II PARTE
Avendo considerato la risposta dell’ordinamento italiano a situazioni di crisi (più o meno gravi) in capo al
debitore, possiamo considerare altri rimedi preposti dall’ordinamento che si rifanno principalmente alla
natura del debitore stesso.
Il fallimento è la risposta giuridica di rimedio ad una particolare crisi patrimoniale, ovvero a quella
dell’imprenditore non piccolo.
Fino al primo decennio del 2000 la crisi del debitore era governata dal diritto fallimentare (regio decreto 1942
n.267) che prevedeva il fallimento o procedure analoghe incentrate sulla stessa ratio (es. liquidazione coatta
amministrativa, concordato preventivo) per imprenditori non piccoli.
Se, invece, la crisi non investiva questa particolare categoria la disciplina da applicare era quella
dell’art.2740 e seguenti (es. consumatore, casalinga).
Durante il primo decennio del 2000 si assiste ad una doppia traiettoria di cambiamenti:
1. Interno alla legge fallimentare, cioè si inseriscono e potenziano nuovi strumenti in alternativa al
fallimento. Questa decisone deriva dalla prospettiva che il fallimento possa non essere la risposta
migliore a fronte di una crisi del debitore (prospettiva che si è fatta sempre più strada). Strumento di
questo tipo sono i piani di risanamento (67 LF) e gli accordi di ristrutturazione dei debiti (182-bis LF)
che agevolano l’uso del concordato preventivo già esistente.
2. Introduzione di strumenti di risposta alla crisi anche di soggetti diversi dall’imprenditore fallibile,
come il consumatore e l’impresa non piccola. Ovviamente, questi strumenti sono più snelli ed
economici rispetto a quelli per l’imprenditore fallibile ma anche meno potenti, cioè con minori benefici
per le parti in causa.
Questa nuova prospettiva fa sì che non si possa più parlare di diritto fallimentare, ma di diritto della crisi
impregiudicato il tipo di debitore e il tipo di strumento di rimedio adottato.
In ragione delle diversità che caratterizzano i debitori ora posti sotto questa disciplina, l’ordinamento ha
attuato il principio di coerenza delle leggi. Quindi per garantire il rispetto dell’uguaglianza sostanziale (art. 3
Costituzione), si sono dovute attuare diversificazioni nelle normative che garantissero il raggiungimento
dell’obiettivo ultimo di queste.
Sentenza Corte costituzionale. Il principio di eguaglianza comporta che a una categoria di persone,
è definita secondo caratteristiche identiche o ragionevolmente omogenee in relazione al fine obiettivo cui è
indirizzata la disciplina normativa considerata, deve essere imputato un trattamento giuridico identico od
omogeneo, ragionevolmente commisurato alle caratteristiche essenziali in ragione delle quali è stata
definita quella determinata categoria di persone.
Al contrario, ove i soggetti considerati da una certa norma, diretta a disciplinare una determinata
fattispecie, diano luogo a una classe di persone dotate di caratteristiche non omogenee rispetto al fine
obiettivo perseguito con il trattamento giuridico ad essi riservato, quest'ultimo sarà conforme al principio
di eguaglianza soltanto nel caso che risulti ragionevolmente differenziato in relazione alle distinte
caratteristiche proprie delle sottocategorie di persone che quella classe compongono.
Tale progetto di cambiamento legislativo è confluito all’interno di un unico riordino di normativa, il Codice
della crisi d’impresa e dell’insolvenza con decreto legislativo n.14 del 2019. L’entrata in vigore di questa
normativa è stata ritardata a causa dell’esplosione della pandemia e vari sono state le misure emergenziali
poste in essere al fine di ridurre l’ondata di fallimenti che si sarebbero verificati (es. non si possono
presentare istanze di fallimento prima del 30/06/2020). Con il decreto-legge n.118/2021 (convertito in forza
di legge il 24/10/2021) ha scandito il diritto transitorio verso l’entrata in vigore di questa nova disciplina, in
particolare ha potenziato l’utilizzo degli accordi di ristrutturazione del debito, e ha introdotto anche un nuovo
strumento, ovvero la composizione negoziata della crisi.
In questo nuovo codice si può notare come, a differenza della legge fallimentare, i primi strumenti che si
trovano sono quelli alternativi al fallimento e che il fallimento viene ora definito “liquidazione giudiziale” (per
dare una connotazione alla soluzione in questione, visto che a tutti gli effetti lo è per il debitore).
Dunque, questa transizione verso una nuova disciplina si fonda sul dogma che il fallimento non sia lo
strumento di risoluzione migliore, anzi, strumenti alternativi siano da considerarsi migliori.
Come da ricordare, però, anche in questo nuovo codice il fallimento non assume un significato negativo ed
anzi è l’unico strumento coercibile da parte di terzi, cioè è l’unico strumento attivabile senza o contro la
volontà del debitore (art.6 LF).
Un dubbio ancora da sciogliere, in effetti, è se questi strumenti alternativi siano effettivamente migliori per il
debitore e i creditori rispetto al fallimento. Infatti, nel primo caso l’impresa rimane nelle mani
dell’imprenditore, mentre con l’aperura della procedura di fallimento viene affidata ad un terzo soggetto a
prescindere dalle ragioni della crisi. Infatti, le alternative possibili nel caso di crisi sono la distruzione
(liquidazione dell’azienda) oppure il suo risanamento.
Dunque, gli strumenti alternativi permettono all’imprenditore la continuazione della gestione dell’impresa a
prescindere dalle ragioni del dissesto, mentre il fallimento ha come unica prospettiva la liquidazione
dell’attivo aziendale con eventuale alienazione del complesso produttivo (quindi comunque l’imprenditore
non ne rimane a capo).
Il fallimento, inoltre, può essere richiesto sia dai creditori (quando non è possibile concordato) anche contro
la volontà dell’imprenditore debitore. A questi però si sostituisce il Tribunale nel caso venga mandata avanti
un’impresa con a capo un imprenditore incapace. È anche attivabile una forma di fallimento non meramente
liquidatorio ma conservativo contro la volontà dei creditori (à fallimento conservativo) da parte del debitore,
ma quest’ultimo può chiedere anche l’apertura della procedura di fallimento.
Il fallimento serve a liquidare il più possibile, cioè al miglior valore possibile nel più breve tempo possibile in
modo da soddisfare i più possibile i creditori in parti uguali in modo che ciascuno sopporti la perdita che
deriva dal fallimento stesso. La struttura di quest’istituzione riguarda la distruzione e liquidazione
dell’azienda, oltre che la cessazione dell’attività d’impresa in capo al debitore, realizzata da un terzo che è il
curatore. Questo, essendo un pubblico ufficiale, deve redigere un programma di liquidazione di un tempo
breve che permetta di massimizzare il bilanciamento tra la miglior liquidazione possibile e l’esigenza di
pagare i creditori.
Il fallimento viene dichiarato con sentenza dichiarativa del tribunale, gestito dal curatore con liquidazione e
ripartizione del ricavato (secondo la par condicio creditorum, certificata dal programma redatto e garantita
dal controllo del tribunale che lo definisce esecutivo).
Lasciare, invece, all’iniziativa privata vuol dire distruggere risorse, in quanto non tutti parteciperanno alla
liquidazione, e che le singole esecuzioni forzate non massimizzeranno fisiologicamente il risultato
dell’operazione, non rispettando la parità di trattamento. Inoltre, la distruzione di risorse si applica anche nel
determinare il fallimento di altre imprese, che non saranno in grado di recuperare i crediti.
La liquidazione fallimentare realizza una liquidazione concorsuale per massimizzare la realizzazione
dell’attivo, per assicurare la parità di trattamento tra i creditori, distribuire in condizioni uguali le perdite e i
danni che derivano dal fallimento. Il fallimento, oltre che essere una procedura concorsuale, è anche
giudiziale, in quanto si apre e si chiude con la sentenza di un giudice che sorveglia tutto il processo.
ART.1 LF (121 c.c.): Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli
imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici.
Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo
comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
1. aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio
dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non
superiore ad euro trecentomila;
2. aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza
di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo
annuo non superiore ad euro duecentomila;
3. avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.
ART.15 LF: Non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l'ammontare dei debiti scaduti e non pagati
risultanti dagli atti dell'istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila.
Questi sono i presupposti soggettivi del fallimento.
Dunque, non sono soggetti alla procedura di fallimento gli imprenditori agricoli e piccoli, cioè quelli che non
superano queste soglie (3+1). Inoltre, il motivo per cui l’imprenditore agricolo non è sottoposto a questa
disciplina fa riferimento al rischio di natura a cui è esposto: essendo più rischioso, con un attivo e ricavi
relativamente bassi ed essendo la procedura costosa, non conviene allo Stato sottoporre questi imprenditori
a procedure di questo tipo. Inoltre, considerata l’attività svolta meritevole proprio per i rischi che corre, si
considera che l’imprenditore agricolo e piccolo non siano fallibili.
ART.5 LF: L'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza è dichiarato fallito.
Lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che
il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.
Questo è il presupposto/condizione oggettiva del fallimento.
Si deve trattare di inadempimenti reiterati e riferiti a una pluralità di obbligazioni: un singolo inadempimento
non sarebbe significativo, perché potrebbe essere prodotto da una ragione diversa dall’insolvenza; tuttavia,
in giurisprudenza si è giunti a sostenere che anche un singolo episodio potrebbe rivelare lo stato di dissesto
del patrimonio dell'imprenditore. Dunque, il patrimonio del debitore deve essere in uno stato
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