Concetti Chiave
- Il divieto di discriminazione si estende oltre il genere, includendo motivi politici, etnici e linguistici.
- Le differenze di trattamento possono essere legittime se giustificate come essenziali per l'attività lavorativa.
- Il ricorrente può usare dati statistici per dimostrare discriminazioni, invertendo parzialmente l'onere della prova.
- Azioni positive sono introdotte per compensare disuguaglianze di partenza, specialmente per disabili e donne.
- Nel settore privato, le azioni positive sono incentivate ma non obbligatorie, suscitando dibattiti sulla loro legittimità.
Discriminazioni per ragioni politiche, etniche, linguistiche e personali
Il divieto di discriminazione non riguarda solo il genere, ma anche ragioni di natura politica, etnica, linguistica, ecc. La disciplina relativa alle suddette discriminazioni e in parte affine a quella sulle discriminazioni di genere. Entrambe, infatti, distinguono la discriminazione diretta da quella indiretta; la prima, però, un numero molto più ampio di cause giustificative di atti o patti che potrebbero apparire discriminatori, ma che, proprio in virtù di tali giustificazioni, non sono considerati tali.Le differenze di trattamento dovute a caratteristiche etniche, linguistiche o religiose della persona, ad esempio, non costituiscono un atto discriminatorio se sono considerate un requisito essenziale ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa. Persino le disposizioni che prevedono regimi differenziati di accesso al lavoro in relazione all'età sono ritenute legittime se perseguite con mezzi appropriati e necessari.
Dal punto di vista giudiziario, anche in questo caso È ammessa la parziale inversione dell'onere della prova, realizzabile quando il ricorrente fornisce dati di carattere statistico volti a dimostrare l’esistenza della discriminazione politica, etnica, linguistica, religiosa, ecc.
Le discriminazioni di genere, politiche, linguistiche e religiose sono affiancate da situazioni in cui sussiste una diseguaglianza di partenza. Quest’ipotesi riguarda soprattutto i lavoratori con disabilità e le donne. Per compensare questa discriminazione iniziale, il legislatore ha introdotto alcune norme di per sé diseguali (azioni positive), con l’obiettivo di attuare il principio di uguaglianza sostanziale, in funzione del quale a tutti deve essere garantito lo stesso punto di partenza.
Nei confronti delle lavoratrici, le azioni positive mirano alla rimozione degli ostacoli che impediscono la realizzazione di pari opportunità. In particolare, esse si propongono di eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale, nell'accesso al lavoro è nella progressione della carriera.
Le azioni positive, purtroppo, sono obbligatorie soltanto nel settore pubblico; in quello privato la loro promozione è favorita solo tramite la previsione di incentivi per le imprese che le adottano. Per fortuna, tali azioni possono essere promosse anche dalle consigliere di parità.
La loro legittimità, però, è ancora oggetto di numerosi dibattiti giurisprudenziali. In particolare, alcuni giuristi sostengono che esse costituiscano discriminazioni alla rovescia, cioè a danno dei lavoratori di sesso maschile.
Domande da interrogazione
- Quali sono le giustificazioni per atti che potrebbero sembrare discriminatori?
- Come viene gestito l'onere della prova nei casi di discriminazione?
- Qual è il ruolo delle azioni positive nel settore privato?
Le differenze di trattamento basate su caratteristiche etniche, linguistiche o religiose non sono considerate discriminatorie se sono essenziali per lo svolgimento dell'attività lavorativa.
È ammessa la parziale inversione dell'onere della prova, che si realizza quando il ricorrente presenta dati statistici per dimostrare l'esistenza della discriminazione.
Nel settore privato, le azioni positive sono promosse tramite incentivi per le imprese che le adottano, ma non sono obbligatorie come nel settore pubblico.