Beatricezella
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Concetti Chiave

  • La crisi della Repubblica Romana fu caratterizzata da un indebolimento dei valori tradizionali e dalla formazione di nuovi ceti economici che sfidarono il dominio del ceto senatorio.
  • Gaio Mario divenne un leader dei popolari, riformando l'esercito per includere i nullatenenti e creando un esercito professionale fedele ai generali piuttosto che alla Repubblica.
  • Le guerre civili furono un momento cruciale, con personaggi come Silla e Mario che utilizzarono l'esercito per ottenere potere politico, segnando un periodo di conflitto interno che indebolì ulteriormente la Repubblica.
  • Giulio Cesare, attraverso il primo triumvirato e le sue imprese militari in Gallia, accumulò potere e prestigio, sfidando il Senato e avvicinandosi alla monarchia senza rinunciare formalmente alla Repubblica.
  • Dopo l'assassinio di Cesare, Ottaviano e Antonio si contesero il controllo di Roma, culminando nella vittoria di Ottaviano su Antonio ad Azio, che portò alla fine della Repubblica e all'inizio dell'Impero Romano.

Indice

  1. La trasformazione di Roma
  2. Il declino dei valori civici
  3. La fine della concordia
  4. Nuovi nemici e la guerra giugurtina
  5. Gaio Mario e le riforme militari
  6. Mario e Silla: la lotta per il potere
  7. Le guerre mitridatiche e la dittatura di Silla
  8. Le riforme di Silla e la crisi repubblicana
  9. L'ascesa di Pompeo e Crasso
  10. Pompeo e Crasso: alleati e avversari
  11. Le vittorie di Pompeo e la congiura di Catilina
  12. Cesare e il primo triumvirato
  13. Le campagne militari di Cesare
  14. La conquista della Gallia e il ritorno di Cesare
  15. Il passaggio del Rubicone e la guerra civile
  16. Cesare dittatore e le sue riforme
  17. La congiura delle idi di marzo
  18. La plebe e l'eredità di Cesare
  19. La rapida ascesa di Ottaviano
  20. Il secondo triumvirato e le liste di proscrizione
  21. I contrasti tra Antonio e Ottaviano
  22. La propaganda di Ottaviano e la sconfitta di Antonio

La trasformazione di Roma

La Roma degli ultimi anni del II secolo a.C. era molto diversa da quella che aveva sconfitto Annibale. Le ricchezze che affluivano in quella che era ormai la capitale di un grande impero avevano portato alla formazione di un nuovo ceto dedito ai commerci (cavalieri) al quale il ceto senatorio (l'antica nobilitas) precludeva l'accesso alle cariche pubbliche. La piccola proprietà contadina era entrata in crisi a causa della concorrenza dei latifondi e questo, oltre a minare il reclutamento dei legionari, era sfociata nella nascita della plebe urbana (cittadini poveri che chiedevano alla repubblica grano a prezzo ribassato e accesso gratuito ai giochi). Infine, alle tensioni politiche e sociali si aggiungeva il malumore degli alleati italici, che richiedevano la cittadinanza romana.

Il declino dei valori civici

A rendere diversa la Roma del 100 a.C. da quella di un secolo prima fu l'indebolirsi dei sentimenti civici che da sempre avevano contraddistinto Roma: la dedizione alla repubblica e la capacità di sacrificarsi in vista del bene comune erano sempre più deboli e sempre più spesso sostituiti dalla sete di ricchezza e dalla corruzione. Rappresentativo di questo cambiamento è il fatto che la partecipazione alle spedizioni militari cessò di essere un requisito imprescindibile per tutti coloro che intendevano dedicarsi alla vita politica. Il servizio militare perse ogni attrattiva per i membri della nobilitas a favore della frequentazione del foro e dello studio della retorica. Era più agevole guadagnarsi fama e notorietà presso la plebe sostenendo l'accusa contro un magistrato accusato di corruzione che in lunghe e faticose campagne militari in Oriente o nella Penisola iberica.

La fine della concordia

La fine della concordia Le violenze che segnarono la fine dei progetti di riforma dei Gracchi costituirono un punto di svolta nella storia di Roma. Infatti dalla metà del IV secolo a.C., terminati gli scontri tra patrizi e plebei, Roma aveva vissuto un prolungato periodo di pace interna, grazie al quale aveva potuto dedicarsi alle guerre di conquista. Ora questa concordia veniva definitivamente meno: a Roma si formarono due schieramenti opposti, il cui scontro avrebbe portato alla fine della repubblica. Il primo schieramento era costituito dai cosiddetti ottimati (optimates). Gli ottimati appartenevano soprattutto al ceto senatorio e si consideravano i difensori dei valori tradizionali della repubblica; in realtà volevano mantenere il monopolio delle cariche pubbliche e si opponevano all'ascesa dei nuovi ceti. Il secondo schieramento era quello dei popolari (populares), che era composto soprattutto dai cavalieri. I popolari chiedevano che l'accesso al consolato e al Senato fosse aperto ai "uomini nuovi", cioè ai cavalieri e alle famiglie che si erano arricchite in tempi recenti ma che non appartenevano al ceto senatorio e che spesso provenivano dalle altre città del centro Italia. I popolari mostravano maggiore disponibilità ad accogliere richieste Italici e plebe. Il ruolo dell'esercito e della plebe Nelle feroci lotte che segnarono gli ultimi decenni della repubblica, i contendenti fecero ricorso a due strumenti. Il primo fu l'esercito, che fu utilizzato dai comandanti militari per conquistare il potere ed eliminare gli avversari. Il secondo fu la plebe urbana, ossia i molti nullatenenti che affollavano le strade di Roma. La plebe urbana non elaborò mai una propria proposta politica autonoma, ma fu sempre pronta a seguire la fazione o il politico che prometteva loro di più: più cibo gratuito. Per i politici senza scrupoli, la plebe urbana, facilmente manipolabile, divenne un'arma che proprio come era avvenuto con i Gracchi poteva essere utilizzata contro i propri avversari.

Nuovi nemici e la guerra giugurtina

Nuovi nemici minacciano Roma A partire dal 109 a.C. le popolazioni germaniche dei Cimbri e dei Teutoni iniziarono a compiere scorribande e a saccheggiare la Gallia meridionale e la Pianura Padana. Le legioni inviate contro di loro erano state più volte sconfitte, una conseguenza del disinteresse dei membri del ceto senatorio per l'attività militare: i generali mancavano delle competenze e dell'esperienza per guidare le legioni. Negli stessi anni Roma dovette intervenire in Africa, nel regno di Numidia, uno Stato tradizionalmente alleato di Roma nel quale era scoppiata una guerra per la successione al trono. Il Senato era intervenuto nel tentativo di porre fine a un conflitto che rischiava di destabilizzare un'area strategica, ma i suoi tentativi di mediazione erano falliti a causa dell'intransigenza di Giugurta, uno dei tre pretendenti al trono. Nel 112 a.C. Giugurta assediò la città di Cirta, dove si era asserragliato uno dei suoi rivali, e fece uccidere tutti gli abitanti, compresi i numerosi cittadini romani che vi si trovavano. A questo punto il Senato gli dichiarò guerra (111-105 a.C., guerra giugurtina), ma il conflitto si impantanò in una serie di scaramucce senza esito a causa sia dell'abilità di Giugurta sia dell'inettitudine dei comandanti romani.

Gaio Mario e le riforme militari

Gaio Mario, primo uomo nuovo a ricoprire il consolato Di fronte alle sconfitte subite in Africa, a Roma si diffuse il sospetto che Giugurta avesse corrotto i senatori e i generali inviati a fronteggiarlo. Tali sospetti, mai provati, furono sfruttati dai popolari, che approfittarono del discredito in cui erano caduti il Senato e la nobilitas per far eleggere al consolato Gaio Mario, che non apparteneva al ceto senatorio, ma proveniva da una famiglia di recente origine e appartenente all'ordine equestre. Mario fu il primo uomo nuovo a ricoprire la carica di console. Negli anni precedenti Mario si era messo in mostra combattendo in Spagna e prendendo parte all'assedio di Numanzia: la disaffezione mostrata da membri della nobilitas per la vita militare aveva aperto alle famiglie equestri la possibilità di far carriera all'interno dell'esercito. Nel 119 a.C. aveva ricoperto l'incarico di tribuno della plebe e in seguito era stato eletto alla pretura senza però riuscire a guadagnarsi la popolarità che sarebbe stata necessaria per avanzare ulteriormente sulla scena politica. Nel 110 a.C., alla ricerca di alleanze per rilanciare le sue ambizioni politiche, Mario sposò Giulia, zia di Caio Giulio Cesare e appartenente alla gens Giulia. Più che la nuova alleanza, a permettere a Mario di accedere al consolato furono però le sue imprese militari e il crescente sdegno verso la nobilitas. Mario apre l'esercito ai nullatenenti Mario fu incaricato di organizzare una spedizione contro Giugurta ma, al momento di formare l'esercito, riformò il reclutamento e, per la prima volta, offrì ai nullatenenti la possibilità di arruolarsi come volontari: a farsi carico della spesa per il loro equipaggiamento sarebbe stata la repubblica. I soldati avrebbero anche ricevuto una paga regolare e, al termine del loro servizio militare, avrebbero ricevuto delle terre dell'agro pubblico dove stabilirsi. La decisione di aprire il reclutamento ai nullatenenti e di fornire loro gratuitamente armi e armature doveva servire a risolvere il problema della diminuzione dei soldati arruolabili ed era una novità rivoluzionaria: infatti in tutte le società antiche a Roma come in Grecia i soldati dovevano provvedere personalmente all'equipaggiamento militare e quindi chi non era in grado di permetterselo non poteva entrare nell'esercito. La riforma di Mario fu accolta con favore sia dalla plebe sia dai cavalieri, che avrebbero guadagnato dalla fornitura alla repubblica delle armi per i legionari. La riforma di Mario ebbe due conseguenze importantissime: in primo luogo, l'esercito romano cessò di essere composto da cittadini che combattevano per la propria patria e divenne un esercito di professionisti che si arruolavano per la paga e il bottino. In secondo luogo, dato che la vittoria in guerra e quindi l'eventuale bottino dipendevano dalle doti militari del generale, i soldati iniziarono a essere più fedeli ai loro comandanti che alla repubblica: in questo modo, l'esercito si trasformò in un'arma che i generali potevano utilizzare per perseguire i propri obiettivi personali.

Mario e Silla: la lotta per il potere

Mario e Silla si contendono il potere Nell'89 a.C. Mitridate, re del Ponto, attaccò la provincia romana dell'Asia, facendo strage dei cittadini romani che vi risiedevano. Nel frattempo, a Roma, la guerra sociale e la concessione della cittadinanza agli Italici avevano indebolito i popolari: così, quando l'anno successivo fu deciso di inviare una spedizione contro Mitridate, il Senato ne affidò il comando a Silla, il luogotenente di Mario che si era distinto sia nel corso della guerra contro Giugurta sia nella guerra sociale. Di origini aristocratiche, Silla apparteneva alla fazione degli ottimati ed era inviso ai cavalieri e alla plebe, i popolari riuscirono a ottenere dai comizi tributi che il comando dell'esercito gli fosse revocato e che fosse assegnato a Mario. Si trattava di una decisione illegale solo il Senato aveva il potere di affidare o togliere il comando a un generale che mostrava chiaramente come le due fazioni considerassero ormai le cariche pubbliche un bottino da spartirsi. Silla si trovava a Nola, in attesa di imbarcarsi per l'Oriente. Quando seppe della sua destituzione prese una decisione clamorosa: si rifiutò di obbedire e ordinò alle sue truppe di marciare contro Roma (88 a.C.). I suoi soldati, spinti dal timore di perdere il ricco bottino che poteva derivare dalla campagna militare in Asia, obbedirono e accettarono di mettere le proprie armi al servizio dei disegni politici del proprio generale. I capi dei popolari, lo stesso Mario, si diedero alla fuga: quelli rimasti furono uccisi dai soldati di Silla. La decisione di Silla di marciare su Roma segnò l'inizio della prima guerra civile (88-82 a.C.) e di un lungo periodo nel quale le legioni romane si sarebbero affrontate tra di loro in lotte fratricide che avrebbero seminato lutti e devastazioni in tutta Italia e che si sarebbe concluso solo con la fine della repubblica.

Le guerre mitridatiche e la dittatura di Silla

Le guerre mitridatiche Dopo aver assunto il controllo della capitale, Silla partì per l'Asia per affrontare Mitridate. La prima guerra mitridatica (89-85 a.C.) si concluse con la vittoria romana e un trattato di pace che obbligava Mitridate ad abbandonare i territori occupati. Le miti condizioni del trattato si spiegano con l'urgenza da parte di Silla di rientrare in Italia: i popolari approfittarono della sua assenza per rientrare a Roma e uccidere i rappresentanti degli ottimati che non erano riusciti a fuggire. La vittoria di Silla Nell'83 a.C. Silla lasciò due legioni a un suo luogotenente che proseguì le ostilità contro Mitridate (seconda guerra mitridatica, 83-81 a.C.) e fece ritorno in Italia con il suo esercito. Alla notizia dell'arrivo di Silla i popolari (senza Mario, morto nell'86 a.C) si prepararono allo scontro uccidendo chi era solo accusato di parteggiare per gli ottimati. Dopo vari scontri che insanguinarono l'intera Italia, la battaglia decisiva si svolse nell'82 a.C. a Porta Collina e si concluse con la vittoria di Silla. 4 LA DITTATURA DI SILLA Con le liste di proscrizione Silla elimina gli avversari Grazie alla vittoria di Porta Collina Silla era il padrone di Roma. Sulla città calò un clima di terrore. Infatti, stilò delle liste di proscrizione: tutti coloro i cui nomi comparivano in queste liste potevano essere uccisi impunemente e i loro beni sarebbero stati confiscati. I proscritti, tutti appartenenti al ceto dei cavalieri o dei senatori, non avevano praticamente nessuna possibilità di scampare alla morte: a chi avesse ucciso uno di loro era infatti garantita non solo l'impunità ma anche una considerevole ricompensa in denaro. Se un proscritto fosse stato ucciso da un suo schiavo, quest'ultimo avrebbe ricevuto immediatamente la libertà. Infine, chiunque avesse dato aiuto o ospitalità a un proscritto sarebbe automaticamente incorso anch'egli nella condanna a morte. Nei mesi successivi furono condannati a morte più di 1600 cavalieri e varie decine di senatori che si erano schierati con i popolari. Le loro proprietà furono acquistate spesso per pochi denari dai partigiani di Silla, che poterono così accumulare in poco tempo fortune spropositate. Una parte delle terre confiscate fu assegnata ai soldati fedeli a Silla.

Le riforme di Silla e la crisi repubblicana

Le riforme di Silla mirano a restituire centralità al Senato Silla diede forma legale al proprio potere facendosi eleggere dittatore a vita: ottenne la nomina di «dittatore con l'incarico di redigere leggi e riorganizzare lo Stato», un'intitolazione che rivela come il suo scopo fosse riformare le istituzioni romane con il duplice obiettivo di restituire al Senato il controllo della vita politica e di porre fine alle lotte per il potere. In primo luogo, Silla aumentò il numero dei senatori da 300 a 600, facendo entrare in Senato persone a lui fedeli. Quindi, rafforzò il ruolo del Senato, restituendogli il controllo dei tribunali e stabilendo che tutte le leggi, prima di essere votate nelle assemblee, dovessero essere approvate dal Senato. Allo stesso tempo, Silla indebolì il tribunato della plebe, limitando il diritto di veto e la possibilità per i tribuni di proporre nuove leggi. A ciò si aggiunse il divieto, per chi aveva ricoperto la carica di tribuno della plebe, di candidarsi alle magistrature maggiori, consolato compreso. In questo modo il tribunato, che negli anni precedenti era stato impiegato dagli esponenti dei popolari come lo strumento attraverso cui lanciare la propria carriera politica e intercettare il favore della plebe, perse ogni importanza e smise di essere una carica ambita. Furono inoltre abolite anche le leggi frumentarie, ossia lo strumento che i popolari avevano utilizzato per legare a sé la plebe di Roma: una decisione scarsamente realizzabile, visto che molti abitanti di Roma ormai vivevano delle elargizioni di cibo da parte dello Stato. Per impedire lo scoppio di nuove lotte per il potere, Silla stabili per legge un rigido cursus honorum, in base al quale i nuovi consoli dovevano avere almeno 42 anni e aver ricoperto in precedenza tutte le cariche minori. Infine, per evitare il ripetersi delle guerre civili, emanò un provvedimento che estendeva sino al Rubicone l'area sacra del pomerio, entro la quale era vietato condurre i soldati in armi. Le riforme di Silla non mettono fine alla crisi della repubblica Nel 79 a.C., convinto che le riforme da lui realizzate avrebbero garantito a Roma pace e tranquillità e al ceto senatorio il controllo della vita politica, Silla si ritirò a vita privata a Cuma, dove morì l'anno successivo. In realtà le cose andarono in maniera ben diversa. Malgrado la sua solidità, l'architettura istituzionale creata da Silla ebbe vita breve e venne smantellata negli anni immediatamente successivi alla morte del dittatore. Silla, infatti, si era illuso di aver salvato la repubblica, ma le sue riforme non potevano fermare da sole la degenerazione della vita politica romana in quanto non erano andate a toccare le cause che l'avevano generata, ossia la sparizione della piccola proprietà contadina, la nascita della plebe urbana e la crescente corruzione. Le stesse istituzioni romane, con il principio della non reiterabilità delle cariche, erano state modellate a tale scopo. L'ascesa di Mario prima e di Silla poi avevano di fatto rotto questo tabù: non solo gli eserciti erano ormai pronti a schierarsi coi propri generali anche contro la repubblica, ma la concentrazione del potere nelle mani di un singolo individuo appariva ora un'eventualità possibile. Così, negli anni successivi alla morte di Silla, le lotte per il potere ripresero più accanite di prima e la repubblica si incamminò verso la sua ultima inevitabile crisi.

L'ascesa di Pompeo e Crasso

5 L’ASCESA DI POMPEO E CRASSO Le rivolte di Sertorio e di Spartaco Negli anni successivi alla morte di Silla la repubblica fu chiamata a fronteggiare due nuovi pericoli. Nel 77 a.C. Quinto Sertorio, un ex luogotenente di Mario, si mise alla testa di una sollevazione contro Roma scoppiata in Spagna. Gli insorti proclamarono l'indipendenza e per ben cinque anni riuscirono a resistere all'attacco delle legioni inviate dal Senato, fino a che, morto Sertorio (72 a.C). un esercito guidato dal generale Gneo Pompeo non riportò la situazione alla normalità. Mentre ancora proseguiva la rivolta spagnola, in Italia scoppiò la più grande insurrezione di schiavi che si fosse mai vista. La rivolta iniziò nel 73 a.C., quando gli schiavi che frequentavano una scuola di addestramento per gladiatori a Capua si ribellarono agli ordini di Spartaco, un gladiatore originario della Tracia. A loro si unirono in breve tempo molti schiavi e contadini poveri, tanto che l'esercito di Spartaco giunse a contare 150000 uomini. Inizialmente i rivoltosi si diressero verso Nord: probabilmente lo scopo di Spartaco era quello di varcare le Alpi, lasciare l'Italia e tornare nel suo paese natio.

A un certo punto, però, per ragioni mai ben chiarite, l'esercito dei rivoltosi si diresse verso Sud e prese a saccheggiare le campagne italiane. Per due anni Spartaco e i suoi uomini tennero in scacco l'esercito romano. Per reprimere la rivolta, il Senato fu costretto a inviare ben dieci legioni. Nella battaglia decisiva, combattuta nel 71 a.C. contro le forze romane guidate dal generale Marco Licinio Crasso, trovarono la morte più di 60000 schiavi, tra cui lo stesso Spartaco. I rivoltosi superstiti si dispersero ma circa 6000 di loro furono catturati vivi e, come monito verso future ribellioni, furono crocifissi lungo la strada che portava a Roma.

Pompeo e Crasso: alleati e avversari

Pompeo e Crasso alleati ma avversari Pompeo e Crasso erano i nuovi uomini forti sulla scena politica romana: entrambi erano carichi di gloria per le vittorie militari e potevano contare su un esercito fedele ai loro comandi. Così, quando nel 70 a.C. si candidarono al consolato, il Senato non poté opporsi alla loro elezione. Malgrado fossero stati entrambi seguaci di Silla, Pompeo e Crasso erano molto diversi tra loro nonché avversari. Pompeo era un brillante generale che proveniva da un'illustre famiglia di proprietari terrieri e godeva del favore dell'aristocrazia senatoria. Crasso, invece, apparteneva al ceto dei cavalieri e si diceva fosse l'uomo più ricco di Roma in quanto, ai tempi delle liste di proscrizione di Silla, si era arricchito impadronendosi dei beni confiscati ai popolari.

Le vittorie di Pompeo e la congiura di Catilina

Le vittorie contro i pirati e in Oriente accrescono il prestigio di Pompeo Una volta terminato il consolato, Pompeo ricevette l'incarico di guidare una spedizione contro i pirati che infestavano l'Adriatico e il mar Egeo e mettevano in pericolo i rifornimenti di grano diretti a Roma, rischiando in tal modo di causare una carestia e una rivolta della plebe. In pochi mesi, grazie a una poderosa flotta di ben 500 navi, Pompeo sbaragliò i pirati e ripristinò la sicurezza dei commerci per mare (67 a.C.). In seguito a questo successo, venne inviato in Oriente, dove il re del Ponto Mitridate aveva ripreso la guerra contro Roma (terza guerra mitridatica, 7563 a.C.). Dapprima Pompeo sconfisse Mitridate, che si suicidò per non cadere prigioniero dei Romani; successivamente, senza chiedere l'autorizzazione del Senato, conquistò prima la Bitinia e la Cilicia e quindi la Siria e la Palestina. Ultimate le conquiste, Pompeo si occupò dell'organizzazione della regione: la Siria divenne una provincia romana, mentre gli altri territori furono accorpati alle province già esistenti. La Palestina divenne il regno di Giudea, sul cui trono Pompeo pose un sovrano fedele a Roma. Inoltre Pompeo stipulò degli accordi di pace con i sovrani dei regni circostanti.

Le decisioni prese consolidavano il dominio di Roma in Oriente ma violavano le prerogative del Senato, al quale spettava la conduzione della politica estera e la definizione dei trattati di alleanza. Pompeo era comunque sicuro che il Senato avrebbe ratificato le sue decisioni. La congiura di Catilina mostra la fragilità delle istituzioni Nel frattempo a Roma un esponente dei popolari, Catilina, che negli anni precedenti aveva inutilmente cercato di farsi eleggere console, organizzò una congiura per uccidere i consoli, rovesciare la repubblica e assumere il potere. Per questo scopo Catilina aveva iniziato a radunare in Etruria un esercito composto dagli oppositori di Silla. Il complotto fu sventato dal console in carica quell'anno, Marco Tullio Cicerone, che denunciò di fronte al Senato il piano di Catilina. Cicerone fece arrestare molti congiurati e li fece mettere a morte senza il processo a cui, in quanto cittadini romani, avrebbero avuto 6 diritto. Vistosi scoperto, Catilina raggiunse le sue truppe in Toscana e cercò egualmente di far scoppiare la rivolta, ma fu sconfitto e ucciso in battaglia nel 62 a.C. La congiura di Catilina portò alla ribalta la figura di Cicerone, uno dei più grandi oratori della storia e uno dei principali protagonisti delle ultime fasi della repubblica. Cicerone era un cavaliere, originario di Arpino, un centro del Lazio meridionale dove era nato nel 106 a.C. In gioventù aveva partecipato alla guerra sociale ma ben presto aveva abbandonato la carriera militare per dedicarsi all'attività forense. A Roma si era fatto notare sia per le sue capacità oratorie, sia per il suo ruolo in alcuni importanti processi, a iniziare da quello contro l'ex governatore della Sicilia Verre. Malgrado fosse un cavaliere - e quindi un uomo nuovo - la sua opposizione a Catilina lo spinse verso il partito degli ottimati tanto che, negli ultimi anni di vita della repubblica, fu il più strenuo difensore del ruolo del Senato e dei valori tradizionali. Per quanto nobili, le sue posizioni erano anacronistiche: proprio la congiura di Catilina da lui scoperta dimostrava come la crisi delle istituzioni repubblicane fosse ormai irreversibile. I contrasti tra Pompeo e il Senato Nel 62 a.C. Pompeo fece ritorno in Italia dall'Oriente con il suo esercito: a Roma molti temevano che avrebbe usato i soldati per attaccare la città e prendere il potere. Invece, una volta sbarcato in Italia, Pompeo sciolse l'esercito, così come prevedeva la legge, e chiese al Senato due sole cose: che fossero ratificati i trattati da lui firmati in Oriente per conto di Roma e che ognuno dei suoi soldati, come era uso alla fine di una campagna militare, ricevesse un appezzamento di terre dell'agro pubblico. I senatori, timorosi della popolarità di Pompeo, respinsero le sue richieste. Si trattò di un errore gravissimo, in quanto la decisione spinse Pompeo, che sino ad allora era rimasto fedele al Senato, ad avvicinarsi al suo avversario Crasso. L'alleanza tra Crasso e Pompeo fu favorita dalla mediazione di un giovane politico appartenente alla fazione dei popolari, Gaio Giulio Cesare.

Cesare e il primo triumvirato

CESARE E IL PRIMO TRIUMVIRATO Cesare e la gens Giulia Gaio Giulio Cesare proveniva dalla gens Giulia, una delle più antiche famiglie di Roma che, secondo la tradizione, discendeva direttamente da Ascanio, figlio di Enea e della dea Venere. Negli scontri che avevano funestato Roma all'inizio del I secolo a.C. la gens Giulia si era schierata con i popolari: zia sposata con Mario. Per questa ragione, dopo il ritorno di Silla in Italia e la battaglia di Porta che segnò la vittoria degli ottimati, Cesare rischiò di finire nelle liste di proscrizione emanate dal dittatore. A salvarlo furono solo la sua giovane età (19 anni) e l'intercessione dei parenti materni che appartenevano a una famiglia schierata con gli ottimati e che ottennero per lui da Silla un salvacondotto che gli garantiva salva la vita.

Cesare, per sicurezza, lasciò comunque l'Italia e si recò in Oriente, dove partecipò ad alcune campagne militari. Fece ritorno a Roma solo dopo la morte di Silla, quando il mutato clima politico gli permise di intraprendere la carriera politica. Al momento del ritorno di Pompeo in Italia, Cesare aveva già ricoperto la pretura e le altre magistrature previste dal cursus honorum: per coronare la propria carriera politica gli mancava solo il consolato. Era oberato dai debiti contratti durante le campagne elettorali e sebbene avesse preso parte ad alcune campagne militari, non aveva mai guidato un esercito: non sarebbe mai riuscito a farsi eleggere console. Cesare era un ottimo politico e negli anni precedenti si era guadagnato l'appoggio della plebe con alcune proposte di legge alleviare la povertà società bassa Cesare, Pompeo e Crasso stringono il primo triumvirato Nel 60 a.C. Pompeo, Crasso e Cesare si incontrarono a Lucca e diedero vita al primo triumvirato un'alleanza segreta per spartirsi il potere. Ognuno dei tre contraenti portava qualcosa all'alleanza: Crasso le ricchezze e l'appoggio dei cavalieri; Pompeo quello dell'esercito; Cesare, era il più debole dei tre, i voti della plebe, indispensabili per far approvare le proposte dei triumviri. La notizia dell'alleanza fu tenuta segreta: furono solo gli avvenimenti dei mesi seguenti a rendere palese l'esistenza di un patto tra tre dei personaggi più in vista a Roma. I motivi della segretezza sono facilmente intuibili: l'accordo stretto tra Cesare, Pompeo e Crasso era rivolto contro il Senato e contro il partito degli ottimati. Soprattutto, l'alleanza costituiva un grave tradimento delle istituzioni repubblicane, in quanto prevedeva la conquista del potere da parte di tre persone che lo avrebbero esercitato in modo personale, perseguendo cioè i propri interessi e il proprio tornaconto politico. Cesare ottiene il consolato Tornati a Roma, i triumviri assunsero il controllo della città. Il Senato non poté far altro che approvare tutte le proposte di legge che presentarono. Pompeo vide ratificate le decisioni prese in Oriente e ottenne l'assegnazione delle terre per i suoi veterani, mentre Crasso fece introdurre nuove norme pensate per favorire gli interessi economici dei cavalieri. Cesare, a cui Crasso ripianò i numerosi debiti, fu eletto console per l'anno 59 a.C. I triumviri ottennero inoltre che Cicerone, il principale difensore delle istituzioni repubblicane, fosse esiliato con l'accusa di aver fatto giustiziare i complici di Catilina senza sottoporli a un regolare processo.

Le campagne militari di Cesare

LE CAMPAGNE MILITARI DI CESARE Cesare si fa nominare proconsole in Gallia.

Alla fine del suo consolato, Cesare avrebbe avuto diritto al proconsolato di una delle province. Solitamente i consoli sceglievano di essere mandati in una ricca provincia dell'Oriente, dove avrebbero potuto arricchirsi con la corruzione; invece, Cesare fece votare dalla plebe una legge che gli assegnava il proconsolato delle province della Gallia Cisalpina e della Gallia Narbonense, due zone non particolarmente ricche e che corrispondevano rispettivamente all'Italia settentrionale e alla Francia meridionale. Assieme al proconsolato Cesare ottenne anche il comando di ben quattro legioni. La scelta di Cesare di assumere il controllo di queste due province pareva a prima vista incomprensibile, ma dimostrava una profonda scaltrezza politica. Cesare sapeva che la sua maggiore debolezza consisteva nel non aver mai comandato un esercito e, nell’essere privo sia del prestigio che derivava dalle vittorie militari. All'epoca, la Gallia Cisalpina era periodicamente sottoposta alle incursioni di Galli e Germani che risiedevano oltre le Alpi: per metterla in sicurezza era necessaria una campagna militare contro di essi. A spingere Cesare a farsi affidare l'Italia settentrionale fu proprio la possibilità di organizzare questa spedizione e di ricavare da essa sia il prestigio che ancora gli mancava, sia le ricchezze necessarie a proseguire la scalata verso il potere.

La conquista della Gallia e il ritorno di Cesare

Cesare conquista la Gallia L'occasione propizia si presentò nel 58 a.C. quando gli Elvezi, una popolazione celtica stanziata nell'attuale Svizzera, attaccarono alcune tribù alleate dei Romani. Senza attendere l'autorizzazione del Senato, Cesare li affrontò e li sconfisse. Quindi, con la scusa di difendere i Galli alleati di Roma dai continui attacchi dei Germani, avviò una vera e propria campagna di conquista della Gallia (l'attuale Francia). Si diresse con le sue legioni verso Nord e ricacciò i Germani oltre il fiume Reno, quindi puntò verso l'attuale Normandia, annientando via via i Sequani, i Belgi e le altre tribù che incontrò lungo il proprio cammino. Con queste vittorie, Cesare riuscì a sottomettere l'intera Gallia e portò i confini di Roma fino alle sponde dell'Oceano Atlantico. Il triumvirato viene rinnovato Nel 56 a.C. Cesare tornò in Italia e si incontrò con Pompeo e Crasso. L'alleanza tra i triumviri iniziava a scricchiolare a causa dei reciproci sospetti e del mutamento dei rapporti di forza tra i tre: Cesare, inizialmente il più debole, era ora un generale vittorioso con un seguito di soldati fedeli e osannato dalla plebe per le sue vittorie. Pompeo, allarmato dalla crescente popolarità di Cesare, si era avvicinato al Senato e aveva accettato il rientro a Roma di Cicerone. Il patto di triumvirato fu rinnovato: nessuno dei triumviri aveva ragione di rompere un'alleanza dalla quale poteva ancora trarre profitto. In base al nuovo accordo, Cesare ottenne il prolungamento del suo proconsolato in Gallia per altri cinque anni. Si stabilì inoltre che Pompeo e Crasso sarebbero stati eletti consoli per l'anno successivo, dopo di che il primo avrebbe avuto il governo della Spagna, mentre il secondo avrebbe guidato una spedizione contro il regno orientale dei Parti.

Crasso era un generale mediocre e la spedizione si concluse in modo tragico, ossia con la distruzione delle legioni che gli erano state affidate e la morte in battaglia dello stesso 8 Cesare in Britannia Una volta rientrato in Gallia, Cesare riprese le operazioni militari contro i Galli che ancora si opponevano alle legioni romane e che ricevevano rinforzi dalla Britannia. Per far cessare il flusso di questi rinforzi, Cesare nel 55 a.C. attraversò il canale della Manica, sbarcò in Britannia e si scontrò con le popolazioni locali, sconfiggendole. Contrariamente a quanto si crede, Cesare non conquistò la Britannia: quando fece ritorno in Gallia, non vi lasciò infatti né soldati, né accampamenti. La spedizione diede comunque ai Romani una prima conoscenza della Britannia e servì a porre le basi per la sua successiva conquista, che avvenne un secolo più tardi durante il regno dell'imperatore Claudio. Cesare doma la rivolta di Vercingetorige Al suo rientro in Gallia, Cesare dovette affrontare una nuova insurrezione delle tribù galliche, guidate dal re degli Arverni Vercingetorige. Mostrando un notevole acume tattico, Vercingetorige riuscì a tenere testa per lungo tempo alle legioni romane. La ribellione fu sedata solo nel 52 a.C., quando Cesare, malgrado l'inferiorità numerica del suo esercito, cinse d'assedio e conquistò la città fortificata di Alesia. Vercingetorige fu catturato, portato a Roma e giustiziato, mentre i territori conquistati entrarono a far parte dei domini di Roma formando tre nuove province. Per reprimere la rivolta Cesare non aveva esitato a sterminare interi villaggi, donne e bambini compresi: furono uccisi più di un milione di Galli. Le stragi a cui si abbandonarono i legionari destarono scandalo anche a Roma, ma Cesare rispose alle critiche appellandosi alla necessità di riportare la pace nella regione. Pompeo si allea con il Senato Nei sette anni trascorsi in Gallia Cesare aveva dimostrato di essere un ottimo generale e aveva ottenuto gli obiettivi che si era prefisso facendosi assegnare il proconsolato: prestigio personale, ricchezze sufficienti a intraprendere la scalata al potere e un esercito temprato da anni di battaglie e fedele al suo comandante. Forte di questi successi, nel 49 a.C. Cesare si preparò a tornare a Roma per farsi eleggere console. La situazione politica a Roma però era mutata. Crasso era morto in Oriente combattendo contro i Parti e il Senato e Pompeo spaventati dalla crescente popolarità di Cesare si erano alleati: Pompeo, che era stato nominato governatore della Spagna, aveva infatti ricevuto dal Senato il permesso di restare a Roma e di governare la Spagna per mezzo di rappresentanti. Inoltre, nel 52 a.C. era stato eletto console "senza collega". Si trattava di due misure non rituali, segno inequivocabile della crisi delle istituzioni e dell'accresciuto potere di Pompeo.

Il passaggio del Rubicone e la guerra civile

Il passaggio del Rubicone segna l'inizio della guerra Nel 49 a.C., l'anno in cui terminava il proconsolato di Cesare, il Senato approvò una legge che rendeva impossibile la sua candidatura a console e gli intimava di sciogliere l'esercito.

I senatori contavano sul fatto che Cesare, che in quel momento aveva con sé una sola legione, non avrebbe avuto altra scelta che obbedire. Invece Cesare scelse di marciare su Roma e con i suoi soldati varcò il Rubicone, il fiume presso cui passava il pomerio e oltre il quale era vietato portare l'esercito. Era l'inizio della seconda guerra civile. L'iniziativa di Cesare colse di sorpresa Pompeo che, non essendo pronto alla guerra, preferì lasciare Roma e rifugiarsi in Grecia, dove poteva contare su legioni a lui fedeli. Cesare, invece di inseguirlo, si spostò in Spagna, la provincia che il suo rivale aveva governato per molti anni e dove contava ancora molti sostenitori. Quella di Cesare fu una mossa geniale: attaccando i pompeiani di Spagna, evitò il rischio di essere preso tra due fuochi e distrusse gran parte delle forze su cui Pompeo poteva contare. A questo punto Cesare si preparò ad affrontare direttamente il suo avversario. Lo scontro decisivo si svolse nel 48 a.C. a Farsalo, in Grecia, e si concluse con la vittoria di Cesare. La morte di Pompeo e la conquista dell'Egitto Pompeo cercò rifugio in Egitto, dove il trono era conteso tra il faraone Tolomeo XIII un ragazzo di tredici anni e sua sorella, la ventenne Cleopatra. Tolomeo accolse amichevolmente Pompeo ma poi lo fece assassinare nella speranza di ingraziarsi i favori di Cesare e ottenere il suo appoggio nella lotta che lo opponeva alla sorella. Cesare vide nei contrasti tra i due fratelli il modo per portare l'Egitto entro la sfera di influenza di Roma e quindi dichiarò che non poteva lasciare impunito l'omicidio di un senatore romano. Dopo di che, col pretesto di vendicare la morte di Pompeo, attaccò l'Egitto, detronizzò Tolomeo e fece incoronare faraone Cleopatra. A spingere Cesare a schierarsi contro Tolomeo vi era anche il fatto che il faraone aveva ucciso a tradimento un senatore romano: se Cesare avesse lasciato impunito questo crimine, avrebbe rischiato di attirare ulteriormente verso di sé l'odio dei senatori. Al contrario, punendo Tolomeo per la morte di Pompeo, Cesare rendeva onore a quello che era stato il suo più grande avversario e dimostrava così la propria grandezza d'animo. Tra Cesare e Cleopatra vi fu una breve relazione, da cui nacque un figlio, Cesarione.

Secondo alcuni storici Cesare si innamorò di Cleopatra ma in realtà la loro unione fu dettata soprattutto da motivi politici: Cleopatra aveva bisogno della protezione dei Romani per mantenere il trono; Cesare aveva bisogno dell'Egitto e dei suoi ricchi raccolti per garantire a Roma il rifornimento di grano a basso prezzo e mantenere così il favore della plebe. Negli anni successivi Cesare sconfisse i pompeiani prima a Tapso, in Tunisia, quindi a Munda in Spagna. Con quest'ultima battaglia ebbe fine la seconda guerra civile: Cesare era ormai padrone di Roma.

Cesare dittatore e le sue riforme

Cesare non si fa incoronare re. Gli eventi dimostrano che la crisi della repubblica era ormai completa: le istituzioni nate per governare una piccola città-Stato si erano rivelate inadatte a reggere una città che superava il milione di abitanti e che era divenuta la capitale di un impero esteso dall'Atlantico al Mar Nero, dalle foreste della Gallia sino ai deserti della Libia. Cesare era consapevole di come Roma si avviasse a diventare una monarchia, ma sapeva altrettanto bene quanto i Romani fossero legati alla loro identità di cittadini, garantita dalle tradizioni repubblicane. Pertanto, non decretò la fine della repubblica facendosi incoronare re di Roma, ma governò accumulando su di sé le cariche previste dall'ordinamento repubblicano. , ma si fa nominare dittatore a vita In primo luogo, si fece nominare dittatore a vita, quindi ricoprì il consolato per più anni consecutivi e si fece attribuire il diritto di veto sulle leggi proprio dei tribuni della plebe: in questo modo si assicurava il potere di bloccare qualsiasi legge non fosse di suo gradimento. Gli fu poi attribuita la facoltà di dichiarare guerra e di firmare trattati di pace senza dover chiedere l'autorizzazione del Senato. Inoltre aveva diritto di proporre propri candidati per gli incarichi pubblici, cosa che, nella pratica, equivaleva al diritto di nominare i magistrati. Infine, a Cesare furono riconosciuti i titoli di padre della patria e di imperator, ossia di detentore dell'imperium, il comando militare sulle legioni. Per rafforzare il proprio controllo sullo Stato, Cesare aumentò il numero dei senatori da 600 a 900, facendo entrare in Senato uomini a lui fedeli, molti dei quali provenienti da famiglie originarie delle province: in questo modo contava di rafforzare anche i legami tra Roma e le classi dirigenti delle città che facevano parte del suo dominio. Sebbene la repubblica fosse rimasta formalmente in vita, Cesare era di fatto il padrone di Roma: la conduzione della politica estera, la nomina dei magistrati e l'emanazione di nuove leggi erano state sottratte al Senato e ai comizi e affidate a lui solo. Così come Silla, anche Cesare aveva scelto la dittatura a vita come lo strumento attraverso il quale controllare le istituzioni repubblicane, ma, a differenza di Silla, che conquistato il potere aveva eliminato ogni possibile opposizione attraverso l'impiego delle liste di proscrizione, Cesare si sforzò di riportare la pace tra le fazioni politiche e di porre fine ai contrasti che a lungo avevano insanguinato Roma. Favorì così il ritorno in città dei suoi oppositori e a molti di loro affidò importanti incarichi di governo. Le riforme di Cesare Cesare governò Roma per appena cinque anni, dal 49 a.C. alla metà di marzo del 44 a.C.: un periodo relativamente breve e in gran parte trascorso all'estero a guerreggiare contro i seguaci di Pompeo. In questi cinque anni riuscì tuttavia a emanare alcuni importanti provvedimenti.

Molti interventi furono motivati da esigenze di giustizia sociale: per esempio, ridusse gli abusi dei proconsoli nelle province e concesse la cittadinanza romana agli abitanti della Gallia Cisalpina, ossia della Pianura Padana. In questo modo la cittadinanza romana veniva estesa all'intera Penisola italiana. Cesare intervenne anche a favore della plebe di Roma: aiutò i debitori in difficoltà, avviò lavori pubblici per dare un impiego ai disoccupati e organizzò in maniera più razionale le distribuzioni gratuite di grano. Tra i più importanti lavori avviati da Cesare vi fu l'ampliamento del foro romano con l'erezione del cosiddetto foro di Cesare, un nuovo complesso monumentale un'enorme piazza porticata di 100 metri per 50 su cui si affacciavano un tempio e una basilica che doveva celebrare il nuovo signore di Roma. Il controllo che Cesare esercitava sulla vita politica romana si caratterizzava sempre più come un potere di tipo monarchico e di origine sacra. Cesare ottenne infatti anche la carica di pontefice massimo - il primo sacerdote di Roma e nei templi, accanto alle statue dedicate alle divinità, ne furono poste altre che lo raffiguravano. A lui fu poi 10 dedicato il quinto mese del calendario romano, che prese il nome di lulius, da cui l'italiano luglio.

La congiura delle idi di marzo

La congiura delle idi di marzo Nel 44 a.C. il timore che Cesare trasformasse Roma in una monarchia spinse un gruppo di senatori a ordire una congiura contro di lui. I promotori del complotto furono due senatori vicini a Cesare e che godevano della sua fiducia: Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino. Entrambi avevano ricevuto da lui importanti incarichi e il primo, un ex pompeiano, era stato addirittura adottato da Cesare. I congiurati decisero di uccidere Cesare il 15 marzo al momento del suo arrivo in Senato. Secondo la tradizione, Cesare fu avvertito del complotto ma sottovaluto il pericolo e si recò ugualmente in Senato, dove trovò ad attenderlo una ventina di congiurati. Sempre secondo la tradizione, prima di cadere sotto le ventitré pugnalate

La plebe e l'eredità di Cesare

La plebe resta fedele a Cesare I congiurati - o cesaricidi, come furono poi chiamati intendevano ripristinare la repubblica: erano persuasi da un lato che l'eliminazione di Cesare avrebbe restituito al Senato il governo di Roma e, dall'altro, che la plebe e l'esercito avrebbero approvato la morte di quello che loro consideravano un tiranno. I giorni successivi all'assassinio di Cesare dimostrarono quanto questi calcoli fossero sbagliati. Infatti, mentre il Senato riconobbe ai congiurati l'impunità, la plebe e l'esercito restarono fedeli al ricordo di Cesare e si riunirono attorno alla figura di Marco Antonio, uno dei più importanti generali di Cesare e allora console in carica. Il 18 marzo Antonio aprì il testamento di Cesare di fronte al popolo romano: in assenza di eredi diretti (Cesare non aveva figli) tutti si aspettavano che Cesare avesse lasciato le proprie enormi ricchezze ad Antonio. Invece, contro ogni aspettativa, col suo testamento Cesare adottò e nominò proprio erede Ottaviano, il figlio di una sua nipote: un ragazzo che non aveva neanche vent'anni e che in quel momento si trovava lontano da Roma. Inoltre dispose un lascito di 300 sesterzi a ogni soldato e a ogni membro della plebe. Alla lettura del testamento la plebe, che Cesare aveva sempre protetto e che si vedeva ricompensata dal lascito di 300 sesterzi, chiese che i congiurati fossero arrestati e condannati: Bruto e Cassio furono costretti a fuggire da Roma, mentre le loro case venivano date alle fiamme.

La rapida ascesa di Ottaviano

La rapida ascesa di Ottaviano Alla fine di aprile Ottaviano giunse a Roma, entrò in possesso dell'eredità e distribuì alla cittadinanza e ai soldati le donazioni previste dal testamento di Cesare, guadagnandosi così il favore del popolo. Dichiarò inoltre di voler vendicare la morte del prozio e arruolò allo scopo un proprio esercito.

Nel frattempo i rapporti tra Antonio e il Senato si erano definitivamente incrinati. Antonio aveva chiesto di essere nominato proconsole della Gallia Cisalpina, che precedentemente era stata assegnata al cesaricida Bruto. Quando il Senato, guidato da Cicerone, gli oppose un netto rifiuto, Antonio marciò su Roma con le sue truppe per tentare di imporre la propria nomina. Ad Antonio si contrapposero sia l'esercito dei due consoli sia i soldati reclutati da Ottaviano. La battaglia tra i due schieramenti si svolse presso Modena e si concluse con la sconfitta di Antonio (43 a.C.). Fino a questo momento il Senato, vista la giovane età e l'inesperienza di Ottaviano, aveva pensato di poterlo manovrare con facilità, ma il giovane dimostrò un' intraprendenza e un intuito politico insospettabili. Dapprima chiese l'autorizzazione a essere eletto console anche se non aveva l'età prevista dal cursus honorum; quindi, quando il Senato gli oppose un netto rifiuto, occupò Roma con le proprie truppe e si fece eleggere console dai comizi.

Il secondo triumvirato e le liste di proscrizione

Antonio, Ottaviano e Lepido formano il secondo triumvirato Dimostrando ancora una volta una notevole intelligenza politica, Ottaviano non forzò la mano: si rendeva infatti conto di non essere ancora in grado di assumere il controllo di Roma. Restava inoltre aperta la questione degli uccisori di Cesare: Ottaviano, in qualità di console, li aveva condannati a morte, ma Bruto e Cassio erano fuggiti in Oriente dove, assieme ai senatori rimasti fedeli alla repubblica, stavano radunando un esercito. Ottaviano cercò quindi un accordo con Antonio - sebbene i due fossero divisi da odio reciproco - e con Lepido, un altro dei luogotenenti di Cesare. Nell'autunno del 43 a.C., Antonio, Ottaviano e Lepido diedero così vita al secondo triumvirato. A differenza del primo triumvirato, che era stato un accordo 11 privato tra Cesare, Pompeo e Crasso, questa volta l'alleanza fu approvata dai comizi con una legge apposita e trasformata in una magistratura: Antonio, Ottaviano e Lepido furono infatti nominati "triumviri per la costituzione della Repubblica con potere consolare".

Per l'ennesima volta le istituzioni repubblicane venivano annullate e il potere affidato al vincitore delle lotte che stavano dilaniando Roma. I triumviri emanarono nuove liste di proscrizione con lo scopo sia di eliminare gli avversari politici, sia di impossessarsi dei beni dei cittadini più facoltosi di Roma. Le vittime, tra cavalieri e senatori, furono quasi tremila: fra loro, per espressa volontà di Antonio, ci fu anche Cicerone, che pagava così la sua opposizione ad Antonio.

I contrasti tra Antonio e Ottaviano

Dopo la sconfitta dei cesaricidi emergono contrasti tra Antonio e Ottaviano Una volta assunto saldamente il controllo di Roma, Antonio e Ottaviano si prepararono a regolare definitivamente i conti con i cesaricidi. Iniziò così la terza guerra civile (44-31 a.C.). Nel 42 a.C. Antonio e Ottaviano affrontarono e sconfissero nella battaglia di Filippi, in Grecia, le truppe di Cassio e Bruto, i quali, piuttosto che cadere prigionieri, preferirono suicidarsi. Con la loro morte tramontò del tutto ogni ipotesi repubblicana: era ormai evidente che la lotta per il potere riguardava soltanto Ottaviano e Antonio. Gli accordi del triumvirato avevano previsto una divisione delle province: Ottaviano aveva ottenuto il governo dell'Italia e dell'Occidente, Lepido quello dell'Africa e Antonio dell'Oriente. I rapporti tra Antonio e Ottaviano erano però compromessi: nel 41-40 a.C. il fratello e la moglie di Antonio si misero a capo di una rivolta contro Ottaviano scoppiata nell'Italia centrale, la cosiddetta guerra di Perugia. Antonio evitò di intervenire per non aggravare i rapporti con il suo avversario e la rivolta fu facilmente repressa: Perugia, che era stata il centro dell'insurrezione, fu assediata, conquistata e i suoi abitanti trucidati. Ottaviano, però, non punì i parenti di Antonio, ma permise loro di raggiungerlo in Oriente. Nel 37 a.C. Ottaviano e Antonio - Lepido era ormai stato emarginato - si incontrarono a Brindisi per rinnovare il loro accordo, che fu cementato dal matrimonio tra Antonio e Ottavia, la sorella di Ottaviano.

Malgrado i tentativi di non far deflagrare la situazione, era chiaro che lo scontro finale si stava avvicinando. Al momento della divisione delle provincie, Antonio aveva scelto l'Oriente con lo scopo di ripercorrere le orme di Cesare: voleva cioè intraprendere una serie di campagne militari dalle quali ottenere gli onori, la gloria e le ricchezze necessarie a rientrare a Roma e a sconfiggere Ottaviano. Per questo si recò in Egitto e qui strinse con la regina Cleopatra un'alleanza politica, nonché un legame affettivo dal quale nacquero due figli.

La propaganda di Ottaviano e la sconfitta di Antonio

Ottaviano utilizza la propaganda contro Antonio. Nel frattempo a Roma Ottaviano, manovrando con pazienza e astuzia, era riuscito a guadagnarsi il favore della plebe, dei cavalieri e di parte del Senato. Soprattutto Ottaviano aveva capito che i Romani erano ormai stremati da decenni di guerre civili e dunque si presentò all'opinione pubblica come l'unica persona in grado di garantire a Roma la pace e la prosperità che da essa sempre deriva. Ottaviano utilizzò abilmente la propaganda anche per screditare Antonio attraverso il suo legame con Cleopatra. La regina dell'Egitto fu dipinta agli occhi dei Romani come una donna dissoluta che con la sua bellezza aveva sedotto Antonio. Antonio fu accusato di aver comportamenti scandalosi, di essersi allontanato dai valori tradizionali di Roma e di voler farsi incoronare re. Le accuse di Ottaviano furono alimentate dal comportamento di Antonio che, anziché tramutare i territori conquistati in Oriente in province sottomesse a Roma, ne affidò il governo direttamente a Cleopatra. Inoltre, Antonio commise il grave errore di ripudiare Ottavia e di sposare Cleopatra: cosa che permise a Ottaviano di presentarlo all'opinione pubblica romana come succube della regina. Quando poi si scoprì che Antonio aveva intenzione di lasciare le province romane d'Oriente in eredità ai figli avuti da Cleopatra - come se quei territori fossero una sua proprietà privata Ottaviano ebbe gioco facile a farlo dichiarare nemico della patria e ad allestire un esercito contro il rivale di sempre. Ottaviano sconfigge Antonio ad Azio Nella primavera del 31 a.C. la flotta di Antonio e di Ottaviano si scontrarono nella battaglia navale di Azio, davanti alle coste greche: la vittoria Ottaviano e Antonio e Cleopatra costretti a riparare in Egitto. L'anno successivo, nei pressi di Alessandria, le truppe di Ottaviano ottennero un nuovo e decisivo successo: Antonio e Cleopatra si suicidarono per non cadere prigionieri ed essere portati a Roma in catene. L'Egitto entrò a far parte dei domini romani, ma non come provincia, poiché Ottaviano ne assunse il controllo a titolo personale. Nel 29 a.C. Ottaviano rientrò a Roma, dove gli furono tributati gli onori di salvatore della patria. Assunse quindi il titolo di princeps Senatus e di imperator e il cognome di Augusto.

Domande da interrogazione

  1. Quali furono le cause principali del crollo dei valori tradizionali a Roma nel II secolo a.C.?
  2. Le cause principali furono l'afflusso di ricchezze che creò un nuovo ceto commerciale, la crisi della piccola proprietà contadina, le tensioni politiche e sociali, e il malumore degli alleati italici. Questi fattori indebolirono i sentimenti civici e aumentarono la corruzione.

  3. Chi era Gaio Mario e quale fu il suo contributo alla politica romana?
  4. Gaio Mario era un "uomo nuovo" che divenne console grazie al discredito del Senato. Riformò l'esercito aprendo il reclutamento ai nullatenenti, trasformando l'esercito romano in un esercito di professionisti fedeli ai loro comandanti piuttosto che alla repubblica.

  5. Quali furono le conseguenze della prima guerra civile tra Mario e Silla?
  6. La prima guerra civile portò a un lungo periodo di lotte fratricide in Italia, culminando con la vittoria di Silla. Silla divenne dittatore, stilò liste di proscrizione per eliminare gli avversari e attuò riforme per restituire centralità al Senato, ma non riuscì a fermare la crisi della repubblica.

  7. Come si formò il primo triumvirato e quali furono i suoi obiettivi?
  8. Il primo triumvirato fu un'alleanza segreta tra Cesare, Pompeo e Crasso per spartirsi il potere. Ognuno portava qualcosa all'alleanza: Crasso le ricchezze, Pompeo l'appoggio dell'esercito, e Cesare i voti della plebe. L'obiettivo era conquistare il potere a scapito del Senato e degli ottimati.

  9. Quali furono le riforme di Silla e perché non riuscirono a stabilizzare la repubblica?
  10. Silla aumentò il numero dei senatori, rafforzò il ruolo del Senato, indebolì il tribunato della plebe e stabilì un rigido cursus honorum. Tuttavia, le riforme non affrontarono le cause profonde della crisi, come la sparizione della piccola proprietà contadina e la corruzione, portando a una ripresa delle lotte per il potere.

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