La tradizione riporta che Euripide nacque nel 480 a.C., data della battaglia di Salamina in cui Eschilo aveva combattuto. Si fanno corrispondere così i tre tragediografi. Secondo altre fonti, Euripide nasce nel 484.
Sofocle visse nella gioventù il momento di prosperità di Atene, mentre questo momento viene negato ad Euripide. Euripide vive in pieno quella crisi che Sofocle vive nell’età adulta della sua esistenza. Si compie con Euripide quel percorso che era cominciato con Eschilo: con Euripide viene meno la comunicazione fra l’uomo e la divinità, soprattutto a causa del momento che Atene sta vivendo.
La sofistica sta prendendo sempre più piede e ha un influsso molto profondo; tale influsso non poteva non avere ripercussioni sul rapporto uomo-divinità.Dopo i tre tragediografi si studia Aristofane. In una sua commedia, intitolata “Rane”, Aristofane immagina una gara, che si tiene nell’Ade, fra i tre tragediografi; il vincitore sarebbe ritornato in vita. Aristofane decide di far tornare in vita Eschilo poiché l’autore di commedie aveva capito quanto corrosivo fosse il pensiero di Euripide.
Euripide porta sulla scena dei personaggi, soprattutto femminili, che vengono scandagliati psicologicamente così a fondo da mettere in crisi il pubblico che ha di fronte. Questo capita per esempio nella Medea. Medea è la figlia del re Eta, che abita a Iolco, sul mar Nero. La fanciulla si innamora di Giasone, un eroe greco che era andato lì per poter prendere il “vello d’oro”, cioè il manto dorato di una pecora. Il vello d’oro garantiva la prosperità alla terra del re Eta. Giasone, con i suoi Argonauti, parte per una spedizione allo scopo di prendersi il vello; egli non avrebbe mai potuto prenderlo con sé, se Medea non si fosse innamorata di lui. La fanciulla, versata nelle arti magiche, elimina tutti gli ostacoli che il re aveva posto per impedire che il vello venisse rubato. Giasone riesce a prendere il vello d’oro.
Medea ha tradito il padre, ha tradito la patria, ha ucciso (o fatto uccidere) il fratello che si era posto al loro inseguimento. Lei e Giasone si trasferiscono in Grecia e Giasone decide ad un certo punto di sposarla, pensando che così avrebbe potuto assicurare ai suoi figli una vita reale, consona, ben fatta. Medea, invece, va su tutte le furie: poiché lo ha aiutato a prendere il vello d’oro, tradendo il padre e la patria, non può certamente ritornare in patria, dove si è procurata l’odio di tutti. Giasone tenta di spiegarle che vuole fare tutto questo per amore dei figli;
Medea escogita una vendetta nei confronti di Giasone. Essendo maga, prepara qualcosa che faccia morire la giovane sposa, in maniera che il marito non possa prenderla in matrimonio. Finge di stare al gioco e di accettare la decisione del marito. Prende un velo, lo intinge di veleno e lo manda in dono alla sposa. Non appena lo mette in testa, la sposa muore insieme al padre. Sono rimasti Medea e Giasone, ma Medea decide di uccidere i figli.
La sua è una decisione sofferta e altalenante: Medea abbraccia i figli, pensa che uccidendoli non potrà mai più sentire l’odore delle loro carni, ma non vuole nemmeno stare al gioco di Giasone; decide, alla fine, di uccidere i figli.
Torniamo al discorso del personaggio femminile. Si sente Medea che urla dall’interno. La nutrice si chiede come mai la sua padrona sia così agitata. Successivamente entra in scena Medea e comincia un discorso di una logica impressionante. Medea è fervente di passioni al suo interno e parla di interiorità ed esteriorità.
“Tra i milioni di esseri che esistono sulla terra”, dice Medea, “noi donne siamo gli esseri più infelici”. Un marito, se si stanca di sua moglie, può uscire, incontrare altri amici, mentre le donne devono avere in casa un unico pensiero, rivolto ad una sola persona: suo marito. Euripide solleva quindi un problema che fin ora non era stato mai contemplato: se il matrimonio fosse felice o meno per una donna. Chiaramente il pubblico di Atene, che si trova di fronte un personaggio che dice le cose come stanno, si trova di fronte ad una verità che fino a quel momento era sempre stata taciuta.
Il marito viene quindi definito “il padrone del nostro corpo”.
Per questo Euripide non poteva essere amato dal suo pubblico perché lo costringeva a riflettere, a mettere in dubbio le certezze; per questo, tre sole sono state le volte in cui Euripide ha vinto l’Agone tragico.
Concentriamoci ora sul personaggio di Medea. Medea è una donna forte, una barbara, una maga e soprattutto una donna colta. Tutte queste caratteristiche la rendono completamente diversa da una donna ateniese. Dalla tragedia si intuisce che ella è sempre stata guardata con un po' di sospetto, proprio per queste sue caratteristiche differenti. Medea è una madre che adora i suoi figli e quando prende la decisione di ucciderli non lo fa con immediatezza: il suo è un continuo altalenare e, quando li ha di fronte, non capisce come la sua mente sia riuscita ad elaborare una vendetta così terribile. È combattuta tra il desiderio di vendetta e l'amore per i figli.
È una donna che si contrappone a qualunque stereotipo: non solo perché uccide i figli, ma anche perché è in grado di elaborare un progetto a lungo termine, atto a realizzare la sua vendetta. Medea si contrappone ad un sistema accettato. Medea combatte non con le donne, ma con gli uomini, con Giasone, con il re Creonte e riesce a vincere su entrambi. Ad esempio, Medea riesce a vincere contro Giasone in un famoso dialogo, in cui vi è una continua contrapposizione fra i due, una serie di "botta e risposta" che sembrano rievocare i processi in un tribunale (ai due viene dedicato lo stesso numero di versi). Importante è anche il dialogo con Creonte. Il re arriva sulla scena e ordina di persona a Medea di andare via. Una delle prime parole che il sovrano dice a Medea è: “Io ti temo”. Questo perché Medea è diversa, è come se il re sapesse dall’inizio che stava per ingaggiare una lotta impari con una persona apparentemente a lui inferiore, ma in realtà assai temibile.
Euripide ha compreso la difficoltà in cui vive la donna e decide di dar voce nelle sue rappresentazioni a ciò che la donna ateniese non aveva il coraggio di dire: ad esempio, quando Medea parla del matrimonio e afferma che se dovesse andar male per la donna sarebbe qualcosa di terribile, Euripide esplica un concetto che le donne ateniesi non possono dire apertamente.
Ci sono altre tragedie, come ad esempio “Ecuba”, in cui si parla del destino di Ecuba dopo la disfatta di Troia. “Le troiane” tratta lo stesso argomento. Euripide mette in evidenza, sempre e comunque, il destino atroce della donna, che passa come merce da un proprietario all’altro, senza tener conto dell’età, o di qualunque altra cosa. Euripide fa anche riflettere sulla guerra e sulle conseguenze che essa porta. Anche questa è una riflessione amara a cui il pubblico deve sottostare.
Gli ateniesi, poiché le tragedie di Euripide non piacevano e non convincevano, hanno cominciato a boicottare l’autore e ad accusarlo di misoginia. Altri, invece, sostenevano che egli affibbiava alle donne un carattere così negativo perché aveva avuto problemi nella relazione con sua moglie; dicevano fosse stato da lei lasciato, pensavano che fosse un individuo apatico, che non amava stare con gli altri, che sua madre fosse un’erbivendola e quindi la sua condizione sociale fosse bassa. Invece abbiamo testimonianza del fatto che Euripide possedeva una delle biblioteche più fornite dell’antichità, perciò era un grande uomo di cultura.
Nell’"Ippolito" si narra la storia di Fedra, moglie del re e madrina di Ippolito, figlio del re. Ippolito ama la caccia e stare con i compagni. C’è Afrodite davanti all’ingresso del suo palazzo, ma non la degna di uno sguardo. La dea, adirata, fa innamorare Fedra del figliastro. Ritorna qui l’idea del furor, la passione incontrollabile. Fedra sta male, vuole morire. La sua nutrice, saputo quello di cui soffre, pensando di fare cosa gradita alla sua padrona, va a riferire tutto a Ippolito, che parte con una tirata contro le donne. Fedra si arrabbia con la sua nutrice poiché ella aveva raccontato il suo segreto. Fedra perciò si uccide impiccandosi, ma tenendo nelle sue mani una tavoletta su cui aveva scritto che Ippolito le aveva fatto violenza.
In quel momento rientra a corte il re, che trova le donne piangenti e si rende conto della situazione. Scoperta la tavoletta, senza sentir ragioni da parte del figlio, gli dà la colpa per la morte della moglie; lo maledice e lo scaccia dalla corte. Mentre Ippolito va via a cavallo e passa sulle coste del mare, da un’onda gigantesca esce un toro che terrorizza il cavallo; Ippolito viene disarcionato e viene ferito gravemente. Ippolito viene portato morente al padre, che decide alla fine di perdonarlo׃
Euripide ha una capacità di sondare la psiche femminile che risulta di gran lunga più profonda rispetto a Sofocle; sarà un esempio per tantissimi altri autori dell’età successiva.
Il teatro di Euripide è un teatro diverso rispetto a quello di Eschilo e Sofocle. È un teatro antropocentrico: al centro della sua riflessione c’è l’uomo, rappresentato nel suo più comune sentire l’amore, l’odio, il desiderio di apparire agli occhi degli altri.
È come se questi personaggi fossero soltanto una maschera dietro la quale si nasconde, in realtà, solo ed esclusivamente l’uomo. La rappresentazione sacra, in Euripide, viene meno, è rimasta soltanto la facciata. Questi personaggi del mito non sono più i modelli paradigmatici che il teatro doveva portare sulla scena, ma mezzi attraverso i quali Euripide rappresenta l’uomo.
Molti critici hanno rimproverato ad Euripide di aver distrutto la tragedia, togliendo al teatro il suo valore sacro e ponendo l’uomo al centro della rappresentazione. Il teatro di Euripide “rompe” con la tradizione e con il passato, tanto che non viene capito.
Nella tragedia di Euripide viene messa in evidenza, attraverso l’agone, la relatività della conoscenza. In ogni tragedia troviamo un dibattito tra due persone, un dibattito in cui l’uomo che assiste alla rappresentazione si riconosce. Il valore formativo del teatro viene meno.
In questo momento, la sofistica sta raggiungendo il massimo splendore. Questa è la filosofia del dubbio, dubbio che nasce quando c’è un periodo di crisi. Se Euripide mette al centro della sua riflessione l’uomo, non parla dell’uomo per eccellenza, perché quello che Euripide mette sotto gli occhi di tutti è la relatività della conoscenza.
Visto che Sofocle pone al centro delle sue tragedie l’uomo, anche personaggi di secondo piano, come ad esempio la nutrice, il servo, il pedagogo, acquistano necessariamente una funzione importante; si fanno portavoce di una profonda moralità. Euripide dà valore a questi personaggi, che nelle tragedie precedenti erano di secondo piano. Questa è un’altra accusa che viene rivolta ad Euripide, quella di snaturare la tragedia dando ruoli importanti a dei personaggi che in un genere alto, qual era la tragedia, non dovevano avere.
Si dice che Euripide abbia “rivestito di stracci gli eroi”, perché perdono il loro valore paradigmatico.
Il fatto che di Euripide ci siano arrivate tredici tragedie, significa che post mortem Euripide fu fortemente rivalutato.
La prima tragedia che ci è arrivata di Euripide è Alcesti. Alcesti è una tragedia sui generis, tanto che molti dicono che sia in realtà un dramma satiresco, e non una tragedia vera e propria.
Alcesti è la moglie di Admeto. Admeto e Alcesti hanno due bambini, un maschio e una femmina. Le parche hanno stabilito che Admeto muoia. In qualche modo, Apollo riesce a ingannare le parche, per cui Admeto ha la possibilità di ingannare e continuare a vivere se trova qualcuno disposto a morire per lui. I genitori non accettano assolutamente, ma sua moglie decide di sacrificarsi per lui.
Alcesti muore e Eracle si trova a passare dalla città di Admeto durante una delle sue fatiche. Si ferma a chiedere ospitalità ad Admeto. Costui è in lutto, ma non se la sente di negargli l’ospitalità. Dice ad Eracle che c’è un morto in casa, ma non gli dice che il morto è sua moglie. Eracle mangia e soprattutto beve, finché diventa un po’ brillo. I servi cominciano a lamentarsi di questo comportamento, finché decidono di dirgli la verità sul morto presente in casa.
Eracle rimane di stucco e decide che per ringraziare Admeto dell’ospitalità che gli ha dato nonostante il lutto, decide di andare a riprendere Alcesti. Riesce nell’intento, la porta a casa tutta velata, e dice ad Admeto di accoglierla in casa. Admeto però dice che aveva promesso a sua moglie che nessun’altra donna sarebbe stata sua moglie. Eracle insiste tanto e alla fine convince Admeto a scoprire il volto di Alcesti. Scoperto che la donna portatagli da Eracle era sua moglie, Admeto rimane sbalordito e ritrova la gioia.
Vi è un momento bellissimo nella tragedia, quello dello scontro fra Admeto e suo padre. Quando Alcesti muore, il padre porta quello che serviva per adornare la tomba e Admeto lo accusa con parole aspre. In questo scontro, è come se il figlio prenda la posizione del padre. La riflessione è dunque questa: dove sta il giusto modo di interpretare le cose? Chi ha ragione, il padre o il figlio?
L’altra riflessione che molti studiosi hanno fatto è che in questa tragedia Alcesti non rivolge mai una parola d’amore nei confronti del marito, nemmeno nel momento in cui si sacrifica per lui.
Le Baccanti
Era, quando si accorge che Semele aspettava da Zeus un figlio, la incenerisce. Zeus custodisce il bambino all’interno della sua coscia. Le sorelle, invidiose di Semele, dicono che non è vero che la sorella abbia avuto questo figlio da Zeus, ma asseriscono che ella l’abbia avuto da un comune mortale. Tebe è proprio la città in cui il culto di Dioniso non c’è. Ma come poteva permettere Dioniso che nella sua città natale, ma anche la città di sua madre, non fosse istituito un culto in suo onore? Perciò egli arriva a Tebe con il suo seguito, costituito dalle menadi, donne che durante le feste in onore della divinità sul monte Citerone, di notte, si inebriano con la musica e con una danza continua, vertiginosa, sfrenata, fino allo sfinimento. La danza dà a loro questo sfinimento e permette loro di raggiungere l’estasi, la comunanza con il Dio. Si sentono non soltanto pervase dalla divinità, ma questa intimità con il Dio fa sì che loro si avvicinino alla natura, ritornino ad essere quasi esseri animaleschi, che vivono in comunione con la natura. Si diceva infatti che uccidessero cuccioli di animali, li allattassero, bevessero il loro sangue e mangiassero le loro carni.
Solo le donne sono ammesse a queste feste. Dioniso non solo si presenta come un’altra persona, ma abbiamo anche Penteo che si trasforma in una donna. È molto bella la scena in cui c’è Dioniso che dice a Penteo che il vestito che indossa gli sta bene, lo trasforma quindi in una donna. Dioniso, liberatosi dalle spoglie, raggiunge le sue donne per fare festa. Succede che queste donne si accorgono, grazie all’intervento di Dioniso, che c’è un uomo che le sta guardando. Allora lo uccidono. La madre, che faceva parte del gruppo di donne che partecipava alla festa, lo uccide staccandogli la testa che, poi, pianta su di un’asta. Con quell’asta ritorna felice in città.
Quando il momento dell’estasi cessa, la madre si accorge di quello che è successo. C’è perciò la presa di coscienza della forza della divinità, alla quale l’uomo non può sottrarsi.
Ma perché Euripide decide di concludere la sua carriera con una tragedia in cui il protagonista assoluto è la divinità? Molti hanno detto che probabilmente, alla fine della sua vita, Euripide ha avuto un ripensamento e ha ritenuto che la divinità esistesse e che andasse venerata. Altri dicono che Euripide è stato coerente fino alla fine della sua vita perché, in questa tragedia, Dioniso è così violento e perfido che non è possibile per l’uomo credere in una divinità.
Dioniso è sottilmente perfido. Abbiamo qui l'apoteosi della tragedia: una madre che uccide il figlio senza averne consapevolezza e torna fiera con la testa del figlio infilzata su un'asta. Si ha qui la vittoria di Dioniso, che distrugge la stirpe che gli era ostile.
Importante in Euripide è anche il concetto di deus ex machina: la divinità che interviene a sbrogliare la situazione.
Euripide accompagna la storia di Atene, prima a favore di Pericle, durante il periodo delle guerre di espansione, e poi, con il ciclo composto da Ecuba, le Troiane ecc. comincia ad avere una visione negativa della città.