
Questo il finale conclusivo per Mario Draghi che ieri in Senato ha incassato una fiducia molto risicata visto che i partiti del centrodestra che erano al governo e il Movimento 5 Stelle, fautore della crisi innescata la scorsa settimana al Senato dopo l'astensione sul precedente voto di fiducia, non hanno partecipato alle votazioni.
Ma, adesso qual è lo scenario che appare sempre più probabile? Andiamolo a vedere insieme.
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La giornata di ieri: tra malumori e sconfitte
In questa crisi d'agosto che, come vi avevamo già preannunciato, sarebbe stata ricca di ripensamenti e colpi di scena, ieri ci eravamo lasciati con il discorso fatto dal Premier Draghi al Senato dove chiedeva alle forze politiche se erano pronte per ricominciare nuovamente da capo e senza divisioni. Una giornata che, dopo numerosi vertici da parte delle forze politiche e la richiesta del Premier di votare la fiducia sulla mozione presentata dal senatore Pier Ferdinando Casini, si è chiusa con la certificazione della fine del governo di unità nazionale.Tecnicamente Draghi non è stato sfiduciato visto che ha incassato 95 sì ma, ovviamente, è una semplice fiducia teorica visto che, nella pratica, non avrebbe la maggioranza per poter governare. Dalla maggioranza originaria a non partecipare al voto sono stati la Lega, Forza Italia e il Movimento 5 Stelle: i primi due partiti, come aveva sottolineato durante il dibattito il capogruppo leghista Massimiliano Romeo e la stessa mozione presentata da Calderoli su cui si è scelto di non porre la fiducia, erano disponibili a sostenere nuovamente Draghi ma "con una nuova maggioranza e un nuovo governo".
Dall'altra parte c'è il Movimento 5 Stelle che, dopo il pressing del Partito Democratico, ha scelto comunque di non votare vista anche la dura replica del Premier sui loro cavalli di battaglia: il reddito di cittadinanza, non messo in discussione ma "da migliorare" e il Superbonus dove "è stato creato un pasticcio, la responsabilità è di chi l’ha fatto, ora vanno salvate le imprese che sono nei guai". Così si arriva ad oggi dove Draghi, dopo essere passato dalla Camera dei Deputati, è salito dal Presidente della Repubblica per rassegnare le sue dimissioni.
Lo scenario delle elezioni anticipate si fa sempre più vicino
Adesso, la palla passerà al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella però, viste le volontà dei vari partiti politici, sembra che non vi siano alternative allo scioglimento delle Camere. Quest'ultimo potrà essere predisposto da Mattarella dopo aver sentito i presidenti di Camera e Senato. Nel frattempo Draghi rimarrà in carica con il suo governo per il disbrigo degli affari correnti: potrà emanare decreti legge, assolvere gli obblighi comunitari ma ovviamente avrà un'autonomia ridotta quindi non ci sarà spazio per riforme più ambiziose.Stando alla Costituzione, se la scelta ricadrebbe sulle elezioni anticipate, bisognerà fare attenzione al calendario: secondo l'articolo 61 della nostra Costituzione "le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti". In passato tra il decreto di scioglimento delle Camere da parte del Quirinale e le successive urne sono trascorsi tra i 60 e i 70 giorni. Questi tempi, che a prima vista potrebbero sembrare lunghi, servono ai partiti politici non solo per la campagna elettorale ma anche per la presentazione delle liste che devono essere accompagnate da un notevole numero di firme (tra 1.500 e 2.000 firme in ogni circoscrizione proporzionale per i partiti che non hanno gruppi parlamentari).
Quindi, se le Camere venissero sciolte entro i prossimi giorni, la data più probabile per recarsi ai seggi sarebbe quella di domenica 25 settembre ma è possibile che, per evitare una campagna elettorale sotto gli ombrelloni, lo scioglimento delle Camere possa avvenire oltre questa settimana per votare magari domenica 2 ottobre. Sempre l'articolo 61 della Costituzione stabilisce che "la prima riunione delle Camere ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni" quindi si arriverebbe a una data tra il 15 e il 22 ottobre e dopo l'elezione dei Presidenti di Camera e Senato e la formazione dei gruppi parlamentari, Mattarella aprirebbe le consultazioni il cui esito dipende dalla chiarezza del risultato elettorale. Se vi ricordare, nel 2018 si votò il 4 marzo e il primo governo Conte giurò ben 90 giorni dopo, l'1 giugno.
Paolo Di Falco