaro, partendo dal contesto
storico. Dopo le terribili atrocità compiute in nome della “razza” e del razzismo durante il secondo
conflitto mondiale, le democrazie occidentali hanno deciso di dotarsi di strumenti giuridici volti a
garantire la tutela di tutti i cittadini, senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni
politiche o condizioni personali e sociali, come sancito dall’articolo 3 della Costituzione italiana.
Allo stesso tempo, però, la Costituzione garantisce la libertà di espressione (articolo 21), creando
così un quadro complesso di diritti e garanzie che è fondamentale per l’esercizio della vita
democratica. Curiosamente, sono stati soprattutto i governi non democratici a percepire il
linguaggio offensivo e l’incitamento all’odio come una minaccia primaria, poiché consideravano
essenziali l’unità nazionale e i sentimenti di coesione della collettività. Per esempio, nella
Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che rappresenta un documento
paradigmatico per tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite, l’articolo 19 sanciva il rispetto della
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libertà di opinione e di manifestazione del pensiero, senza tuttavia imporre l’obbligo di proibire o
punire quello che oggi chiamiamo hate speech, cioè i discorsi d’odio.
Durante i dibattiti precedenti alla sua approvazione, furono infatti l’Unione Sovietica e i suoi alleati
a chiedere una norma
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