gigiobevi99
Ominide
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Achille è il più forte e valoroso guerriero dell’esercito greco che assedia Troia e si inserisce pienamente nella società omerica, definita “società di vergogna”. Con questo si indica una società regolata da determinati modelli positivi di comportamento la cui trasgressione e mancata adesione  aveva come conseguenza il sentimento di vergogna dell’individuo, ovvero di disagio psicologico intimo, con la conseguente perdita di autostima e sofferenza oltre al biasimo concreto e reale dell’intera comunità fino, nei casi più gravi, all’emarginazione.

Achille è definito “il baluardo di tutti i Greci in questa terribile guerra” e questo accenna all’indispensabilità di Achille per l’esercito. Quando egli, nella sua ira, si ritira dalla guerra, le sorti di essa si capovolgono e si capovolge addirittura la condizione di assedianti e assediati. In assenza di Achille, la condizione dei Greci si trova ad essere peggiore di quella che mai sia stata la condizione dei Troiani. Da qui, si nota perfettamente come la superiorità di Achille verso i suoi alleati contenga implicitamente quella verso i nemici.

Una volta morto Achille, con lui muore l’unicità incontestabile e insostituibile, ma il tratto più distintivo dell’eroe è la relazione con la morte. Per Achille la guerra non è il rischio sul quale si misura la speranza di un ritorno a casa (nostos), ma è la certezza di una morte precoce e imminente come prezzo da pagare per la conquista della gloria.
“Mia madre Teti, la dea dai piedi d’argento, mi dice che al termine della morte due destini mi portano: se resto qui a combattere attorno alla città dei Troiani, è perduto per me il ritorno, ma avrò gloria immortale: se invece torno a casa, alla mia patria, è perduta per me la nobile gloria, ma la mia vita durerà a lungo e la morte non mi colpirà così presto.”
Achille vive in una condizione lacerante, definita dagli studiosi “double bind” (doppio legame): da un lato vorrebbe combattere per conquistare la gloria, dall’altro insorge l’imperativo di ritirarsi per salvaguardare il proprio onore. Generalmente, come vediamo nell’Aiace di Sofocle, il double bind ha un effetto paralizzante su qualunque iniziativa, lasciando possibile solo il suicidio. In Achille, invece, l’unica soluzione gratificante è quella di superare le parti e identificarsi alla totalità dell’universo stesso. Questi due desideri contraddittori, infatti, fanno sì che Achille reagisca in un aspro rifiuto di prestare aiuto ai compagni. L’irrazionalità di restare senza partecipare alla guerra è smascherata da Omero quando Achille rivela di essere consapevole che le uniche due scelte erano combattere o partire.
Il termine “irrazionalità”, però, è impreciso: ciò lo ha rivelato la psicologia di Ignacio Matte Blanco che ha ridefinito il mondo delle emozioni umane in stretto contatto con la stuttura matematica dell’infinito. Il linguaggio passionale interferisce con il linguaggio della ragione e tende a riportare ogni esperienza ad una totalità omogenea e assoluta.

Achille, inoltre, viene colpito da una privazione concreta: Briseide, sua schiava e amante, dev’essere concessa ad Agamennone. Egli vive quest’offesa come una sofferenza globale ed è tormentato da una forte gelosia sessuale (“Ci dorma e se la goda”). Ma nel complesso l’amore di Achille e Briseide resta sobriamente contenuto nell’implicito e l’offesa ricevuta è, dunque, simbolica.
“Neanche così potrebbe persuadere il mio cuore Agamennone, prima d’aver scontata tutta l’offesa che affligge il mio cuore.”
Questo verso ha suscitato inevitabili domande su cosa esattamente richieda Achille per deporre la sua collera: non lo saprei mai grazie alla svolta narrativa sulla morte di Patroclo, ma lo stesso Achille non lo sa: l’infinito emotivo contiene angoli, pieghe oscure di inconoscibilità.

Morto Patroclo, la dimensione psichica viene letteralmente spazza via per dar luogo al dolore e al desiderio di vendetta: con una sostituzione instantanea, dove c’era il conflitto con Agamennone, ora c’è il conflitto insanabile con Ettore.
“Ma quale piacere ne ho se è morto il mio caro compagno Patroclo, che io stimavo al di sopra di tutti i compagni, come me stesso?”
Ciò che colpisce in questo verso è l’interrogativo “quale piacere” ed è questo il punto di svolta dall’onore all’amore. I greci dell’età classica, infatti, non avevano nessun dubbio sull’esistenza tra Achille e Patroclo di un legame omosessuale.
E’ inoltre interessante il modo con cui si passa all’integrazione familiare di Patroclo. Achille, infatti, conoscendo la sua scarsa prospettiva di vita, sperava che Patroclo avrebbe fatto da padre a Neottolemo, guidandolo passo per passo nella conoscenza e nell’appropriazione della sua eredità.
“Prima il mio cuore sperava che […] tu saresti tornato a Ftia, e avresti portato sulla nave mio figlio da Sciro e gli avresti mostrato ogni cosa, le mie ricchezza, gli schiavi e l’alto palazzo.”

La caduta dell’ira comporta automaticamente la reintegrazione sociale e la riassunzione da parte di Achille del ruolo di conduzione della guerra. Le ritualità in seguito al suo ritorno generano fastidio quando egli le vede come un intralcio rispetto al fine esclusivo della vendetta. (“Una grande opera resta da fare.”)
La morte di Ettore è ancora un momento provvisorio, perchè, orientata a sanare il dolore infinito per Patroclo, è a ciò per definizione inadeguata. Inoltre, se è vero che la morte di Patroclo è la risoluzione al double bind, perché dopo essa torna sul campo di battaglia, è anche vero che si arricchisce di nuovi contenuti la passione per la gloria e l’accettazione della morte.

“Vorrei morire subito, poiché era destino che non potessi portare aiuto al mio compagno ucciso: è morto lontano dalla patria e non mi ha avuto vicino, difensore dal male.”
Il desiderio di morte, in cui si esprimono angoscia e desolazione, può assumere valenze consolatorie, nella speranza che la comunanza di sorte con l’amico schiuda un contatto con lui.

“E se nell’Ade si scordano i morti, anche là io sempre mi ricorderò del caro compagno.”
Il bisogno di una comunicazione affettiva è inesauribile, ma Achille non sostiene che l’odio per l’assassino renda onore al defunto e, anzi, pensa che dopo la morte spariscano gli affetti e si viva la cosiddetta “solitudine a due”.

Dopo che Achille ha invitato a combattere senza “perdere tempo in chiacchiere”, Odisseo, simbolo della razionalità, interviene per evitare un attacco immediato e per nutrire l’esercito. Egli rappresenta la “superiorità intellettuale” che bilancia l’indiscutibile “superiorità militare” di Achille.
Achille non si piega ai bisogni quotidiani poiché lo farà solo dopo aver ottenuto vendetta.
“Achille piangeva ricordando il suo amico e non lo prendeva il sonno che tutto doma, si rivoltava di qua e di là, ripensando con nostalgia alla forza e al furore di Patroclo.”
Il conflitto tra l’urgenza di vendetta e la finitezza delle energie tracciano un ritratto quasi spaventoso di Achille.

La sua passione per l’onore ha ragione solo perché l’onore è stato violato e la sua identità eroica si definisce così attraverso il dolore.
Dall’esperienza di Achille discende quella che è forse la più alta rappresentazione e analisi del dolore nella nostra civiltà: la tragedia attica del quinto secolo.

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