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L’arte tradizionale, per Duchamp, è retinica (si riferisce all’occhio); l’arte in realtà deve
essere concettuale. Dunque elimina la bellezza e la manualità, elementi che per secoli
avevano guidato la produzione artistica.
Anche nella “fontana” c’è un ribaltamento concettuale (l’urinatoio smaltisce liquidi di scarto,
la fontana rilascia l’acqua che invece è vitale).
Ready-made rettificato: aggiunta, piccola modificazione fatta sul ready-made.
La scrittura, come in L.H.O.O.Q. o A bruit secret, che soltiamente è un elemento che aiuta a
chiarire, a spiegare, in Duchamp invece diventa enigmatica. Anzi, si ha la
defunzionalizzazione della scrittura stessa.
“Un rumore segreto” perché all’interno del gomitolo vi è un piccolo oggetto, la cui natura
però è sconosciuta a Duchamp stesso; infatti, all’opera aveva partecipato anche un secondo
autore, al quale Duchamp aveva chiesto di inserire un oggetto a suo piacimento all’interno →
motivo del dubbio, l’opera può essere scossa, ci si può chiedere cos’è che produce il rumore
senza sapere cosa sia.
021023
Il ready-made, così come anche il collage o l’assemblage, conferiscono un carattere effimero
alle opere (diversa è invece l’arte tradizionale, che fa concepire l’opera come unica ed eterna)
→ rifiuto dell’opera durevole in favore di una effimera (con la consapevolezza del problema
della durata, cioé che prima o poi l’opera si sarebbe rovinata col tempo). L’opera d’arte
contemporanea è dunque riproducibile, limitata, effimera, soggetta allo scorrere del tempo,
non è infinita; questioni della riproducibilità e della serialità → fondamenta della nuova
società.
Dada → surrealismo, movimento che si centra sull’inconscio, sull’aspetto psichico (non più
intellettuale), dimensione enigmatica ed onirica; viene percepito come un’evoluzione del
dadaismo. E’ qui che si colloca l’objet trouvé, che a differenza del ready-made, designa più
oggetti noti messi insieme, ognuno dei quali rimanda a dei significati particolari; i surrealisti
trovano nella realtà degli oggetti da accostare in maniera onirica nelle loro opere.
“Hommage à Lautrèamont” di Man Ray (1933), opera fotografica che accosta un ombrello e
una macchina da cucinare. E’ un’immagine enigmatica, poiché non vi è un nesso logico tra i
due oggetti, che tra l’altro sono posti su una superficie non chiara (è in realtà un tavolo di
dissezione) → omaggio al canto VI dai “canti di Maldoror” di Leutrèamont (quest’ultimo
ispira molto i surrealisti, perché era molto legato alla fantasia onirica, psichica, “oscura”).
Rapporto diretto con la realtà → fotografia (interessò molto i surrealisti) come estensione del
ready-made, dell’objet trouvé.
“L’enigma di Isidore Ducasse” di Man Ray (1921) → il titolo allude al vero nome di
Leutréamont; opera un po’ più ironica (al tempo infatti il surrealismo stava pr nascere, era un
periodo di transizione), che ha come fine sempre quello di far sorgere un dubbio, senza che a
questo vi sia risposta. Sono opere che incarnano l’enigma, il dubbio, la curiosità, privandoli
delle risposte.
“Déjeneur en fourrure” di Meret Oppenheim (1936), accostamento surreale di oggetti:
piattino, tazzina e cucchiaino ma fatti di pelliccia.
“Telefono aragosta” di Salvador Dalì (1938) → analogia formale (somiglianza di forme tra la
cornetta del telefono e l’aragosta, che tra l’altro per Dalì ha un’allegoria sessuale). Ancora
una vota è un’immagine surreale, enigmatica.
031023
Rayogrammi, schadografie, fotogrammi
Man Ray nella fotografia sperimenta anche a livello tecnico, inventando i rayogrammi (ray +
graph) realizzate senza l’ausilio della macchina fotografica → si ottengono immagini piatte,
astratte, quasi come in negativo. Si parla dunque di una “fotografia ottenuta per semplice
interposizione dell'oggetto fra la carta sensibile e la fonte luminosa” → contatto fra l’oggetto
e la carta fotografica, senza passare attraverso la macchina fotografica. Ciò rende gli oggetti
bidimensionali, dando un effetto di piattezza, sintetizzando lo spazio.
Schadografie (Christian Schad): è la stessa tecnica del rayogramma, ma utilizzando il collage
(cambia il materiale).
L’idea generale è quella di voler liberare le forme dalla geometria → astrattismo
Ci sono poi artisti che sfruttano anche delle contaminazioni (incontro tra fotografia e pittura)
→ Luigi Veronesi, “Composizione R”
Da qui, Veronesi tenta di realizzare dei fotogrammi a colori (1957, 1978), riuscendoci grazie
alla scelta di carte fotografiche a colori
Polimaterismo (unione di materiali quotidiani)
Spesso è legato al concetto della sinestesìa, ovvero la stimolazione di più sensi; fu inoltre
molto sfruttata dai futuristi: Filippo Tommaso Marinetti (o forse Benedetta Cappa),
“Sudan-Parigi” (1921), è una tavolta tattile, pertanto un’opera che non va vista, ma toccata
(stimolazione diretta, non più indotta, indiretta; da spettatore a fruitore)
091023
Gesto e materia
Negli anni 50, le ricerche focalizzate su gesto e materia, rendono autonoma l’espressività di
questi due ambiti, sempre optando per vie non tradizionali (es. si parla di una gestualità
d’impatto, fisica, non più sottoposta al controllo).
Tre furono gli artisti significativi di questo clima di ricerca:
- Jean Fautrier (1898-64);
- Jackson Pollock (12-56);
- Alberto Burri (15-95).
La tela, più in generale i supporti, non sono più superfici su cui costruire immagini, ma sono
spazi da interpretare attraverso la propria fisicità.
L’uscita dalla seconda guerra mondiale fa vivere un periodo di crisi, in cui ovviamente
l’uomo non ha più delle certezze, ma è disorientato → molti artisti capiscono che bisogna
ricominciare da zero (in concomitanza con la nascita dell’esistenziliasmo, che rivaluta
l’espereizna fisica come unica via di comprensione dell’es, dell’uomo, la cui esistenza non ha
alcun significato se non attraverso se stesso e le sue azioni). Ciò in arte fa sì che il gesto
pittorico si riduca a qualcosa di elementare, che conservi l’inerzia dell’energia fisica, del
braccio che l’ha tracciato (Pollock) oppure si cerca di esaltare i valori e i processi primari
della realtà (Burri).
Jackson Pollock e il dripping (gocciolamento)
Egli ha impostato il suo lavoro artistico in maniera che avessera degli sviluppi in futuro.
“Autumn Rhytm Number 30” (1950), opera enorme, alta due e metri e mezzo e lunga 5; il
titolo ha un riferimento stagionale molto chiaro, il “ritmo d’autunno” che porta Pollock ad
avere un rapporto più sincero, empatico con la natura. L’opera non ha costruzione
geometrica, non vi è un vero e proprio soggetto, infatti la natura è trasfigurata, evocata
attraverso il titolo ed i colori, non rappresentata esplicitamente; è inoltre realizzata a
pavimento e non ha un centro d’attenzione privilegiato, non c’è distinzione tra figura e
sfondo → l’artista stesso è il vero soggetto del quadro, giacché la tela è il residuo di
un’azione fisica. C’è un contrasto di forze, di bianchi e neri, che dà l’idea della conflittualità
(concetto generale però, non specifico), genera tensione, è uno spazio caotico, più di quello
dei dadaisti, giacché l’immagine è ridotta al minimo.
“The moon woman cuts the cicle” (1942) e “Composition with pouring II” (1943): non sono
ancora dei dripping perché il gesto è ancora abbastanza controllato; qui Pollock riprende
molto dai surrealisti, giacché essi lavorano molto sulle forme organiche (→ Masson ed
Ernst), sul mondo dell’inconscio.
“La caccia” di Masson (1927) e “Pianeta affollato” (1942) di Ernst, opere molto importanti
per Pollock: la prima, realizzata con la sabbia, dà un’idea di nucleo che accoglie del materiale
esterno (la sabbia); dalla seconda Pollock avrebbe poi sviluppato la tecnica del dripping.
Importante fu anche l’automatismo psichico per Pollock, poiché a furia di lavorare su
quest’idea di trascrivere senza controllo, per far emergere la forza dell’inconscio, si arriva al
segno del dripping.
Il passaggio dall’automatismo al dripping comporta anche una differenza di significati e di
valenza nelle pratiche → se prima i surrealisti cercavano di tirar fuori l’inconscio attraverso
la trascizione fuori controllo, Pollock fa il contrario, poiché il dripping è il massimo della
fisicità; non c’è l’idea della trascrizione inconscia, ma la tela è la superficie su cui lasciare il
segno della propria presenza.
Hans Namtuh documentò spesso il lavoro di Pollock, sia con dei documentari che con delle
foto.
In “La mia pittura” (1947) Pollock scrive che la sua pittura non nasce sul cavaletto, ma
preferisce fissare la tela sul muro o meglio ancora sul pavimento, perché così può entrare nel
quadro, può “camminarci intorno”, “essere letteralmente nel quadro”, tutto pur di lasciare una
traccia nel dipinto.
In un altro estratto, Pollock scrive che la sua pittura si allontana sempre più dagli strumenti
tradizionali del pittore, come il cavalletto o la tavolozza, ma preferisce usare la stecca, la
spatola, il coltello, la pittura fluida, addirittura anche un impasto grasso di sabbia, vetro
polverizzato e altri materiali extra-pittorici.
“Blue Poles” (1952), Pollock crea una sorta di ritmo visivo fissando dei “paletti blu” perché
l’immagine gli sembrava troppo sbilanciata → equilibrio visivo.
In “Full fathom five” (47) ci sono addirittura dei mozziconi di sigarette gettate da Pollock nel
quadro.
Georges Mathieu, esponente del tachisme (macchie, ma grosso modo il fenomeno è lo stesso,
cioé la ricerca del gesto) e della pittura “informale” (del gesto).
“Hommage au maréchal de Turenne” (1952) con Pollock le affinità sono le grandi dimensioni
della tela, l’idea di traccia anche se è un po’ più controllata, assomiglia a una scrittura
orientale (es. ideogrammi giapponesi). In Pollock si parla di energia resa visibile, quasi c