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CAPITOLO 16 – DALLE VIRTÙ ALLA VIRTÙ E DOPO LA VIRTÙ
La chiave di svolta ora è nell'articolo determinativo "la" che mi indica virtù al singolare. Il problema ora è che avendo perso l'idea di pratica, l'idea di comunità, l'idea di bene, e mi rimane soltanto l'idea di giustizia (intesa in modo rigido).
Recuperiamo un discorso iniziato sul bene comune. Il bene comune è un bene che richiede la collaborazione di tutte le persone, deve stare in quella relazione. Il bene comune è la ricerca del mio bene insieme al tuo bene, né contro il tuo (il bene privato) e né a prescindere dal tuo (l'illuminazione di una strada è un bene pubblico). Il bene comune è il bene che richiede collaborazione e si deve stare nella relazione per realizzarlo.
Richiamiamo il bene comune, perché nella contemporaneità facciamo fatica a comprendere il bene comune e le virtù (giustizia,...
temperanza, solidarietà, operazione, onestà…) perché ci siamo persi l'idea di pratiche con i valori interni, uno sguardo unitario della vita umana, il valore della tradizione in cui questa vita umana si inserisce. E quindi abbiamo l'idea dell'unità della vita umana, che una volta persa mi dà come risultato le forme individualiste, mi dà come risultato la società burocratica: quando perdiamo le virtù rimangono solo i valori esterni delle pratiche; quindi, scatta una società competitiva, il cui unico valore è la competizione. L'unità narrativa della vita umana è fortemente distante dallo sguardo sull'individuo irrelato, e sull'idea di un'organizzazione che si regga solo sulla burocrazia. Allora nel momento in cui perdo i valori interni alla pratica, il bene comune diventa qualcosa di rarefatto, si perde per strada. Di fatto, la pratica è oggi marginale eLa pratica include il concetto di comunità che realizza quella pratica. Di fatto accade che storicamente ci sono stati tanti cambiamenti sociali, tra i quali quello di aver portato fuori il lavoro dalle mura domestiche, quella modernità dove la famiglia abita sopra la bottega. Il lavoro è posto fuori, distante, separato: è uno dei tratti della modernità che Weber stesso identifica. La separazione del lavoro e della famiglia è una delle connotazioni della modernità. MacIntyre si risparmia di mettere in luce che nel momento in cui la tradizione si trasferisce fuori al servizio di un capitale impersonale, la sfera del lavoro rischia molte volte di diventare separata dall'identità, da chi voglio essere. Se noi comprendiamo il lavoro come un elemento della vita, e che quindi nello sguardo unitario sulla vita umana, è un distretto in cui realizzare il bene della mia persona, questo non necessariamente perché io faccio il
Il lavoro dei miei sogni, ma come lo realizzo dice chi sono. Però se io lo separo, il rischio è che il lavoro messo al servizio di un capitale impersonale diventa separato da tutto ciò che non è immediatamente connesso alla sopravvivenza biologica e dice MacIntyre a riprodurre forza-lavoro: mettere risorse anche umane per portare avanti una certa tipologia di lavoro. Quello su cui richiama l'attenzione è un elemento: troviamo che la contemporaneità è facilmente retta dalla pleonexia. Vediamo prima la storia che Platone racconta in un passo della sua opera "Repubblica": racconta questo personaggio, un pastore della Lidia Gige che a un certo punto trova un cratere, incuriosito entra in questo cratere, e all'interno di esso trova una specie di bara dove si trova un uomo morto, che ha al dito un anello. Prende questo anello e se lo infila al dito, e scopre poi per caso che se gira la pietra incassata nell'anello, e gira
in modo che sia verso il palmo della mano, diventa invisibile. Questo li permette di avere un certo vantaggio in tante situazioni. Allora "Gige che cosa fa?" Utilizzai poteri di quest'anello per sedurre la regina di Lidia, organizzare l'omicidio di suo marito, il re, e diventare successivamente il re di Lidia. Platone in quel contesto fa dire a un personaggio tra i presenti nella Repubblica: chiunque avrebbe agito così, nessun uomo è sufficientemente virtuoso da riuscire a non utilizzare a suo vantaggio questo anello, a non usarlo per la sua pleonexia. "Ma cos'è pleonexia?" Pleonexia deriva da pleon ed ekein. Ekein è il verbo avere e questo non è problematico perché abbiamo bisogno di possedere qualcosa per poter vivere, abbiamo bisogno di vestiti, di cibo, di mezzi: avere non è di per sé negativo. Il problema sta su pleon, cioè avere di più rispetto a quanto mi aspetta, la
tensione ad avere sempre di più. Anche Aristotele parla della pleonexia: nel quinto libro dell'Etica Nicomaco, parla della pleonexia ed è un vizio: i vizi sono degli abiti morali tanto quanto le virtù solo di segno opposto. La pleonexia è un vizio, cioè è una disposizione stabile, che volendo sempre di più di quanto ci spetta, sfocia nell'ingiustizia (avere più di quello che mi spetta, lo tolgo agli altri). Questa disposizione stabile a cercare in qualunque occasione più di quello che mi spetta, porta a un altro male che è l'assenza di giustizia. Quello che sta dicendo è che possiamo sviluppare questo abito morale negativo (il vizio), un desiderio smostato di avere beni materiali, una brama di possedere questo porta con sé, a rinunciare ad altro, alla spiritualità del sapere, alla spiritualità alla ricerca, la rinuncia all'amore, la rinuncia alla solidarietà.
Perché cerco per me. Allora quello che Aristotele ci indica come un vizio, cioè una disposizione stabile contraria alla realizzazione del bene, sembra essere oggi la forza trainante del sistema produttivo. Se ciascuno di noi vuole sempre di più, si produrrà sempre di più, ci saranno più persone che avranno lavoro per produrre sempre di più: sembra una catena.
Ma come si trasforma la virtù? Se noi buttiamo fuori l'unità narrativa e le pratiche, cosa accade alle virtù? Accade che le virtù si collegano e sono intese unicamente come che ha a che fare con la psicologia dell'individuo, quello che è essere l'istituzione moderna. "Ma come si collega?" "Se elimino l'unità narrativa e le pratiche con i suoi valori interni, cosa accade?" Accade che le virtù possono essere intese in due modi (che possono coesistere):
- Come espressione delle passioni naturali
Disposizioni che cerco di passarti per limitare la tua espansione, perché ci sono altre orbite che devono entrare in qualche modo. È quello che hanno raccolto nell'idea hobbesiana "un uomo è un lupo per altro uomo" (Homo omini lupus): è uno sguardo assolutamente negativo dell'essere umano, concretato totalmente su se stesso. La morale deve essere qualcosa che viene a mitigare/ridurre gli effetti di questa negatività espressa tramite l'espressione di Hobbes: occorre mettere in mezzo un contratto sociale. Ci perdiamo l'idea del bene comune, se c'è un egoismo radicale, c'è Homo omini lupus, il bene comune diventa qualcosa di utopico. Ecco che abbiamo l'idea dell'essere umano che cerca di soddisfare i propri desideri individuali: troviamo un contesto irrelato, anarchico, privo di principio. Questo non è un qualcosa che si ritrovi in uno sguardo che coglie la positività.
dell'essere umano, ma le virtù così come le abbiamo viste, a partire da Aristotele non hanno questo problema.
In Aristotele noi troviamo l'idea che il bene di ciascuno è connesso al bene degli altri. Non stiamo dicendo che l'essere umano è bastevole a se stesso, ma che il suo bene è raggiungibile sempre e solo con altri, siamo legati in una comunità.
Nell'impianto aristotelico questo sguardo di un sistema che mi deve comprimere/delimitare/arginare la distruttività del mio pormi nel mondo, non c'è, anzi è volto a tirare fuori tutto il bene che posso esprimere. Il mio bene è assolutamente legato agli altri. Il bene non è né mio, né tuo, cioè il bene non è una proprietà privata. Non a caso Aristotele parla dell'amicizia proprio in questi termini, la vera amicizia si basa sui valori condivisi. L'amicizia che è basata
Sull'utile terminerà quando l'utile viene meno. L'amicizia è vera quando è retta sulla condivisione: sia nel momento del bisogno sia nel gioire, quando insieme si cerca di perseguire nel bene, l'amicizia è vera nel tempo. È interessante perché parliamo delle virtù, e ci ritroviamo l'amicizia nel cuore di questa trattazione delle virtù: non stiamo parlando di essere umano chiuso in se stesso, ma che è strutturalmente sociale e che sviluppa nella sua forma di relazionalità umana, ossia l'amicizia, proprio la ricerca del valore. Troviamo in fondo che l'egoista è sempre qualcuno che ha commesso un errore fondamentale, quello di cercare il proprio bene personale fuori dalla relazione amicale con gli altri, fuori dalla relazione della ricerca del bene comune, che non significa essere sempre d'accordo. Cercano il suo bene personale, chiuso in se stesso, si esclude dai rapporti umani.
L'egoista è qualcuno che ha commesso l'errore fondamentale di cercare il bene personale dove non lo può trovare, cioè nella irrelazione, nell'assenza di relazioni. Si sviluppa questo sguardo sull'umano negativo, fondamentalmente egoista, ci troviamo in una riflessione sulle virtù: prendiamo come esempio Hume, già c