
Come nel caso di Martina, una studentessa di 16
anni che ha voluto riservare alcune ore del suo PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l'Orientamento) per comprendere più da vicino le dinamiche che si compiono all'interno dell’IFOM, l’Istituto di Oncologia Molecolare di Fondazione AIRC. Dopo un momento di scetticismo da parte di Andrea, il ricercatore che avrebbe dovuto seguire il percorso di Martina all'interno dell'istituto, il lavoro, svolto nel corso di due settimane, è risultato ampiamente produttivo da più punti di vista. Anche per Andrea, infatti, nonostante la notevole differenza d'età con la studentessa, ha potuto apprendere più di quanto si aspettasse da questa esperienza. All'interno di una lettera, infatti, il ricercatore ha raccontato la breve parentesi lavorativa che lo ha visto al fianco di Martina, ringraziando chi oggi dà la possibilità ai più giovani di toccare con mano anche lavori così complessi e apparentemente "lontani" dalla quotidianità.
"Ad imparare siamo stati in due, e forse tra me e Martina, la studentessa, quello che ha imparato di più da questa esperienza sono io - ha raccontato a caldo lo studioso. "E ho capito che noi ricercatori, che spesso ci mettiamo nella posizione di insegnare agli altri dall’alto in basso, dovremmo acquisire la consapevolezza che dagli altri abbiamo molto da imparare".
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PCTO all'interno di un laboratorio di ricerca contro il cancro: la lettera del tutor alla studentessa
Ai miei tempi, al liceo, questa possibilità non c’era e devo dire che, quando l’hanno introdotta e io ero già ricercatore, sono sempre stato scettico a riguardo. Mi dicevo “cosa vuoi che imparino in un paio di settimane, ti fanno solo perdere tempo e ne perdono loro”. Ma dalla vita e dal mio lavoro ho imparato che dogmi e certezze sono fatti per essere scardinati. Mi chiamo Andrea, ho 48 anni e da quasi metà della mia vita faccio ricerca. Lavoro all’IFOM, l’Istituto di Oncologia Molecolare di Fondazione AIRC. Da anni, come tanti ricercatori qui in IFOM, provo a capire alcuni dei meccanismi che portano le cellule normali a“trasformarsi” e diventare cellule tumorali. In particolar modo il nostro gruppo studia le strategie adottate dalle cellule tumorali per “scappare” lontano dal tumore primario, diffondersi nell’organismo e andare a formare le metastasi. Il mese scorso mi è stato chiesto di fare da tutor a M., una studentessa di 16 anni che avrebbe trascorso un periodo di due settimane nel nostro laboratorio. Prima reazione “no, perché a me?! Non c’é nessun altro?!”. Poi sono arrivato alla conclusione che non sarebbe stato così terribile e ho incominciato a “progettare” l’esperienza da far fare alla studentessa nel tempo che avrebbe trascorso con noi in lab. In fondo lo scopo di passare 15 giorni in laboratorio al nostro fianco sarebbe stato proprio quello, “toccare” con mano quello che facciamo ogni giorno nel nostro ambito lavorativo. Ero in procinto di incominciare una serie di esperimenti e la studentessa avrebbe potuto affiancarmi in quelli che sono i “controlli interni” del blocco sperimentale. “Routine” sì vero, ma non per questo meno importante di qualsiasi dato che possa emergere da un qualsivoglia esperimento. Mi sembra un buon piano. E alla fine arriva Martina, accompagnata dalla sua mamma. La mamma è super elettrizzata, Martina sembra un po’ spaesata, ma è normale; le faccio entrare in Istituto e le conduco in un piccolo tour per dar loro un’idea dei diversi ambienti e delle diverse “tecnologie” che utilizziamo tutti i giorni. Congedata la mamma, io e M. ci immergiamo nelle nostre giornate di alternanza-scuola lavoro. Non troppo in fretta, è impensabile farle fare qualcosa di pratico sin dall’inizio. Per qualche giorno Martina mi affiancherà e starà con me mentre svolgo il mio lavoro. Incominciamo a parlare un po’, le spiego che cosa facciamo e qual è la nostra linea di ricerca.
Il messaggio che voglio trasmetterle è che, a monte del nostro lavoro e della sperimentazione pratica, c’è lo studio. Sì, perché di studiare non si finisce mai e la conoscenza della letteratura scientifica, l’apprendere quello che fanno altri laboratori in tutto il mondo, ci tiene aggiornati e ci fornisce gli spunti alla base di nuove idee e di nuove metodologie sperimentali. Con il passare dei minuti e delle ore Martina acquista fiducia e incomincia a rivolgermi domande. Tante domande. È sveglia, è curiosa…. Perfetto penso, la curiosità e la voglia di conoscere ed esplorare sono la base del nostro lavoro. Trascorriamo i primi giorni così, io lavorando e lei affiancandomi, osservando quello che faccio e facendomi domande. Mi sorprendo nello scoprire che la cosa non mi da noia. Eppure ci sarebbero stati i presupposti: l’età anagrafica ci separa anni luce, M. ha poco più dell’età dei miei figli. Nonostante questo incominciamo a conoscerci e a prenderci le misure. Come i miei figli ascolta musica a me ignota o poco gradita, non sa chi sia Giorgia e crede che Laura Pausini sia un volto televisivo del TG……….a parte questo però riusciamo a comunicare e soprattutto, e la cosa mi fa piacere, lo stare “al bancone” genera in M. uno stato di euforia: non vede l’ora di poter iniziare i suoi esperimenti. Arriva il venerdì della prima settimana, giorno di “semina”! Nel pomeriggio “semineremo” le cellule che serviranno a partire dal lunedì successivo per i nostri esperimenti. Lo scopo è capire quanto il gene che studiamo, irsp53, impatti sulle capacità migratorie di cellule derivate dal carcinoma della mammella. Un modo “facile” per capirlo è “spegnere” irsp53 e mettere a confronto cellule in cui il gene è acceso e cellule in cui il gene è spento. I risultati di questi esperimenti saranno la base di una nuova linea di ricerca del nostro laboratorio. La portata di tali risultati però non avrebbe alcun significato senza i “controlli interni” all’esperimento. Ma cosa sono questi controlli interni? Sono saggi di biochimica cellulare e di microscopia che ci consentiranno di verificare se siamo riusciti realmente a spegnere irsp53. Senza questi controlli tutto il blocco sperimentale non avrebbe senso. Questo è il compito di M. a partire dal lunedì successivo. Quattro giorni al bancone: due dedicati all’analisi “Western Blot” una tecnica biochimica che permette di identificare una determinata proteina (quella codificata dal nostro gene irsp53) in una miscela di proteine, mediante il
riconoscimento da parte di anticorpi specifici; due dedicati all’analisi delle nostre cellule con tecniche di immunofluorescenza che impiega anticorpi resi fluorescenti con un fluorocromo e consente di individuare, al microscopio, la presenza di una proteina all’interno delle cellule di interesse. Se abbiamo fatto tutto bene, M. sarà in grado di osservare segnali specifici solo negli estratti cellulari o nelle cellule dove il nostro gene é acceso ma non nelle cellule in cui è stato spento.
Sono quattro giorni intensi per M., tutto ciò che per chi lavora in laboratorio è scontato, per lei non lo è affatto. Bisogna preparare soluzioni, fare diluizioni, calcolare pesi molecolari………fa fatica, sbaglia ma non si arrende e alla fine troviamo le giuste condizioni per poter portare avanti gli esperimenti. Il primo risultato lo otteniamo dal “Western Blot”. Le immagini acquisite ci dicono che a livello globale il nostro gene è stato spento. Eureka! Vedo Martina sorridente, raggiante e so che il meglio deve ancora venire. Sì perché ora tocca all’immunofluorescenza e poi all’osservazione a microscopio. Prepariamo le nostre cellule, ancora soluzioni, ancora diluizioni, ancora calcoli. Pronti, ora dobbiamo farli riposare per una notte e poi la mattina seguente andremo al microscopio. Giovedì mattina, appuntamento alle 9:30 al microscopio. Martina arriva alle 9:00 accompagnata dal suo papà. Anche lui come la mamma elettrizzato. Siamo coetanei, ci diamo del tu. Mi fa piacere far visitare IFOM anche a lui. Credo che tutti dovrebbero sapere cosa facciamo e come lo facciamo. Molti pensano che la ricerca non serva, noi non produciamo, non abbiamo
utili…nel nostro piccolo cerchiamo di dare risposte a tante domande, produciamo “conoscenza”, una conoscenza che potrebbe essere utile in un futuro, neanche troppo lontano, per avere nuovi strumenti nella lotta contro il cancro, una conoscenza che ha bisogno di risorse per essere messa a nudo. Alle 9:25 salutiamo il papà, perché il microscopio ci aspetta. Arriviamo nella stanza dei microscopi a fluorescenza. Il #4, fidato Olympus Upright BX51, è li che ci aspetta. È un compagno di viaggio da tanti anni. Spiego a Martina come utilizzarlo, cosa fare e, soprattutto, cosa non fare. I microscopi sono strumenti delicati e costosi, non possiamo permetterci di rovinarli. Molte delle ricerche che conduciamo qui in IFOM sono finanziate da Fondazione AIRC, soldi che arrivano dalle persone che credono nella nostra missione e a cui noi dobbiamo riconoscenza e rispetto. Bisogna essere super attenti e super rigorosi in tutto quello
che facciamo. Ok, pronti per guardare le nostre cellule e acquisire le immagini. Resisto alla tentazione di
mettermi al microscopio, è una delle cose che amo fare di più e passerei ore agli oculari. Ma questo è l’esperimento di Martina ed è giusto lasciarle il posto. Da li a poco immagino già quali saranno le sue reazioni. Ed infatti ci vuole poco per vedere quanto Martina si esalti nel guardare le cellule in fluorescenza; mi sembra di rivedere me 20anni fa……. In realtà per me è ancora così oggi, dopo tanti anni. Martina non sta più nella pelle, continua a dirmi “Andrea, dovresti vedere come si vede bene agli oculari!”. Non provo neanche a spiegarle che so bene quello che sta provando, la seguo divertito e cerco di guidare il suo “volo Pindarico”. Dopo due ore abbiamo raccolto tutte le immagini di cui abbiamo bisogno. Anche in questo caso, le immagini acquisite ci dicono che abbiamo lavorato bene. Torniamo in laboratorio, ci mettiamo al computer. È ora di “sistemare” tutti i dati raccolti e di preparare un report di quanto abbiamo fatto in questi giorni. Il pomeriggio scivola via, prepariamo il nostro report ed é già ora di salutarci. Un pochino mi spiace, mi ero abituato all’idea di avere una piccola “rompiscatole” in giro per il lab.
La saluto, con una speranza e una consapevolezza: la speranza è che le sia rimasto qualcosa di questa esperienza che la guidi in quello che vorrà fare da grande, la consapevolezza è che questa esperienza mi ha insegnato molto. Ho imparato che...se il lavoro di ricercatore è importante perché ha delle responsabilità sul futuro della salute delle persone, ne ha anche sulla diffusione della conoscenza. È un nostro dovere, è parte integrante del nostro lavoro confrontarci con la società per farlo capire, soprattutto con i giovani.
Ho imparato molto a cogliere lo sguardo curioso di chi si affaccia al proprio futuro e che si appassiona di Ricerca nonostante le prospettive non rosee che offre il mondo del lavoro. Avere a che fare con un interlocutore così giovane è molto più che stimolante. M., come è giusto per la sua età, è a digiuno di tante cose, a digiuno di esperienze, a digiuno di conoscenze ma dalla sua ha una voglia di fare e di scoprire che ti lascia disarmato. M. ha il vantaggio di non aver ancora acquisito un metodo e quindi utilizza ragionamenti e meccanismi diversi dai miei per cercare soluzioni alle diverse problematiche. Non sempre trova la giusta via ma è fantastico rapportarsi a un modo di pensare che viaggia su altri livelli. Il confronto è sempre educativo, per i giovani ma soprattutto per noi “adulti”. Il confronto è alla base di tutto.
Oggi torno a casa doppiamente soddisfatto, amo il mio lavoro e mi piace l’idea di aver trasmesso qualcosa e soprattutto di averne imparate molte altre.
Grazie Martina!