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Il film è tipicamente cartolinesco: fin dall’inizio viene ritratta l’isola verde, già in forma di cine-

turismo, come promozione di un prodotto turistico ricco di alberghi e di zone termali, tutte

proprietà di Angelo Rizzoli. Quindi non promuove solo l’isola, ma le stesse strutture del magnate,

che tra l’altro è il produttore stesso del film. Non solo, anche i periodici e giornali inquadrati

appartengono a Rizzoli, chiaro fenomeno di pubblicità occulta.

I colori, a differenza di quelli scelti da Lattuada, sono accesi, dai cromatismi forti e caricaturati, con

l’intento di abbellire la rappresentazione. Sempre per valorizzare i paesaggi, viene usato il formato

panoramico Totalscope. Il film è interessante sul piano tecnico anche per l’Eastmancolor, tecnica

usata per la colorazione della pellicola in post. Un colore sgargiante che è un modo per prendere le

distanze dall’estetica neorealista, con l’intento di restituire un’idea diversa dell’Italia fin ora

conosciuta.

Le tematiche non sono particolari a causa della coralità eterogenea che non permette particolari

approfondimenti nella psicologia dei personaggi. Analizzando il film possiamo definire due tipi di

vacanzieri:

• quelli più statici -> i coniugi Occhipinti (De Sica) e i coniugi Lucarelli che godono la villeggiatura nei

confini della struttura che li ospita, senza stabilire nessun contatto con la popolazione del luogo o

con il luogo in generale: questi vivono in una sorta di bolla in cui ripropongono le logiche del

quotidiano.

• quelli più propensi all’esplorazione -> i giovani romani e i francesi coniugi Tissot.

Essi vivono l’isola, esplorano e stabiliscono relazioni con la gente del posto.

La spiaggia, nonostante sia un film balneare, è poco presente.

L’avventura (1960, Michelangelo Antonioni)

Presentato al Festival di Cannes nel 1960, dove viene fischiato dal pubblico e divide la critica (pur

ottenendo il Premio speciale della giuria), L'avventura è un film di cruciale importanza nella

filmografia di Michelangelo Antonioni e per lo stesso cinema italiano. Realizzato tra mille difficoltà

economiche (produttori che saltano, mancanza di fondi), logistiche (il film viene interrotto

per mesi, Antonioni resta fermo con la troupe sullo scoglio di Lisca Bianca per giorni, senza mezzi

di sussistenza), meteorologiche (mare in tempesta, trombe d'aria) e infine censorie,

L'avventura si segnala come momento tra i più alti di quella 'modernità' cinematografica che

proprio in quegli anni conoscerà il suo apogeo. Modernità che trova la sua pietra angolare

nell'approccio alla struttura narrativa e nella riflessione sulla forma cinematografica. L'avventura

condensa nei suoi 140 minuti una feroce analisi della borghesia affidata a una narrazione implosa,

tesa a declinare il vuoto degli spazi naturali fissati dalla macchina da presa. Una narrazione la cui

causalità dimora assente, incrinata da un evento imprevisto e inspiegabile come la scomparsa di

Anna. Emerge tutta la riflessione dell'Antonioni teorico e critico cinematografico, frutto degli anni

passati come redattore e collaboratore della rivista "Cinema": si delinea qui in tutta la sua

evidenza l'assimilazione e la critica di una forma cinematografica vicina al neorealismo. Antonioni

circoscrive, ma soprattutto rinnova questa esperienza cinematografica attraverso alcune scelte

filmiche: su tutte l'attenzione posta sul paesaggio, non solo evocativo ma caricato di significati

metaforici, con particolare evidenza nel rapporto tra figura umana e paesaggio naturale. L’uso

del bianco e nero è una scelta stilistica ed ogni inquadratura è attenta a sottolineare il paesaggio

crudo delle rocce vulcaniche, così dure e aspre. Il regista concretizza questo rapporto attraverso

inquadrature lunghe e il posizionamento preciso della figura nell'ambiente, un ambiente che

finisce per sovrastarla. Nella prima parte del film, nel paesaggio lunare di Lisca Bianca, Antonioni

filma la roccia, le asperità del terreno, gli scogli. L'uso della panoramica delimita lo spazio, segna i

limiti, certifica una zona circondata dal mare. Le immagini 'documentarie' delle insenature lavorate

dalle onde contengono la cifra del film, sono la faglia metaforica, la ferita in cui il film trova il suo

centro che manca, sepolto tra fatti opachi e quotidiani.

La sparizione di Anna non è altro che la ferita che incrina il film: l’inquadratura sull'insenatura a

picco sul mare, scossa dalle onde, declina questo istante fatale. Antonioni realizza dunque,

attraverso un'attenta riflessione sulla tecnica cinematografica, un film in cui forma e contenuto

finiscono con il collimare perfettamente. L’evanescenza della figura umana, la sua sparizione nel

paesaggio, vengono esplicitate e amplificate attraverso la precisione di alcune dissolvenze

incrociate: non si tratta solo di un espediente narrativo di ordine temporale, appare precisa

la scelta di annullare nel bianco dell'inquadratura ogni azione, di far evaporare l'immagine

attraverso la gradazione dei grigi, fino all'annullamento completo. Stessa attenzione è portata al

suono in presa diretta: il rumore delle onde infrante sugli scogli sommerge i dialoghi, assumendo

un carattere in grado di annullare la presenza della voce umana. La seconda parte del film non è

altro che una sorta di nota, che tenta di fare luce non tanto sulle motivazioni della scomparsa ma

sulle sue origini, sulle basi in cui un evento simile ha potuto aver luogo.

Film di estrema crudeltà, L’avventura presenta figure mediocri, vacue, instabili e grottesche incapaci

di comunicare e vivono le loro nevrosi.

Non sono tanto gli accadimenti della realtà ad interessare il regista, ma le conseguenze degli

accadimenti nell’animo e nella psicologia dei personaggi. Insomma, non tanto i fatti, ma il “come”

i fatti sono vissuti nell’intimo dei personaggi, come atteggiamenti e pensieri si modificano in

conseguenza dei fatti stessi. In questo senso il titolo, di cui Antonioni non ha mai data una

interpretazione autentica, va inteso non tanto come l’avventura che un gruppo di amici

consapevolmente decide di avere in un’isola della Sicilia, e neppure l’avventuroso viaggio lungo la

Sicilia orientale che segue alla scomparsa di Anna, ma piuttosto significa l’avventura dell’animo

umano, il nuovo avventuroso percorso che l’animo intraprende “dopo” e “a causa” di un

accadimento inusuale, come la scomparsa di Anna. Questo è dunque quello che interessa ad

Antonioni, questa è la realtà che lo appassiona: la realtà dell’animo umano e precisamente di

quella umanità “borghese”, il cui declino e decadenza sentimentale e ideale sta portando l’Italia

allo sfacelo in questi anni di boom economico.

La dolce vita (1960, Fellini)

Un’opera che fa da ponte nella carriera del regista e nel cinema italiano, un film-cerniera che apre

un decennio ricco di nuovi registi e nuovi generi, dalla commedia all’italiana al western. Oggi, «la

dolce vita» è la vita del lusso e della ricchezza, luogo della mondanità per eccellenza, che ha

prelevato la dicitura da questo film, che parla della via Veneto di quegli anni, dello sfarzo che

camuffa un mondo marcio e povero di ideali.

Per raccontare la faccenda usa Marcello Mastroianni, che diventa qui un personaggio-guida.

Accanto a lui c’è Paparazzo, nome divenuto canonico per i fotografi che pedinano le star. Il loro è

un viaggio tra Inferno e Paradiso, come fosse una discesa dantesca, come se tutti i personaggi

incontrati da Marcello fossero i dannati dei gironi.

Nella scena iniziale un elicottero trasporta una grande statua di Cristo, partendo dall’acquedotto

romano fino ad arrivare a Piazza San Pietro, minuti densi di simbolismi: Cristo torna in un mondo

che ha perso il contatto con la spiritualità, un mondo profano e più attento ad osservare la danza

orientale della scena successiva. A bordo dell’elicottero che segue il primo ci sono Marcello e

Paparazzo, più attenti ai bikini delle donne sdraiate sui tetti che alla statua che sorvola la città:

anche questa, senza spiaggia, è in qualche modo una condizione balneare, direzione simbolica dei

piaceri mondani e terreni contrapposti al nuovo avvento cristologico. Ennio Flaiano, tra gli

sceneggiatori, paragona la via romana alla spiaggia, i suoi bar agli stabilimenti e le macchine alle

barche.

Così, la condizione balneare prescinde dalle spiagge e rappresenta un generale «modo di essere

italiani»: gli italiani non sono interessati al mare, ma allo stare in spiaggia, con le sue dinamiche

voyeuristiche ed i rapporti che si creano. In questo senso, tra via Veneto e la spiaggia di Ostia non

c’è differenza.

Quella del finale è certamente una delle spiagge più famose di tutta la cinematografia mondiale.

Qui si afferma quella dimensione mostruosa del cinema che indaga gli aspetti oscuri del

boom economico. Siamo all’alba di una nottata orgiastica cui hanno preso parte annoiati

personaggi, corrotti moralmente: destino che corre incontro allo stesso Marcello.

Potrebbe anche essere un finale di speranza grazie alla simbolica nuova alba incarnata dal

personaggio di Paola, dal volto puro e angelico, simbolo di purezza: ella chiama a sé Marcello, che

non la sente a causa del fiumiciattolo che corre tra di loro, che li divide. L’incomunicabilità si rivela

nell’amaro gesto di Marcello che si congeda, rassegnato. Lo sguardo in macchina di Paola ci chiama

a sé: tutta quella storia non riguarda Marcello, ma noi stessi. Il gruppo di depravati arriva dalla

pineta sulla spiaggia e solo allora spunta questo mostro marino sul bagnasciuga: il contrappunto

perfetto all’angelico volto di Paola, tenebroso affresco della dolce vita, sintesi della parabola

dell’intero film.

Marcello non è a suo agio guardando quella mostruosità, si sente scrutato null’anima, forse perché

sa che la mostruosità dentro di sé è più grande. Il mare di Fellini, anche qui, è un palco angosciante

e luogo che il regista osserva con paura, luogo ricco di mostri, entità aliena che vomita creature

mostruose. Un elemento fondamentale risiede appunto nello sguardo di questo mostro marino, da

cui Marcello sottolinea ripetutamente di sentirsi osservato: quell’occhio vitreo è estremamente

perturbante ed osserva con aria accusatrice i peccatori attorno a lui. L’occhio come metafora del

cinema.

Il mostro fu ideato dallo scenografo su indicazioni di Fellini stesso che prese spunto da un ricordo di

quando era ragazzo: anni prima, sulla spiaggia di Rimini era apparso, catturato da dei pescatori, un

Pesce Lun

Dettagli
Publisher
A.A. 2023-2024
25 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/06 Cinema, fotografia e televisione

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher EleMa. di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Cinema italiano e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi Roma Tre o del prof Uva Christian.