Coppo firma nel 1261 quest’opera, che si trova nella chiesa dei Servi a Siena. L’iscrizione dice: “Nel 1261 d.C. Coppo di
Firenze mi dipinse”. Alla metà del XIII secolo le opere cominciano a essere “firmate” in maniera molto semplice, asettica.
Vediamo che cosa accade quando si firma Giotto. Giotto è protagonista di una rivoluzione figurativa, perché impone un
nuovo paradigma alla pittura, ma promuove anche un diverso modo di valutare il lavoro dell’artista. All’altezza di Giotto si
verifica un cambiamento nello statuto dell’artista che stiamo vivendo ancora oggi. Le opere firmate di Giotto sono solo 3.
Le tre opere sono state più volte messe in dubbio riguardo all’autografia di Giotto. Sembrava che proprio le opere più incerte
fossero quelle firmate. Negli ultimi 30 anni questa tesi è stata smontata.
La prima opera firmata è la tavola delle Stimmate di S. Francesco, oggi al Louvre ma proveniente da Pisa. Siamo alla
fine del XIII secolo. Al centro c’è la scena delle stimmate; nella parte inferiore ci sono il Sogno di Innocenzo III, la Conferma
della regola, la Predica agli uccelli. La firma è in alto: “Opus Iocti fiorentini”.
La seconda si trova a Bologna ed è la tavola proveniente dalla chiesa di S. Maria degli Angeli, voluta da Bertrando del
Poggetto in anni che vanno dal 1327 al 1334. È un’opera che alla fine degli anni 2000 è stata oggetto di restauro, il quale ha
tolto ogni dubbio circa l’appartenenza al Giotto. La firma corre sulla cornice ed è “Opus Iocti de Florentia”.
La terza firma si trova nella cappella Baroncelli in S. Croce e risale all’ultimo soggetto di Giotto a Firenze, negli anni ’30 del
XIV secolo. La tavola aveva un assetto gotico, tranciato dalla cornice rinascimentale che ha “pareggiato” lo slancio di questi
campi che ospitano immagini relative all’Incoronazione della Vergine. La firma è contenuta in medaglioni che
conteggiano la cornice delle tavole centrali. È un’iscrizione divisa a gruppi di due lettere: “Opus magistri Iocti”.
L’idea di scomporre un’iscrizione così semplice la troviamo nella tavola con San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello
Roberto. La tavola fu commissionata in occasione della canonizzazione del fratello del re Roberto d’Angiò nel 1317. L’autore
è Simone Martini. È una legittimazione del ruolo di sovrano di Roberto d’Angiò. Contiene nella predella un breve ciclo
agiografico (storie della vita del santo e un miracolo post-mortem). La firma è in una serie di clipei contenuti negli spazi dei
pennacchi degli archi della predella: “Simon de Senis me pinsit” (Simone di Siena mi ha dipinto).
In due casi Giotto sottolinea la sua fiorentinità nelle due opere che spedisce fuori Firenze, mentre a Firenze si firma
“maestro”. È una firma molto essenziale ma al contempo ambiziosa, perché trae origine da Opus Fidiae e Opus Praxitelis.
Opus + genitivo è una formula associata a due opere che sono l’epitome della classicità agli occhi di un uomo medievale. Ci
dobbiamo chiedere: siamo sicuri che la fonte sia veramente quella? La studiosa (Maria Monica Donato), che ha
interpretato la firma di Giotto come ripresa di un’iscrizione universalmente conosciuta presso chi andava a Roma, ha trovato
dei riferimenti in dei dettagli nell’opera figurativa di Giotto. Essi attestano la conoscenza dei Dioscuri del Quirinale. La
Donato ha trovato due esempi di cavalli imbizzarriti. Essi sono ripresi sia ad Assisi che a Padova in due versioni: la Visione
del carro di fuoco e la Visione di Elia sul carro di fuoco. Ma c’è un dettaglio ancora più significativo nella Cappella degli
Scrovegni nella scena dell’Adorazione dei Magi, in cui i cavalli si imbizzarriscono come a percepire la divinità del Bambino.
Vediamo quindi dei palafrenieri che cercano di trattenere questi cavalli improvvisamente resi irrequieti.
È una firma competitiva perché è come se si firmasse come Fidia e Prassitele, si firma legittimamente come un antico.
Mai prima un artista si era dichiarato paragonabile ad un antico. C’è la consapevolezza di un nuovo statuto dell’artista, un
artista che non ha paura di dichiararsi pari ai modelli inarrivabili forniti dagli antichi.
Quando abbiamo detto che Petrarca è il primo a scoprire il vero significato di opus Fidiae e opus Praxitelis abbiamo
sbagliato? In un certo senso sì. L’artista dà prima il giusto significato a quell’iscrizione, mentre la letteratura, con Petrarca,
accetta ancora l’interpretazione fantasiosa in chiave cristiana che abbiamo trovato nei Mirabilia urbis Romae.
Gli allievi di Giotto stanno attenti ad usare la firma di Giotto (opus+genitivo). È interessante che uno scultore fa un tributo
al maestro. Giovanni Pisano, nella fontana maggiore di Perugia, si firma due volte con due figure. La formula della firma
giottesca è ripresa da Ghiberti nella formella del concorso del 1401. “Opus laurenti florentini” infrange la regola del
rivendicare la provenienza dell’artista nella firma di opere destinate a luoghi pubblici; però Ghiberti firma così proprio
perché ammira Giotto. In Abruzzo, nella croce di Guardiagrele, Nicola si firma con la formula giottesca (Nicola è stato a
bottega da Ghiberti). Gli autoritratti Giovanni Pisano
Altra categoria di firme sono gli autoritratti. Uno dei primi è quello di nel pulpito del duomo di
Pisa. Nel gruppo centrale del pulpito, accanto a figure di profeti, si trova una figura inferiore e schiacciata da un angelo; si
distingue dalle altre sia per le dimensioni che per l’abbigliamento, il quale riprende quello del 1310 (veste allacciata davanti,
turbante che ricade sull’occhio sinistro che indossavano gli artigiani per riparare il capo). Senza il conforto dei documenti
si è generalmente assunto che questa figura sia l’autoritratto di Giovanni Pisano, che è la versione in immagine
dell’autobiografia che Pisano stesso lascia nell’iscrizione del pulpito. Ci sono però due elementi di novità: un titulus in cui
si raccontano le vicende e le avversità che Pisano ha incontrato per realizzare il pulpito; un autoritratto che sottolinea la sua
paternità dell’opera.
Fra i cittadini di Firenze nel Giudizio universale in un affresco nel Palazzo del Bargello a Firenze, c’è il misterioso
autoritratto di Giotto e il ritratto di Dante. Un altro autoritratto è quello dell’Orcagna tra i personaggi che assistono alla
scena della Deposizione della Vergine; lui è l’unico che porta il copricapo, ed è posto di lato (per queste caratteristiche la
critica ha pensato che si trattasse di un autoritratto).
Ghiberti
L’ultimo autoritratto è quello doppio di nel battistero di Firenze, su entrambe le porte. All’interno di una
cornice polilobata, nella porta Nord, mentre nella porta est (del Paradiso) è in una forma diversa. A parte la diversa età, una
testa ha il copricapo e l’altra no (a calvizie aristotelica mette in primo piano l’intellettualità dell’artista); cambiano anche le
incorniciature. La testa nella cornice polilobata e gotica lo costringe, quella rotonda a clipeo gli consente di accostarsi
all’autoritratto di un grandissimo artista dell’antichità, quello di Fidia nello scudo della Atena Parthenos crisoelefantina:
Ghiberti si sente all’altezza di poterlo citare ed emulare.
Dante
Il canto XI del Purgatorio è fonte di equivoci e sovrainterpretazioni e conduce alla cosiddetta Leggenda di Giotto.
Purg, XI, 91-96:
Oh vana gloria dell’umane posse!
Com poco verde in su la cima dura,
Se non è giunta dall’etati grosse!
Credette Cimabue nella pintura
Aver lo campo, e ora ha Giotto il grido,
Sì che la fama di colui è scura.
Il senso delle terzine è: “oh vana gloria, il verde del bocciolo dura poco se le epoche non sono grossolane”. Ciò che è nuovo
viene subito scansato da una nuova proposta se i tempi non sono difficili. Una moda dura poco se i tempi sono duri, perché
viene subito oscurata da un’altra. Ovvero: la fama di Cimabue dura poco perché lui, pieno di ego, è stato oscurato subito
dalla fama di Giotto.
Però, leggere queste terzine senza il giusto contesto è fuorviante. Dante è nel Purgatorio, dove ci sono anime che devono
espiare dei peccati in vista del passaggio al Paradiso. Ci si trova nel girone dei superbi, dove Dante viene colpito in maniera
strana da una figura. Le anime purganti sono costrette a camminare a quattro zampe, con il capo gravato da un macigno,
perché come in vita andarono fieri delle loro qualità (a testa alta) così sono costretti a stare a testa in giù e guardare una
serie di immagini che mostrano dei rilievi scolpiti con esempi di umiltà esaltata e superbia punita.
Il X e l’XI canto sono i canti più ricchi di critica d’arte di tutta l’opera dantesca: dovendo descrivere dei rilievi figurati, Dante
ha modo di inserire dei giudizi e delle osservazioni sul fare arte.
Versi 73-108 – Dante riconosce un’anima che gattona: Oderisi. Dante dice: “Non sei tu quell’Oderisi che ha fatto l’onore
di Gubbio, oltre che dell’arte che hai esercitato?”. C’è il riconoscimento, da parte di Dante, di un’artista che si firma con il
nome e con la sua provenienza, innalzando così l’importanza della comunità a cui appartiene, portando in giro il nome della
città di cui lui è un vanto.
Secondo alcuni critici, questo passo è una delle radici della gloria di cui sono coperti gli artisti greci; perché si conosce Fidia?
Perché Atene si faceva un vanto di aver prodotto un artista così celebre. Dante sottolinea quindi il fatto che Oderisi è stato
quell’artista che ha fatto conoscere con gloria, attraverso la sua arte, la città di Gubbio. Oderisi gli risponde
dicendo che è stato il più bravo nella miniatura, però adesso il suo primato è tramontato in quanto è apparso un miniatore
più bravo, Franco Bolognese. Dice che nel Purgatorio riconosce di essere stato superato da Franco, ma ci è finito proprio
perché in vita non ha fatto in tempo a riconoscerlo.
Dopo questi versi, subentra la coppia Giotto-Cimabue. La stessa sorte di Oderisi l’ha ottenuta Cimabue, convinto di
aver conquistato tutto il mondo con la sua proposta figurativa, ma che a un certo punto ha visto Giotto oscurarlo. La coppia
Cimabue-Giotto rafforza ciò che Oderisi ha raccontato in relazione all’arrivo di una proposta figurativa più aggiornata,
quella del Bolognese.
In questi versi non c’è il minimo riferimento per ipotizza
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