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L’ETA’ DELLA REPUBBLICA
L'Artigianato tra IV e III a.C.: il prodotto più rappresentativo delle officine di Praeneste
era la cista. Le ‘cistae’ erano dei cofanetti, dei contenitori anche di grandi dimensioni
che servivano per contenere oggetti da toeletta o gioielli. Molto spesso erano utilizzate,
soprattutto quelle più preziose, come dono di nozze che era il dono più significativo
della dote della sposa e che era il dono principale che i genitori lasciavano in dote alla
sposa. Quello in foto è un modello piuttosto raro perché non è ancora tutto in bronzo,
ma aveva in bronzo solo le estremità, la parte sommitale e la parte più bassa, mentre la
parte centrale era in cuoio o in legno o in legno rivestito da cuoio, comunque in
materiale deperibile. È un prototipo destinato ad essere sostituito da ciste tutte in
bronzo. I manici qui sono in bronzo e dense di significato. Questi manufatti sono indicati
anche come ciste prenestine, perché il principale centro produttore era Praeneste.
Cista prenestina: tutta in bronzo (primi decenni IV a.C.) e ha il corpo completamente
segnato da una scena complessa realizzata ad incisione che si poteva realizzare solo
quando il corpo bronzeo era ancora incandescente. I torèuti (artigiani del metallo)
dovevano quindi avere una grande abilità. Uno dei miti più seguiti è legato alla saga
degli Argonauti. Spesso le scene delle ciste sono mitologiche e tra i miti più
rappresentati c’è la saga degli argonauti, in particolare l’episodio che è nelle due ciste
riportate, tra cui quella più nota che è la cista Ficoroni, dal nome dello scopritore (360-
350 a.C.), riporta la storia di Amicos, che aveva la caratteristica di non essere un grande
appassionato di accoglienza degli ospiti, rifiutava di dare acqua a chi raggiungeva la sua
terra, a meno che non riuscissero a vincerlo nelle gare di pugilato nel quale era uno
specialista. Il risultato era che morivano tutti di sete finché non arrivano coloro che
riuscivano a vincerlo: i Dioscuri, in particolare Castore (il culto dei Dioscuri è uno di
quelli che maggiormente connota il V e il IV a.C.). Uno dei templi più importanti del Foro
romano di questo periodo è il tempio dei Càstori, che sono appunto i Dioscuri. Nella
scena principale del fregio della cista Ficoroni Amicos viene legato nudo a un albero da
Castore ed esposto alla sua punizione. L’incisione è molto nitida, non è solo il bulino a
dare questo tratto bianco, vi erano accorgimenti ulteriori perché sappiamo da analisi
archeometriche, condotte sulle incisioni, che il toreuta, dopo il raffreddamento
completo della cista, faceva passare una polvere gessosa che penetrava nel solco delle
incisioni. Anche questa cista viene da Praeneste, dalla necropoli della Colombella dove,
tre secoli prima, vi erano le tombe Barberini e Bernardini. Ma non è prodotta a
Praeneste, questo è il dato culturale importante, e lo sappiamo da un’iscrizione, tra le
più antiche di lingua latina: <<La matrona Dindia Macolnia ha dato questa cista alla
figlia/Novio Plauzio mi fece a Roma>>, quindi evidentemente si tratta di un dono di
nozze, ma la rivendicazione dell'artifex ci spiazza, perché questo ‘Novius Plautius’ che
molto probabilmente è il proprietario dell'officina, rivendica che è stata prodotta a
Roma, proprio per segnalarlo dal momento che la sede più nota era Praeneste. Papini
ritiene che in realtà sia stato prodotta a Praeneste e poi decorata a Roma, ma la
committente era di Praeneste, quindi andare a prendere a Roma una cista fatta a
Praeneste sembra una lectio difficilior. Più probabilmente questa nobildonna era
positivamente impressionata dalla capacità di questa officina che riproduceva un tema
noto nell'aristocrazia romana, anche perché aveva più ‘pregio’ un regalo acquistato da
Roma. Tutti i materiali che vediamo sono tutte classi di materiali che trovano in Roma
un centro produttore capace di influenzare ormai anche il territorio esterno a Roma.
(Nella parte storica queste classi sono accennate, vanno approfondite sul libro).
Piatti di ‘Genucilia' (fine IV a.C.): piatti decorati a figure rosse, chiamati cosi poiché uno
dei primi esemplari scoperti porta sul fondo un’iscrizione con il nome Genucilia, che non
sappiamo chi fosse. La caratteristica è che è una produzione talmente di nicchia, che
ripete questo modello figurativo, cioè ripete il volto femminile di profilo con
l’acconciatura tipica raccolta dentro questa cuffia che è tipica di questo periodo che i
greci chiamavano sakkòs. Non è una novità né la tecnica né l’immagine, perché questo
motivo caratterizza negli stessi anni (fine del IV) quasi ossessivamente la ceramica
tardo-apula, prodotta a Taranto e forse anche in altri distretti della Puglia. Taranto è
uno degli interlocutori commerciali e quindi anche culturali più significativi della Roma
di questo periodo, anche senza necessariamente ammettere un tramite di Praeneste. È
vero che a Praeneste sono stati rinvenuti bronzi tarantini già dal IV a.C., ma i prodotti
tarantini arrivavano anche al porto di Roma e dal porto di Roma entravano in città.
Arrivavano a Ostia, risalivano il Tevere e arrivavano all'ansa del Tevere dove c’era il
Foro Boario. Le tipiche produzioni di questo periodo sono piatti di Genucilia, le ciste per
quanto riguarda la Toreutica, molto diffusa anche la produzione del gruppo dei piccoli
stampigli.
Gruppo dei piccoli stampigli: riproduciamo in italiano la formula francese ‘petit de
stampigl’. È una produzione molto lunga (320-200), se ne trovano in Etruria
meridionale, in tutta l’Italia centrale, nell'attuale Puglia, nel piceno, nella zona sannitica.
Erano realizzati a Tarquinia (Etruria), Faleri veteres (Lazio), con ogni probabilità, vista
la grande quantità nota, erano prodotti anche a Roma in particolare nella prima metà
del III a.C., soprattutto nel 280-260 a.C. Deposito votivo delle curiae veteres, a pochi
passi dall’arco di Costantino, sul Palatino nord-orientale, un santuario dedicato alle
curiae veteres. Sono centinaia di contenitori, soprattutto coppette usate nei rituali, e
sono tutte dei piccoli stampigli a vernice nera, cioè ceramica che prima della cottura
riceveva sulla superficie un rivestimento di argilla, che, dopo la cottura, diventava nero
brillante, perché questa argilla aveva forte componente ferrosa che, nelle condizioni di
cottura in atmosfera ossidante delle fornaci, dava questa reazione e l’abilità del
ceramografo era nel creare la miscela nelle giuste proporzioni per dare quel risultato.
Clementina Panella presenta i materiali: in questa collezione ci sono anche piccoli
stampigli più rossastri perché evidentemente il rivestimento d’argilla non era stato fatto
a regola d’arte e quindi davano un colore non nero. A caratterizzare la decorazione
erano dei motivi naturali stampigliati con un punzone sul fondo del contenitore prima
di cuocerlo, per questo si chiamano stampigli. Era il marchio di fabbrica. Ancora una
volta Roma e il Lazio guardano ai centri produttori già affermati nella produzione di
ceramica a vertice nera, introducendo solo nella zona del Lazio e di Roma i piccoli
stampigli. In Italia produceva in maniera più organizzata la vernice nera la Campania, la
zona di Capua per esempio. Il repertorio più usato per riconoscere la vernice nera è
fatto sulle ceramiche campane, e il minerale ferroso campano aiutava in questo.
L’altra classe che consideriamo è quella dei ‘Pòcola deorum’ (fine IV- prima metà III
a.C.). È un particolare tipo di vernice nera. Sono tutti vasi rituali usati nei santuari,
contraddistinti da un’iscrizione sopra dipinta che ne fa una dedica alla divinità. Questo
riporta ‘saturni pocolom’, cioè si dice che questo oggetto diventa di Saturno. Il genitivo è
di affiliazione della dedica; ‘pocolom’ è il contenitore per bere o comunque per i liquidi.
Li chiamiamo così perché questi pocola sono dedicati a diverse divinità.
Voluptates pocolom: viene da san Giuliano o comunque dal viterbese (diffusione nel
Lazio e in etruria; a Roma diffuso nella prima metà del III. Sicuramente si produceva a
Roma, lo sappiamo perché ci sono scarti di lavorazione in siti di officine). Il modello qui
è molto chiaro: questa ceramica è a vernice nera con sovradipinture policrome,
esattamente una riproposizione legata ai luoghi sacri della ceramica che chiamiamo
‘sovraddipinta policroma’, chiamata anche ‘ceramica di Gnathia o di Egnazia’, perché i
primi frammenti noti sono stati rinvenuti nell'area della necropoli di Egnazia alla metà
dell'800 e uno studioso dell'epoca, un antiquario Giulio Minervini, propose questa
definizione perché non era ancora nota questa produzione in altri siti. Altri studi
successivi hanno riconosciuto come unico centro di produzione Taranto. È una
produzione ricercata delle stesse officine che riproducevano le figure nere e le figure
rosse. Anche perché anche le figure rosse alla fine del IV si arricchiscono molto nella
ceramica italiota-apula di sovradipinture policrome. Le sovradipinture a colori venivano
realizzate sia sulla ceramica a figure rosse sia su questa, che dava più risalto al colore
grazie alla vernice nera del corpo ceramico. Nella prima metà del III secolo Roma inizia
a produrre questa ceramica sul modello tarantino e questo non meraviglia, perché
Taranto viene conquistata definitivamente nel 272. Taranto diventa una città socia di
Roma, anzi prima diventa federata, cioè legata da un foedus. Sicuramente il modello
della ceramica di Gnathia lo troviamo anche nella ceramica sovradipinta con
decorazione fitomorfa (vegetale), che rappresenta le viti, grappoli della vite, le foglie
della vite, com'era nella ceramica di Gnathia e al centro l’elefante, che rimanda alla
spedizione di Pirro che per primo porta gli elefanti. Sappiamo dalle fonti che gli elefanti
sfilano a Roma durante il trionfo molto opulento e fastoso, celebrato dal console che
vince contro Pirro a Maleventum, che da quel momento diventa Beneventum nel 275
a.C., il console era Manio Curio Dentato. Non ci sorprende che questa produzione di
nicchia rievochi questi avvenimenti. È la ceramica sovradipinta a più colori come la
ceramica di Gnathia.
La ceramica ‘di Gnathia' o Egnazia si organizza in città e lo capiamo dalle mura, dalla
piazza, i primi portici, e poi lo scavo del 2022 ha orinato ad evidenziare una significativa
necropoli di questo nuov