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CAPITOLO 7 - DILIGENZA, OBBEDIENZA, FEDELTÀ, LUOGO E DURATA DEL LAVORO

Il luogo di esecuzione della prestazione è di norma la sede dell’azienda; l’azienda può

essere strutturata in più sedi o stabilimenti, o più organizzazioni produttive che il legislatore

definisce “unità produttive”, infatti all’art. 35 dello statuto (che stabilisce il campo di

applicazione delle norme sindacali) si dice che si applicano le norme del Titolo III (norme

sull’attività sindacale) “a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che

occupa più di 15 dipendenti” definite come unità produttive. Generalmente al momento

dell’assunzione si viene assegnati ad una sede, ma nel caso in cui vi siano più sedi o

stabilimenti in base all’art. 2103 il datore di lavoro può mutare il luogo della prestazione, ma

il legislatore subordina ciò ad una condizione: purché sussistano delle comprovate

(oggettive, documentate) esigenze tecniche, organizzative e produttive che giustificano

questo trasferimento. Il lavoratore non può opporsi se le ragioni sussistono, ma spesso può

innestarsi una disciplina contrattuale, cioè il contratto collettivo può porre condizioni o limiti

per tutelare i lavoratori con carichi familiari o particolare anzianità, ma questa è una

disciplina aggiuntiva. Unica limitazione al trasferimento in base all’art. 22 dello statuto

riguarda i dirigenti della R.S.a. i quali prima di dare la disposizione al trasferimento devono

chiedere un nulla-osta al sindacato, che può essere negato anche senza motivazione poiché

si vuole evitare che questi perdano il contatto con la base di lavoratori che li hanno votati.

Riguardo l’orario di lavoro, il legislatore ha sempre cercato di porre un limite quantitativo

alla durata della giornata e settimana lavorativa per varie ragioni:

- per delimitare quantitativamente il limite di esigibilità della prestazione da parte del

datore di lavoro;

- per tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore fissando un limite alla quantità di

lavoro e stabilendo i periodi di riposo (con funzione di reintegro delle energie);

- per stabilire la retribuzione, che prevalentemente è stabilita in base al tempo (anche

se poi ci sono altri indici di retribuzione quali il raggiungimento di certi obiettivi, c.d.

lavoro a cottimo).

Questi limiti furono fissati nel regio-decreto del 1923, inalterato fino al 1997 con il c.d.

pacchetto TREU, che stabiliva come limite massimo legale di orario lavorativo giornaliero 8h

e settimanale 48h, con la possibilità di aggiungere delle ore straordinarie, con una

maggiorazione del 10% della retribuzione. Ma la contrattazione collettiva ha introdotto delle

discipline più favorevoli prevedendo un abbassamento dell’orario di lavoro massimo, fissato

in media in 40 ore settimanali.

Negli anni ’90 dopo la riforma francese, si creò un acceso dibattito e c’era chi propugnava un

abbassamento del limite massimo legale settimanale a 35 ore con l’idea (lavorare meno,

lavorare tutti) che questo abbassamento avrebbe aumentato l’occupazione (senza

considerare che spesso invece di assumere, gli imprenditori cercano soluzioni alternative).

Questo dibattito portò all’emanazione della legge 196/1997 che abbassa il limite settimanale

da 48 a 40 ore, con possibilità di lavoro straordinario e istituisce un meccanismo di

flessibilità, consentendo la MULTIPERIODALITA’. Il legislatore consente ai contratti collettivi

(che devono stabilire le modalità) di considerare le 40 ore settimanali come media.

Questo sistema fu ripreso dal decreto legislativo 66/2003 che recepisce questi cambiamenti

e da attuazione a direttive comunitarie in materia di orario di lavoro prevedendo:

- la determinazione dell’orario normale di lavoro (40 ore);

- viene fissato un orario massimo di lavoro settimanale (48 ore), le 8 ore in più sono

straordinari e il maggior compenso sarà stabilito non più dalla legge, ma dai contratti

collettivi;

La norma rimane silente silenzio sull’orario giornaliero di lavoro, creando dei problemi di

costituzionalità, in quanto l’art. 36 della Cost. al 2 comma prevede che “la durata massima

della giornata lavorativa è stabilita dalla legge”, ma la dottrina ha risposto che ci si può

arrivare in via interpretativa, poiché nelle direttive comunitarie recepite è previsto che tra una

prestazione e un’altra devono passare come minimo 11 ore di riposo: pertanto il limite

massimo è di 13 ore giornaliere (24 ore del giorno – 11 = 13 ore).

Orario di lavoro significa anche delimitazione dell’impegno e previsione degli spazi di riposo:

- 11 ore tra una prestazione e l’altra;

- 1 giorno a settimana (che può anche non coincidere con la domenica);

- almeno 4 settimane all’anno (almeno 2 consecutive a richiesta, le altre distribuite

durante l’anno, sempre compatibilmente con le esigenze aziendali).

Il diritto alle ferie è diritto irrinunciabile come stabilito dalla Costituzione al 3° comma dell’art.

36. In caso di malattia durante le ferie, prima si riteneva che si avesse sempre diritto alla

ripetizione delle ferie (retribuite), poiché impediva di godersi l’integrazione delle energie

psicofisiche del lavoratore, ma è intervenuta la giurisprudenza dicendo che se la malattia

non da possibilità di recupero, si ha diritto alla ripetizione delle ferie, altrimenti ciò non è

possibile.

Riguardo lo svolgimento della prestazione si fa riferimento agli artt. 2104 e 2105 che

stabiliscono gli obblighi del prestatore per quanto attiene alle modalità di adempimento della

prestazione. Il compito deve essere conforme alle direttive del datore di lavoro e deve

essere inquadrato nel complesso organizzativo aziendale.

Il 2104 può essere diviso in 2 parti. Il primo comma stabilisce che “il prestatore di lavoro

deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse

dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale”, è sancito il dovere di

diligenza del prestatore e si individuano dei parametri di riferimento:

- natura della prestazione dovuta, in base al tipo, alla responsabilità e alla specifica

professionalità richiesta dal tipo di prestazione, dedotto in contratto;

- l’interesse dell’impresa, inteso oggi come l’interesse dell’imprenditore;

- l’interesse superiore della produzione nazionale (non applicabile poiché fa riferimento

al sistema corporativo oggi abrogato).

Il 2° comma stabilisce il dovere di obbedienza cioè stabilisce che il prestatore “deve

osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite

dall’imprenditore (potere direttivo) e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente

dipende”.

L’art. 2105 stabilisce invece l’obbligo di fedeltà che non consiste nell’aderire alle scelte

dell’imprenditore, ma consiste invece nel non fare:

- trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore;

- divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa

che è tutelato anche da norme penali a tutela del segreto aziendale;

- farne (delle notizie) uso in modo da recare ad essa (impresa) pregiudizio, oltre a non

divulgare non deve neppure applicarle creando un danno all’impresa.

Il più importante è il primo che in sostanza è un divieto di concorrenza (non la concorrenza

sleale prevista in tema di rapporti commerciali) da ricollegare all’art. 2125 del c.c., divieto ex

lege alla costituzione del rapporto di lavoro e che dura fino alla sua cessazione. Può essere

prorogato anche dopo la cessazione (a interesse e tutela dell’imprenditore affinché questo

lavoratore non gli sottragga clientela), ma per farlo è necessario un esplicito patto di non

concorrenza ma poiché questo limita le possibilità di lavoro dopo la cessazione del rapporto

il legislatore pone delle cautele:

- forma scritta ad substantiam;

- è limitato nel tempo (max. 3 anni, aumentato a 5 solo per i dirigenti);

- è stabilito un compenso (per il fatto che è limitata la possibilità di lavoro che è fonte di

sostentamento);

- delimitazione quantitativa (cioè devono essere specificate le attività vietate) e

territoriale (dove non posso svolgere quella prestazione).

Questo vincolo convenzionale nasce dalla “libera” volontà del lavoratore, ma poiché non può

essere stipulato dopo la cessazione del rapporto, in genere, nel contratto di assunzione si

prevede una clausola di non concorrenza che nella maggior parte dei casi viene accettata

dal lavoratore (pertanto viene quasi imposto di accettarla per avere il lavoro, perciò “libera”

volontà è virgolettata).

CAPITOLO 8 - I POTERI DEL DATORE DI LAVORO

L’ordinamento riconosce al datore di lavoro una serie di poteri tali da poter coordinare

l’adempimento con tutti gli altri fattori, per destinarli all’organizzazione dell’azienda. Parlando

dell’obbedienza del lavoratore, il datore ha il potere di impartire direttive in ordine

all’esecuzione di queste prestazioni. Per poteri datoriali intendiamo quei poteri peculiari di

rapporti tra privati che forniscono uno strumento più forte al datore; ovviamente si tratta di

poteri che incontrano dei limiti di carattere generale.

Il primo limite che incontra il potere del datore di lavoro è la funzionalizzazione di questi

poteri alla migliore organizzazione dell’attività aziendale nel suo complesso: ovvero, il potere

di dare disposizioni o ordini è legittimamente esercitato, in quanto sia funzionale

all’organizzazione e al coordinamento dell’attività lavorativa. Quindi c’è un limite intrinseco a

tutti i poteri datoriali, ogni potere però incontra degli specifici limiti di esercizio, limiti che sono

procedimentali, per esempio dei limiti posti nell’esigenza di tutelare la sfera del lavoratore

rispetto a certe esigenze del datore (esempio: non posso disporre mutamenti peggiorativi

delle mansioni), perché l’ordinamento vuole tutelare la sfera del lavoratore.

Il secondo limite all’esercizio è quello del divieto di discriminazione, che è un divieto che

limita qualunque atto datoriale. L’art. 15 Stat. Lav. è norma cardine, la norma di riferimento,

essa proibisce ogni atto per motivi di sesso, razza, lingua e oggi anche di età, di handicap e

orientamento sessuale; norma fondamentale in materia di discriminazione anche perché

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A.A. 2023-2024
35 pagine
SSD Scienze giuridiche IUS/07 Diritto del lavoro

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher vincenzo.tortora.7 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Diritto del lavoro e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi della Campania "Luigi Vanvitelli" o del prof Russo Aniello.