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L’OBBLIGO DI FEDELTÀ
Art. 2105 c.c. (Obbligo di fedeltà):
“Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con
l’imprenditore attinenti all’organizzazione e ai
[obbligo di non concorrenza], né divulgare notizie
metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio [obbligo
di riservatezza].”
A dispetto di una rubrica che sembra prospettare un dovere di condotta estremamente ampio, la norma
richiama unicamente due comportamenti:
1. Obbligo di non concorrenza (o divieto di concorrenza)
L’obbligo si giustifica alla luce della considerazione che un lavoratore che esercita la stessa attività
dell’impresa di cui è dipendente in qualche modo rema in senso contrario agli interessi del proprio
datore di lavoro, nella misura in cui limita la sua forza relativa nel mercato di riferimento.
l’attività in concorrenza
Si precisa che eventualmente svolta dal lavoratore subordinato è di per sé
2598 c.c.,
illecita, ovvero si considera tale anche in assenza delle ulteriori condizioni previste dall’art.
dedicato agli atti di concorrenza sleale (l’uso di nomi o segni distintivi che producono confusione,
l’imitazione servile dei prodotti del concorrente, la diffusione di notizie che determinano discredito,
l’avvalersi di altri mezzi non conformi ai principi di correttezza professionale).
svolgendo l’attività in concorrenza
La ratio della previsione risiede nella convinzione che,
dall’interno dell’impresa, il prestatore di lavoro è sicuramente più insidioso e pericoloso di qualsiasi
la sua condizione “privilegiata”
altro soggetto esterno che si comporti in modo analogo, perché gli
le conoscenze tecniche e commerciali acquisite grazie all’inserimento
permette di sfruttare al meglio
nell’organizzazione produttiva
stesso nel corso del rapporto di lavoro; si parla in questo senso di
per l’appunto,
concorrenza differenziale, ossia effettuata, approfittando delle notizie di cui può
solo chi opera all’interno della struttura d’impresa.
disporre
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Valeria Garbin, 2019 © 76
2. Obbligo di riservatezza
La legge stabilisce, innanzitutto, che per la violazione di questa previsione sia sufficiente la mera
possibilità di pregiudizio (che quindi può essere solo potenziale) e non, invece, il suo concreto
verificarsi. l’individuazione
Il problema più delicato riguarda specifica delle notizie che devono rimanere
all’unanimità si ritiene che siano escluse dall’obbligo in
riservate o segrete: esame tutte quelle
competenze e conoscenze professionali acquisite dal lavoratore nel corso dello svolgimento
dell’attività, in quanto ormai confluite nel suo bagaglio professionale (a formare una sorta di know-
spendibile all’esterno dell’azienda
how) e con soggetti terzi. Formano oggetto della norma, invece,
notizie che più direttamente riguardano l’organizzazione dell’impresa
le e i metodi di produzione
ad esempio, particolari processi produttivi, l’elenco
(come, clienti, i prezzi praticati nella vendita di
prodotti o servizi e tutti gli altri aspetti che rientrano nel cosiddetto segreto aziendale).
l’articolo
La divergenza tra la rubrica di ampio respiro e che si limita ad elencare due sole condotte
illecite ha aperto al problema di quale delle due previsioni sia destinata a prevalere; la conclusione
interpretativa della giurisprudenza porta a valorizzare la rubrica, laddove afferma che i
comportamenti richiamati dall’articolo vanno intesi solo in senso esemplificativo (configurandosi,
quindi, come delle mere ipotesi di una più vasta serie di condotte che il prestatore di lavoro è tenuto
di fedeltà
ad osservare), mentre all’obbligo è attribuita una valenza molto più ampia.
Dando una lettura della norma unitamente alle clausole generali di correttezza e buona fede
contrattuale, poi, la giurisprudenza ha configurato il dovere di fedeltà come obbligo di tenere un
comportamento leale verso il datore di lavoro, di tutelarne in ogni modo gli interessi e, allo stesso
tempo, di astenersi dal fare tutto ciò che gli possa nuocere.
Un principio che ricorre in modo particolarmente sistematico e diffuso nelle sentenze è il seguente:
il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall’art. 2105 c.c., ma
anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri
connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o che creano situazioni
di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o che sono comunque idonei a ledere
irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro.
Emerge, insomma, un’interpretazione dell’obbligo di fedeltà,
estensiva che arriva a comprendere tutti
i comportamenti che rispondono all’interesse del datore di lavoro e che non lo ledono; si ritiene, poi,
che per tutta la durata del rapporto di lavoro debba sussistere quel fattore di reciproca fiducia
necessario per un futuro corretto adempimento della prestazione lavorativa. A conferma di questo
aspetto si può notare come nelle lettere di contestazione o, più propriamente, nel secondo atto scritto
di applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento (vedi lezione 21.03.2019), spesso come
“il comportamento
espressione di chiusura si ricorre a una formula del tipo contestato e rispetto al
quale non si intende accogliere le Sue giustificazioni ha irrimediabilmente leso il vincolo di fiducia
che deve sussistere tra le parti”. Sempre su questo aspetto si è basata la soluzione al dubbio di chi si
chiede se ci possano essere delle condotte attinenti alla vita privata del lavoratore (comportamenti
che nulla hanno a che fare con l’esecuzione delle mansioni)
extra-lavorativi che, per la loro gravità,
possono ledere il vincolo fiduciario al punto da consentire al datore di lavoro di applicare la sanzione
l’esempio normalmente
estintiva del licenziamento: la risposta è affermativa e a supporto della tesi
riportato è quello del datore di lavoro che adibisce il proprio dipendente alle mansioni di cassa, il
quale è poi scoperto a rubare i prodotti in un altro supermercato (non ravvisandosi quindi alcun
collegamento con le mansioni svolte e i propri superiori gerarchici); in questo caso il timore che il
comportamento illecito possa essere reiterato nella propria impresa ha delle ripercussioni sul rapporto
di lavoro e può giustificare e rendere pienamente legittimo il licenziamento (lo stesso può dirsi per
l’addetto allo sportello di una banca che emette un assegno a vuoto sul conto corrente aperto presso
un’altra banca). all’interrogativo,
Una risposta più generale ma comunque approssimativa, si può
l’imprescindibile
formulare come segue: se vincolo di fiducia sotto forma di legittima aspettativa di
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Valeria Garbin, 2019 © 77
un corretto adempimento per le prestazioni che saranno eseguite in futuro viene meno (soprattutto
un’ampia fiducia
quando la natura delle mansioni richiede da parte del datore di lavoro), il
comportamento extra-lavorativo può avere come esito il licenziamento.
Patto di non concorrenza
L’obbligo di fedeltà – –
in particolare nella sua accezione di obbligo di non concorrenza viene meno
con la cessazione del rapporto di lavoro (come del resto avviene per tutti gli altri obblighi del
lavoratore: obbedienza e diligenza). Il codice civile, però, legittima le parti a prolungare il divieto di
svolgere attività concorrenziale per un periodo successivo alla scadenza del contratto, attraverso la
stipulazione del cosiddetto patto di non concorrenza (art. 2125 c.c.), circondato da una fitta serie di
della
limiti normativi (primo fra tutti l’imposizione forma scritta a pena di nullità, tratto comune anche
al patto di prova, vedi lezione 7.03.2019, e alla clausola che appone il termine finale di durata del
contratto di lavoro, rinvio).
in esame
In linea teorica l’accordo può essere concluso al momento della stipulazione del contratto
di lavoro (formando quindi parte integrante dello stesso, pur conservando una propria autonomia),
durante l’esecuzione del rapporto oppure al termine del rapporto stesso, contestualmente alla sua
cessazione; in pratica però, trattandosi di una clausola tendenzialmente sfavorevole per il lavoratore,
è più facile che egli la accetti se gli viene proposta al momento della stipula iniziale del contratto
– dall’aver trovato una
individuale (in cui il datore ha una maggiore forza negoziale) allettato com’è
nell’ottica di una valutazione complessiva delle condizioni di lavoro –
nuova occupazione e che non
presso un’impresa che
invece alla fine del rapporto, quando magari ha già trovato un altro lavoro
svolge attività in concorrenza con quella precedente. a cui è subordinata l’efficace conclusione del
Come anticipato, il primo e fondamentale requisito
patto di non concorrenza è la sua previsione in forma scritta, allo scopo di consentire al lavoratore
dell’atto che si accinge a firmare.
una valutazione più attenta del contenuto
In secondo luogo è imposto il limite del corrispettivo a favore del prestatore di lavoro (altrimenti la
pattuizione non sarebbe legittima perché diseguale, senza considerare che in questo caso il lavoratore
avrebbe alcun incentivo e ragione di firmare l’accordo),
non rispetto al quale la giurisprudenza
sottolinea che non deve trattarsi di un compenso meramente simbolico, bensì deve avere una
consistenza tale da bilanciare adeguatamente la limitazione dell’espressione della sua capacità
professionale e lavorativa; questo può essere erogato al termine del rapporto di lavoro (quando il patto
l’esecuzione dello stesso
inizia a produrre i propri effetti) oppure durante (attraverso il versamento di
una cifra mensile fissa o in percentuale sulla retribuzione, che in entrambi i casi deve essere
“a titolo di compenso per il
evidenziato nel prospetto paga con una voce distinta recante la formula
patto di non concorrenza”). adeguatezza
Non essendo offerti dei parametri certi, valutare l’effettiva e
non mera simbolicità del corrispettivo è un aspetto particolarmente delicato: si ritiene, in ogni caso,
che lo stesso non debba essere inferiore al 20% del