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Sofocle - Antigone: analisi e commento

Autore: Sofocle
Titolo: Antigone
Datazione e altro: rappresentata per la prima volta ad Atene in occasione della Grandi Dionisie del 442 a.C. fa parte del ciclo tebano, ovvero, delle tragedie che trattano degli argomenti inerenti Edipo e la sua stirpe; particolare fortuna l’opera avrà nel corso del XIX secolo ed è tra quelle più apprezzate del XX secolo.

TRAMA
La tragedia si apre con la drammatica figura di Antigone che, ancora prostrata per gli avvenimenti, informa la sorella Ismene del bando emanato da Creonte, secondo cui soltanto uno dei due fratelli, Eteocle, avrebbe potuto ricevere sepoltura; chi avrebbe tentato di seppellire l’altro, sarebbe incorso in una condanna a morte per lapidazione.

Antigone esorta la sorella a violare il decreto del re (loro zio), ma Ismene, fagocitata dalla sventura (la morte di Edipo, dei fratelli e della madre) e dalla propria condizione di femmina, decide di non rischiare e si arrende al potere: superare “i propri limiti è pazzia”. Antigone allora si chiude in una solitudine inviolabile, che è tale fino alla morte e le successive proteste della sorella, che arrivano persino a voler tentare l’impresa, si abbattono contro un muro inviolabile: Antigone è destinata a morire per salvare il fratello. Le due sorelle escono di scena e giunge il Coro di vecchi tebani a celebrare la storia vittoriosa della città e ad annunciare l’arrivo di Creonte, nuovo re della città. L’irruzione sulla scena dell’uomo corrisponde all’inizio di quello che è stato definito “discorso della Corona”: Creonte celebra il suo operato, anteponendo l’integrità alle amicizie, e ribadendo la propria indiscutibile autorità e sottolineando i suoi provvedimenti per onorare Eteocle come un vero e proprio eroe. Eppure gli orpelli con cui egli maschera la realtà non cancellano l’atto sacrilego di cui si sta macchiando: vietare la sepoltura di un uomo. D’altra parte il Coro non si sbilancia e anzi, pur ritenendo corrette (secondo il diritto, ma non secondo la morale) i provvedimenti regi, rimane piuttosto freddo. Mentre la prosopopea dell’uomo tocca le vette dell’autocompiacimento, una sentinella che si muove ai limiti del grottesco annuncia una notizia nefasta. Il cadavere di Polinice era stato cosparso di polvere e parte del rito funebre era stata svolta. La notizia, estorta non con poca fatica dalla guardia reticente, accende l’ira di Creonte che deve contrastare un affronto: a nulla vale l’ipotesi del Coro secondo cui si era trattato di un intervento divino, che anzi viene rigettato con sdegno. La mente di Creonte giunge a infangare l’onore delle guardie sostenendo che esse si erano lasciate corrompere da dei facinorosi: occasione ideale per scaricare la propria ira contro il denaro. La sentinella, atterrita, riceve l’ordine perentorio di trovare il colpevole: moneta di scambio la grazia per la negligenza. La guardia esce di scena. Il Coro rallenta il ritmo tragico e dilata la suspense ricorrendo a un canto sull’ambiguità della natura umana, vista nel suo lato tremendo e imprevedibile, per poi elogiare le sempre più numerose technai, "arti", escogitate per moltiplicare le risorse e sottrarsi alla ferinità propria degli animali. La mente umana non conosce limiti, se non quelli posti dalla morte che pure la medicina tenta per lo meno di ritardare. Eppure l’intelletto umano non risponde ad alcuna logica rigida di partizione tra bene e male e oscilla tra questi due capi opposti senza potersi stabilizzare. Il discorso si conclude stringendo l’attenzione sulla città, in una maledizione contro chi, fuori dalla città, compie il male: Antigone o Creonte? La risposta è ambigua: entrambi infatti peccano per l’incapacità di trovare il giusto mezzo per agire. La soluzione verrà soltanto alla fine della tragedia: Antigone vince nel cuore, Creonte subisce una pena tardiva. Il presagio di sventura nella voce del Coro si materializza nella figura di Antigone che, sorpresa a seppellire il cadavere, è ora trascinata dalla sentinella al cospetto del re. Segue il resoconto della guardia non privo di dettagli brutali e ammantato da un’aura divina. Due istanze opposte s’intrecciano sino all’insostenibile: l’interrogatorio di Creonte (leggi della città) s’infrangono contro un’Antigone fiera, superba, irremovibile, anzi compiaciuta del proprio gesto e di esso realmente persuasa. D’altra parte meglio la morte a una vita di sofferenze: Antigone accelera la propria condanna. Eppure è proprio in questa fermezza e determinazione mortale che il Coro riconosce i segni della dismisura e della pena necessariamente conseguente. L’accusa di Creonte non tarda, ma anch’essa cade nella tracotanza: il re antepone l’interesse personale al bene dello stato (vv. 484-485). Lo scontro si accentua: legge dello stato e legge naturale si scontrano senza esclusione dei colpi, fino alla misoginia accentuata di Creonte. Il dibattito serrato, giunto all’esaurimento, si rinnova con l’arrivo di Ismene, assieme a dei servi, la quale si denuncia: dichiara di essere colpevole tanto quanto la sorella, spinta da un moto d’affetto improvviso. L’indole dura di Antigone respinge l’affetto della sorella e anzi la discolpa. Creonte, per nulla scalfito dal patetismo della scena, ordina la condanna a morte per Antigone (che pure è la promessa sposa di suo figlio Emone) e la carcerazione per la sorella. Ancora una volta si susseguono le lamentazioni del Coro e la fiducia in Zeus che tutto contempla e domina ricorrendo alla legge della misura. Entra in scena Emone, figlio di Creonte, il quale, pur dichiarandosi fedele al padre, non lo è incondizionatamente. Il suo scopo è l’amore sincero per Antigone, il suo obiettivo quello di sottrarla alla morte. La ragion di stato di Creonte, stolta e granitica, si abbatte sul figlio, intimando di non contrastare i giudizi paterni e di non cadere nelle spire “fredde” delle donne. Il delitto di stato che sta per compiersi affonda le proprie radici in una misoginia profonda, cifra distintiva della società greca arcaica. Il Coro, sempre più in difficoltà, si allinea senza entusiasmo a Creonte. Emone ricorre alla razionalità, alla freddezza calcolatrice: un’azione generata dall’istinto e dalle passioni senza adeguata ponderazione, può provocare un rivolgimento all’interno del governo: il popolo difende strenuamente Antigone e anzi ne ammira il coraggio. Emone rivaluta un concetto tipicamente democratico, la mediazione, tanto da esclamare “Concediti di cambiare idea!”. Mentre Creonte attacca basandosi sul dispotismo, Emone ne denuncia la crudeltà: a nulla vale l’intervento del Coro, tanto le posizioni sono irremovibili. Quando la brutalità del sovrano viene smascherata, e la decisione regia pare inappellabile, si consuma una rottura definitiva: Emone, infuriato per l’annuncio del padre che avrebbe ucciso Antigone davanti ai suoi occhi, eliminando qualsiasi forma di reverenza, fosse anche strumentale, si allontana in preda all’ira più abietta. Resta da decidere la forma di uccisione. La lapidazione non solo richiederebbe la partecipazione di un popolo reticente alla pena, ma anche la contaminazione della città. Meglio ribadire la solitudine della ragazza confinandola in una grotta, seppellendola viva fino alla sua morte, verosimilmente, per stenti. Antigone ama Polinice, Ismene ed Emone amano Antigone. Il sentimento sarà motivo della loro rovina. A questo punto si colloca il famoso canto di Eros intonato dal Coro a voler sottolineare la potenza superiore del dio dell’amore cui lo stesso Zeus è sottomesso. La figura di Antigone trascinata dalle guardie verso la rovina commuove anche il Coro che pure è intimorito dal potere. Antigone giunge al suo letto di nozze con Ades. La commozione presto si trasforma in ammirazione. Eppure ancora una volta l’ostinazione della donna travisa il senso delle parole del Coro, tacciandole di celia. Causa della rovina è la stirpe (come in Eschilo) e l’opposizione al potere. Conclude l’esperienza di Antigone il ribadire la sua solitudine, il suo affetto per i cari, e le inquietudini dello stesso Sofocle dell’arrendersi al destino che gli dei impongono. Morendo con gli dei, maledice chi l’ha condannata. Ambigua è la consolatio del Coro che da una parte ammira il coraggio, dall’altra la critica come empia. La donna è paragonata a Danae, Cleopatra e Licurgo.

Segue la catastrofe di Creonte. Sopraggiunge Tiresia, il famoso indovino, in compagnia di un giovane. Mette in guardia il sovrano dalle azioni che sta compiendo poiché si sono manifestati segni sinistri. Eppure Creonte, accecato dal dispotismo, disprezza le istanze dell’indovino, proprio come aveva fatto con Emone. A nulla vale l’invito alla moderazione e alla riflessione. Eppure l’ostinazione di Creonte non conosce mediazione e il delirio del potere giunge a insultare Tiresia (e con lui tutti gli indovini) accusandolo di essere stato corrotto dal denaro. La tirannia sconfina nella paranoia e dissacra la tradizione inviolabile della profezia. Rincara la dose non riconoscendo il torto che egli compie contro la divinità. Il potere si scontra con la religione oracolare, Creonte contro Tiresia. Quest’ultimo, indispettito dal sovrano, erompe in un’accesa critica e sconfiggendo la reticenza che lo aveva trattenuto tuona la sventura che sta per consumarsi. I toni sembrano più da maledizione che da profezia e si salda all’eroico gesto della donna. La protervia del re inizia a cedere, scalfita da tanto potente condanna. A tu per tu col destino, il sovrano dubita dei propri provvedimenti e chiede consiglio al Coro. Quest’ultimo, definitivamente convertitosi alla causa della donna, invita il sovrano a revocare i propri editti e a concedere la grazia per evitare che una nuova sventura cada sulla città. Il sovrano, convintosi, ordina di liberare la donna e come spesso in Sofocle, prima dello scioglimento, il Coro avanza la speranza di una soluzione positiva, qui espressa tramite un inno a Dioniso. Sopraggiunge però il messaggero ad annunciare il suicidio di Emone ai piedi di Antigone, dopo che quest’ultima si era impiccata. A nulla è valso il pentimento tardivo di Creonte. Amore e Morte hanno riscosso il loro tributo di sangue. Sublime e tragica è la descrizione del folle tentativo di Emone di ferire il padre con la spada, per poi suicidarsi, non priva di macabri dettagli. Euridice, sposa di Creonte, apprende della morte del figlio e in fretta si reca nel palazzo. Creonte riconosce il proprio errore e grida il proprio strazio. Giunge la notizia che Euridice si è tolta la vita, dolore su dolore. Oramai cadavere che respira invoca pietà, di essere portato via. Invoca la morte, ma il Coro, duro, ribadisce l’imperscrutabilità del fato. Chiude la tragedia il Coro a celebrare la saggezza distaccata e l’armonia col cosmo e condanna la tracotanza e l’empietà. Il cinismo del potere si arrende all’Amore e alla Ribellione, che, seppur senza serenità e almeno nell’immaginario, vincono.

Personaggi
- Antigone: eroina tragica per eccellenza, emblema insuperato della tragedia greca, Antigone non ha mai cessato di esercitare un fascino magnetico sulla critica che ora ne ha elogiato le spinte morali, ora ne ha polverizzato l’ostinazione, ora ne ha esaltato determinati aspetti a discapito di altri. Al di là delle sovrastrutture del personaggio, del suo essere donna, sorella, moglie utopica, figlia senza genitori (un albero senza radici), Antigone è un essere umano e come tale vive in un’interrogazione costante con se stessa, un interrogatorio senza diritto di replica entro cui va definito e il suo fascino e la sua condanna. Eroina del dolore, dell’infelicità, Antigone è ritenuta emblema della legge morale, la Dike divina, cosmica, che si abbatte fiera sulla legge dello stato, quella civile, della polis, che già in Eschilo era ritenuta imperfetta. Eppure si è già oltre il "patendo conoscere" di Eschilo: Antigone ha già sofferto, ha già sperimentato il dolore, ha già raggiunto una nuova consapevolezza di sé e degli altri. Nella sua difesa spassionata del fratello, nella sua tragica opposizione al tiranno – stratega Creonte, Antigone si erge a difensore di una legge interiore, a un’etica non imbrigliabile nell’ottica razionalistica dello stato: eppure è proprio questa legge, che lei tanto strenuamente difende, a condurla alla rovina. È nell’ostinazione, nella chiusura, nel silenzio di cui si ammanta, che si annida la rovina di Antigone, l’aver firmato di persona la propria condanna, l’aver accelerato una discesa verso l’Ade che si rivelerà fatale per molti dei personaggi del dramma. La sua fierezza non accetta compromessi, si ripiega su se stessa a difenderla dal mondo senza possibilità di essere scalfita. Folle appare ai personaggi che forse non ne intendono le motivazioni più intime, ma l’angoscia che monta verso dopo verso non si consuma nella sua morte sulla cui posizione nel testo (circa i due terzi) tanto si è dibattuto. Nello scontro titanico tra Stato e famiglia, le forze in gioco si coagulano intorno al polo manipolatore dell’incomprensione. La rigida ripartizione della società in bianco e nero, il gioco degli opposti, non concede ponti, non ammette comunicazione: e così si consuma la tragedia. Incomunicabilità e solitudine: quest’Antigone nel suo essere “essere umano”, scevra da sovrastrutture critiche, privata di quelle interpretazioni addizionali che hanno decretato la sconfitta di molti critici. Perché Antigone non tollera, anzi non chiede di giudicare, ma soltanto di comprendere gli abissi di un animo che della sicurezza ha fatto uno scudo contro il mondo, che nel suo essere condannato a morte trova la vera libertà, quella del suicidio. Ed è qui lo scarto, qui l’assurdo. La pena di Antigone ne avrebbe decretato la morte, ma la ragazza non attende e si toglie la vita. Il sottosuolo, vero nemico della donna e di Creonte, è l’invalicabile, l’inconciliabile: nel momento in cui comprende che la sua fine è giunta, allora è necessario affrettarla; il mondo non può più esigere nulla, qualsiasi responsabilità crolla. Antigone sofferente, ma anche innamorata. Antigone amante della Giustizia. È un amore disperato proprio perché la Dike è una verità che trascende l’uomo che, in quanto cosmica e universale, non può essere contemplata se non dall’interno, non può che implicare una visione parziale, incompiuta. Ed è qui l’errore di Antigone, è qui che la donna firma la sua condanna: il credere che la propria Dike sia quella giusta rivela l’ostinazione di un’anima che nella pervicacia non raggiunge la saggezza. Tutto il resto è accessorio, persino la tanto decantata opposizione tra legge di natura e legge dello stato. Non che non sia presente, ma a essa contribuisce l’intero apparato di forze in gioco, non soltanto la giovane che, anzi, dalla propria fede incondizionata nella Dike non riesce a trovare scampo. D’altra parte, come si avrà modo di sottolineare in seguito, la legge dello stato di Creonte pare più vicina alla legge della tirannide, del delitto di Stato. Ed è poi necessario individuare un ultimo elemento, lo stretto legame tra Antigone e il tema della sepoltura che si rifletterà poi anche nella sua condanna a morte. La donna non sarà, infatti, lapidata ma sepolta viva, nel sottosuolo, simbolo che anche Dostoevskij porrà alla base di uno dei suoi romanzi, "Le memorie del sottosuolo": terra come simbolo di isolamento, barriera invalicabile entro cui l’uomo, costretto a vivere, consuma la propria solitudine.

- Ismene: negativo di Antigone (sia moralmente sia simbolicamente) Ismene è la donna vinta dalla propria condizione di inferiorità sotto il cui peso fa decedere la propria legge di natura. Ismene non ha connotazioni maschili come Clitemestra o Antigone, ma è femmina in tutta l’accezione del termine. Sconfitta da una logica del potere che le sfugge, confinata nella dimensione nebulosa dell’impotenza, rifiuta di aiutare Antigone a seppellire il fratello: il potere lo proibisce e l’uomo a esso deve aderire. Eppure, al contrario di Antigone, la solitudine non l’ha resa impenetrabile e anzi il dispiegarsi degli eventi la spingerà a un percorso disperato quanto patetico di ambivalente significato: redenzione dalla colpa verso la sorella, lontanamente dalla legge dello stato. E se la prima istanza sembra vincere, tantoché Ismene si autoaccusa colpevole, è l’egoistico arroccamento della sorella a non permetterle di morire da eroina: non è questo il suo destino, non è questo lo scopo per cui è nata, né la sua istanza più intima. Il desiderio di sacrificio di Ismene non s’identifica con una condivisione della causa, ma è un gesto istintivo determinato da un’intuizione così fulminea e penetrante da divenire consapevolezza: senza la sorella, Ismene è condannata a un futuro di solitudine e di vergogna: figlia non più tale, sorella non più tale, moglie indesiderata e madre impossibile. È in questo sovrapporsi di dolore su dolore che va collocata la malleabilità di Ismene: non forse nobile, ma intrinsecamente potente per la forza che l’animo umano sembra dimostrare fino ad accettare la morte pur di non isolarsi definitivamente. Non c’è la sepoltura, non c’è l’ostinazione: Ismene è agnello sacrificale sull’altare della logica umana. Anche qui, il pathei mathos eschileo si svela improponibile: al dolore non segue conoscenza, ma altro dolore.

- Coro di vecchi tebani: elemento fondamentale del dramma, coro dalla consistenza di vero e proprio personaggio, ha la funzione di legare il pubblico e le vicende narrate: ora introduce i personaggi, ora spiega gli antefatti, ora tenta di raddolcire, altre volte condanna in virtù di una teodicea sofoclea di cui spesso si fa interprete. Il suo atteggiamento di asservimento al potere si dissolve a poco a poco vinto dalla figura straziante di Antigone, cui dedica la propria compassione dopo un continuo oscillare tra Creonte e la donna. Eppure è proprio il coro che nella mutevolezza della propria opinione condanna definitivamente Antigone e permette di cogliere ancor più l’essenza della tragedia: ”onorare i morti è dovere pietoso, ma chi detiene il potere non permette che altri lo violi". "Ti ha perduto il tuo carattere inflessibile”. E ancora il Coro tenta di far desistere Creonte dai suoi propositi, a far condividere le parole di Tiresia, nonostante precedentemente il timore del potere l’avesse imbrigliato nell’asservimento totale. E sarà proprio il Coro alla fine a consigliare il sovrano, Coro che ha forse intuito l’unico atteggiamento possibile: l’adesione ai vaticini, e quindi l’arrendersi al destino imperscrutabile che gli dei impongono. E saranno proprio i vecchi tebani a chiudere la tragedia, a chiudere il circolo di dolore e sofferenza.

- Creonte: altro personaggio cardine dell’opera, Creonte si erge a simbolo della legge di Stato o della persecuzione di Stato ovvero di un potere tirannico fondato sulla paura e cieco nell’arroccarsi al di sopra del popolo come Emone non esiterà a far notare al padre. Creonte freddo e pragmatico, utilitaristico fino all’eccesso, annebbiato dal potere, o in esso pienamente esercitosi, non cede a nessuna supplica, convinto della propria superiorità, persino rispetto agli dei firmando così la sua condanna. Narcisista, egocentrico, mitomane: l’“io” smisurato dell’uomo si proietta sul governo della città: la condanna verso Antigone non è dettata tanto dal suo non rispettare la legge, ma dalla sua audacia verso l’autorità del tiranno. Creonte non tollera affronti personali come spesso non manca di far notare, soprattutto quando quest’ultimi sono protratti da una donna. Ecco ciò che Creonte teme: l’immagine di un uomo che non è in grado di farsi rispettare da un essere inferiore; è l’anarchia il suo timore, ma non in chiave di Stato, ma in chiave personale. E nel tentativo si salvaguardare la sua immagine, cede alla brutalità, all’insofferenza verso le divinità, anzi le offende; minaccia il figlio che osa contrastarlo, azzittisce il Coro che tenta di mediare: tutto in Creonte pare assolutizzazione dell’autorità, ed è proprio in quest’ego espanso che si nascondono le ombre di una sventura, un accecamento imminenti: è nel dilatarsi del sé ogni oltre misura che i germi del dubbio si nascondono. E quando nutrendosi del re sembrano assumere il controllo, il senso di colpa viene subito placato dal giustificarsi, dal non riconoscersi colpevole proprio perché non si uccide di persona. Nel gioco psicologico che sottende alla rovina, Creonte riconosce poco a poco i suoi errori e si getta disperato nel tentativo di redimerli: ma è un Creonte grottesco più che patetico e il termine della tragedia sembra dimostrarlo. Dopo il suicidio del figlio e quello della moglie cade in preda alla disperazione, ma non si uccide, non ne ha il coraggio, quasi che la sua pusillanimità non sia smossa, propria perché egli stesso è ancora vivo, proprio perché ha ancora un popolo da dominare. E nonostante tutto, nonostante i terribili eventi che egli genera, è un personaggio troppo mediocre per incarnare il male che si cela invece nell’ostinazione, nell’Ate. In fondo sia lui che Antigone peccano di irremovibilità: non due opposti, ma due esseri analoghi.

- Sentinella: personaggio minore tra i meglio caratterizzati, la Sentinella sembra quasi una presenza estemporanea: al di là delle questioni di giustizia divina e destino, legge naturale o dello stato, aspira soltanto a vivere e solo di questo si preoccupa. Conosce troppo il potere per sapere che ambasciatore porta sempre una pena e che soprattutto e su questo che si abbatte l’ira del sovrano. Ben consapevole di ciò, tenta di procrastinare l’annuncio nefasto quanto più possibile attraverso un’apologia che rinuncia a parole roboanti per tratteggiare invece la scena di guardie colte nella paura concreta di una condanna a morte, un ritratto vivido di una società in movimento attorno al dramma. E se come prevedibile Creonte lo insulta, la Sentinella riesce a salvarsi e anzi con un moto di zelo suscitato dalla condanna a morte in caso di fallimento che Creonte ha pronunciato, cattura Antigone e la trascina al cospetto di Creonte: non è crudeltà, ma puro spirito di sopravvivenza: basta il racconto della cattura della donna a tratteggiare la forza di Antigone e ad atterrire la decantata superiorità maschile. È proprio il linguaggio popolare della guardia e il suo ingenuo attaccamento alla vita a farne un personaggio vivido e dinamico.

- Emone: il più giovane dei figli di Creonte, promesso sposo di Antigone, Emone è l’uomo in rivolta non contro lo stato ma contro il proprio padre, o meglio, contro il ruolo di subordinazione che il rapporto padre - figlio esige. Non è un ribellione dettata dalla volontà di “assatanamento” di potere, quanto invece dalla forza suprema dell’eros, potenza cosmica cui egli consapevolmente cede. È in virtù di quest’amore spassionato che sembra ribaltare tutte le convenzioni sociali, che egli tenta di salvare Antigone, magari dissimulando i propri intenti, prima elogiando il padre, poi attaccandolo frontalmente, è Eros a dominare a reclamare la vicinanza di due anime che si realizzerà soltanto nella morte. È inaspettatamente dalla parte di Emone che proviene la critica più feroce al padre, albero che la corrente travolge, marinaio che tira troppo le vele: è il figlio che nella rivolta si trasforma in uomo, è una crescita che passa per dei legami infranti. Eppure Emone sembra riconoscere la misura, sa che il suo gesto di sputare sul padre e di tentare di ferirlo, anche se non realizzatosi, nella stessa intenzione nasconde una condanna estrema: è questo, assieme al dolore per la morte di Antigone, a spingerlo al suicidio. Per la nobiltà dei sentimenti, per la forza che dimostra in tutto il dispiegarsi del dramma, Emone appare come il più saggio dei protagonisti, o forse soltanto il più folle, certo uno dei più incisivi.

- Tiresia: tra i più celebri personaggi del mito antico, Tiresia è rappresentante umano della legge divina: il deprezzare la sua natura, costituisce empietà verso la divinità. Condannato al dono della preveggenza, vive conoscendo ciò che non è e in questo si consuma la sua tragicità. Il disprezzo che Creonte manifesta nei suoi confronti, è terrore verso un destino che non si è disposti ad accettare, e il profeta che non è disposto ad accettare la propria reputazione infangata, monta poco a poco nell’ira fino a rivelare una profezia che pare più una maledizione, preannunciando la morte del figlio e della moglie di Creonte. L’ottusa resistenza al destino viene scalfita dalle parole di Tiresia che ancora una volta non sbaglia: non è una Cassandra senza diritto di essere creduta, ma la crudeltà delle sue profezia sembra arrogarglielo. È nel segno della rabbia, del dissacrante che si consuma la tragedia e il dialogo serrato con Creonte che ora si carica di invettive improvvise, ora si dissolve in reticenza incoercibile. Alla fine, però, come sarà poi con Edipo, la cecità dimostra di poter cogliere, pur nella menomazione, la verità: e così il dramma prosegue, così divampa il dolore, così si consacra l’amore.

- Messaggero I e messaggero II: prima annuncia la morte di Emone al coro e a Euridice, poi la morte della regina a Creonte. Il messaggero, preludio di sventura, ha due funzioni: la prima è di riflettere, anche marginalmente, sugli eventi trattati, la seconda quella di raccontare eventi cui non si assiste in prima persona e che vivono grazie alle parole: così la morte del figlio, così quella della madre si svelano in tutto il loro patetismo tramite il logos, il discorso. Annunci che spesso non si limitano soltanto all’evento narrato, ma si arricchiscono di compatimento, considerazioni personali, che arricchiscono la narrazione quasi fosse vista dagli occhi del pubblico e introducendo così un occhio esterno a contemplare, narrare e giudicare le vicende.

- Euridice: forse la più interamente appartenente al genere femminile greco, donna raccolta, che vive il proprio dramma da sola, in una dimensione privata entro cui realizza la propria subordinazione. D’altra parte si suicida in casa, in solitudine, senza manifestazioni plateali, affranta dal dolore per la morte del figlio e in grado soltanto al termine della propria vita di ribellarsi al marito, al maschilismo, augurandogli sventura in quanto assassino del suo stesso figlio. Poche sono le parole che pronuncia, ma incisive proprio per le potenza delle passioni che la agitano. A una madre privata della maternità non resta che suicidarsi.

Tematiche
L’Antigone ha suscitato nel corso dei secoli varie interpretazioni la cui ambiguità, e talora persino contraddittoria analisi, risiede nel contino oscillare delle opere, in caratteristiche molteplici e ugualmente sfumate di cui spesso non si è tenuta considerazione, riducendo l’opera a una struttura monocroma che perde nell’astratta e sterile analiticità, la forza dirompente delle passioni che la agitano e che ne costituiscono i fondamentali. In questa rassegna, dunque, delle tematiche dell’Antigone (certamente né assoluta né completa) si preferisce anteporre a qualsiasi diatriba critica quello che pare il tema più centrale o comunque quello cui sia possibile legare le sfaccettature dell’opera senza evitare troppo quegli spigoli che troppe volte si è tentati di appianare. Questo nucleo fondamentale sembra essere l’Eros: non inteso come amore carnale, né nella psicagogia platonica, quanto invece come un’attrazione fatale che ben si confà al destino dell’uomo. D’altra parte, a ben vedere, tutti i personaggi agiscono per amore: Creonte per potere, Antigone per il fratello insepolto, Ismene per la sorella, Emone per l’eroina tragica, Euridice in risposta all’amore del figlio, Tiresia per la verità cui il fato l’ha condannato. Lo stesso Coro elogia l’amore in un passo celebre che sembrerebbe altrimenti fuori contesto. Naturalmente l’ironia tragica non distingue così sottilmente tra amore e odio che, in definitiva, si dimostrano sentimenti devastanti proprio perché totalizzanti, senza misura. Creonte agisce contro le donne, Antigone contro la limitazione della propria libertà, Ismene contro la sorte toccata alla sorella, Emone contro il padre, Euridice contro il marito indiretto assassino e Tiresia contro i miscredenti. Dalla continua tensione di queste istanze opposte prende progressivamente vita il dramma che proprio in virtù di quest’opposizione imprescindibile e costruttiva, si protrae ben oltre il limite della morte di Antigone. È altresì patente che la dicotomia di queste due aspirazioni sia fonte primaria di dolore; affermazione non sbalorditiva pensando a una tragedia, ma che, se rapportata ad altre composizioni (come le Eumenidi o l’Edipo a Colono), suggerisce una percentuale di sofferenza ben superiore. Se poi il contrasto prende forme differenti, è pur sempre elemento ineliminabile. La tradizione critica ha espresso pareri tra i più disparati dell’opera, opinioni più o meno condivisibili. Linea tra le più accettate è quella del contrasto (già individuato da Hegel) tra Stato e Famiglia: due istituzioni inconciliabili proprio perché soggiacenti a leggi differenti e incompatibili. Così andrebbe interpretato il desiderio di Antigone di seppellire il fratello e il fiero rifiuto di Creonte. Meno stringente un’altra interpretazione consimile in accordo con la quale la tragedia metterebbe in scena il contrasto tra legge non scritta del sangue e quella scritta dello stato civile. Anche se, a ben vedere, nulla di scritto appare nella tragedia: anche il discorso di Creonte è orale. E chi ritiene che sia un dettaglio tralasciabile, chi pensa tale obiezione sia frutto di eccessiva concretezza e scarso spirito di astrazione (chi insomma privilegia i ricami dell’intelletto alla coerenza con la trama), potrebbe aver ragione, questo non si nega. Tuttavia pare più probabile, sebbene non assoluta, l’interpretazione “de-costruttiva” in tal senso di Goethe che ritrova in Creonte non la legge dello Stato, ma la persecuzione di stato, il potere tirannico: non è un caso che l’opera possa essere anche vista come manifesto dell’antitotalitarismo. Gli esistenzialisti hanno, invece, visto in Antigone l’Io oscuro che (al contrario di quanto accade in Edipo) conosce se stesso e chiudendosi nell’ostinazione sbaglia, altri addirittura hanno visto in Antigone il desiderio di morte della madre Clitemestra che si scontra con il tentativo di inibirlo di Creonte (interpretazione che se da un lato giustificherebbe il mancato suicidio finale di Creonte, altrimenti logico, dall’altra sembra travalicare l’opera, o comunque costituirne una delle sfumature). È poi necessario individuare altri elementi connaturati alla società greca che fa da cornice alla tragedia: da un lato il femminismo, dall’altro un conflitto generazionale che acquisirà le tinte più forti nell’Edipo a Colono. La misoginia greca non è sconosciuta e anzi ne costituisce un tratto caratteristico tanto che alcuni non sono riusciti a spiegarsi come una società così evoluta come quella greca, fosse così arretrata dal punto di vista dell’uguaglianza sociale. Un interrogativo che, data la distanza dei secoli, pare quanto meno fuori luogo, o comunque non spiegabile tramite la semplice causalità. Detto ciò appare evidente come Antigone sia poco donna, e molto uomo nel senso che i tratti della seduzione, della femminilità (come Polissena nell’Ecuba) sono annientati da un’ostinazione così coraggiosa da sfiorare l’eroismo achilleo. Proprio nel suo uscire dalla propria condizione, proprio nel suo tentativo di divenire uomo, Antigone, il cui nome riassume per ironia tragica, la sua condizione, privandola dell’elemento che più contraddistingue le donne, la fertilità, proprio in ciò, dunque, la donna sbaglia, nel non volersi arrendere alla sorte. L’unico matrimonio lei concesso sarà quello con la morte, che con la fertilità nulla ha da spartire. Il conflitto generazionale tra la donna e Creonte e ancor più tra Creonte e il figlio sembra ricalcare una problematica trasversale alla produzione sofoclea relativa al contrasto tra genitori e figli, in modo particolare lo scontro tra padre e figlio. Certo è che Sofocle dimostra un interesse acuto per quanto riguarda la fragilità dell’uomo e i sentimenti più imperturbabili che lasciano interdetto lo stesso tragediografo, nonostante la spinta drammatica che egli è in grado di fornire all’opera.

Un’interpretazione di stampo più misterico – orfico, vuole vedere in Antigone e Creonte gli esempi più completi dell’incapacità di raggiunge la saggezza, intesa come capacità di accettare gli eventi del destino senza ostinarsi nell’opporsi a esso. Eppure è nella tragedia di Sofocle che si apre il contrasto tra libero arbitrio umano e fato, in un’ottica chiaramente pessimistica secondo cui il libero arbitrio umano è un paradosso, in quanto intrinsecamente legato alla fatalità e alla necessità. Sofocle, che fu anche sacerdote, sembra respirare il clima orfico – pitagorico e misterico che dall’incertezza della prima fase della sua produzione cui verosimilmente apparterrebbe l’Antigone, si evolverà in una visione ben più sicura e radicale dell’esistenza umana, così mirabilmente rappresentato dall’Edipo Re. Insomma, una tragedia che proprio grazie alla sua ambiguità di fondo non ha mai smesso di porre quesiti, o magari essi sono generati da una sovrapposizione moderna, una chimera contemporanea, che eleva l’antica Grecia al di sopra di qualsiasi altra civiltà, tacendone gli aspetti meno “politicamente corretti”: magari Antigone muore solo perché è donna, e quindi inferiore, alla fine Creonte non si suicida perché uomo, forse Emone, plagiato dall’amore, si rammollisce e quindi merita una pena: certo è che, se così fosse, l’Antigone perderebbe gran parte del proprio fascino, e tanto vale rischiare di traviare il significato, pur di conservarne la moderna integrità.

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