Versione originale in latino
Eo anno quia tempus indutiarum cum Veiente populo exierat, per legatos fetialesque res repeti coeptae. Quibus venientibus ad finem legatio Veientium obvia fuit. Petiere ne priusquam ipsi senatum Romanum adissent, Veios iretur. Ab senatu impetratum, quia discordia intestina laborarent Veientes, ne res ab iis repeterentur; tantum afuit ut ex incommodo alieno sua occasio peteretur. Et in Volscis accepta clades amisso verrugine praesidio; ubi tantum in tempore fuit momenti ut cum precantibus opem militibus, qui ibi a Volscis obsidebantur, succurri si maturatum esset potuisset, ad id venerit exercitus subsidio missus ut ab recenti caede palati ad praedandum hostes opprimerentur. Tarditatis causa non in senatu magis fuit quam tribunis, qui, quia summa vi restari nuntiabatur, parum cogitaverunt nulla virtute superari humanarum virium modum. Fortissimi milites non tamen nec vivi nec post mortem inulti fuere. Insequenti anno, P. et Cn. Corneliis Cossis Num. Fabio Ambusto L. Valerio Potito tribunis militum consulari potestate, Veiens bellum motum ob superbum responsum Veientis senatus, qui legatis repetentibus res, ni facesserent propere urbe finibusque, daturos quod Lars Tolumnius dedisset responderi iussit. Id patres aegre passi decrevere ut tribuni militum de bello indicendo Veientibus primo quoque die ad populum ferrent. Quod ubi primo promulgatum est, fremere iuventus nondum debellatum cum Volscis esse; modo duo praesidia occidione occisa, cetera cum periculo retineri; nullum annum esse quo non acie dimicetur; et tamquam paeniteat laboris, novum bellum cum finitimo populo et potentissimo parari qui omnem Etruriam sit concitaturus. Haec sua sponte agitata insuper tribuni plebis accendunt; maximum bellum patribus cum plebe esse dictitant; eam de industria vexandam militia trucidandamque hostibus obici; eam procul urbe haberi atque ablegari, ne domi per otium memor libertatis coloniarum aut agri publici aut suffragii libere ferendi consilia agitet. Prensantesque veteranos stipendia cuiusque et volnera ac cicatrices numerabant, quid iam integri esset in corpore loci ad nova volnera accipienda, quid super sanguinis, quod dari pro re publica posset rogitantes. Haec cum in sermonibus contionibusque interdum agitantes avertissent plebem ab suscipiendo bello, profertur tempus ferundae legis quam si subiecta invidiae esset antiquari apparebat.
Traduzione all'italiano
In quell’anno, poiché era scaduto il termine della tregua col popolo dei Veienti, si chiese soddisfazione tramite gli ambasciatori e i feziali. Quando questi arrivarono al confine, andò loro incontro una delegazione di Veienti. Costoro chiesero che non si andasse a Veio prima che essi si fossero presentati di fronte al senato romano. E il senato, poiché scontri intestini travagliavano i Veienti, concesse che non si richiedesse loro alcun risarcimento: tanto si era lontani dal profittare delle disgrazie altrui. Ma nel paese dei Volsci i Romani subirono una sconfitta: la perdita del presidio di Verrugine. In quell’occasione ebbe un peso decisivo la mancanza di tempestività: si sarebbero potute aiutare le truppe che, assediate dai Volsci, chiedevano soccorso, se si fosse intervenuti in fretta; l’esercito inviato a dare manforte arrivò giusto in tempo per sorprendere i nemici sparpagliati a raccogliere prede, a massacro già concluso. Responsabili del ritardo furono, più che il senato, i tribuni: essendo stato loro riferito che gli assediati resistevano strenuamente, non tennero presente che non esiste valore capace di andare oltre il limite della resistenza umana. Ma quegli eroici combattenti non rimasero invendicati, né da vivi né dopo la morte. L’anno successivo, che vide come tribuni militari con potere consolare Publio e Gneo Cornelio Cosso, Numerio Fabio Ambusto e Lucio Valerio Potito, venne dichiarata guerra a Veio, a séguito dell’arrogante risposta data dal senato di quella città, il quale, agli ambasciatori che chiedevano soddisfazione, ordinò di rispondere che, se i Romani non se ne fossero andati al più presto dalla città e dal territorio di Veio, avrebbero dato loro ciò che Larte Tolumnio aveva già dato ai loro predecessori. I senatori si indignarono e ingiunsero ai tribuni militari di proporre al più presto al popolo di dichiarare guerra ai Veienti. Appena la proposta fu resa nota, i giovani cominciarono a mormorare, lamentandosi che la guerra con i Volsci non era ancora finita; che pochi giorni prima erano stati annientati due presidi, mentre gli altri venivano mantenuti ancora, ma a prezzo di continui rischi; che non c’era anno in cui non si dovesse scendere in campo, e, come se non fossero bastati i problemi già esistenti, ecco che si dava inizio a una nuova guerra con uno dei popoli più potenti dei dintorni, che sicuramente avrebbe aizzato contro di loro l’intera Etruria. I tribuni della plebe esasperarono ancor più la tensione sorta spontaneamente: essi andavano dicendo che la guerra più grande era quella condotta dai patrizi contro la plebe, a bella posta vessata dal servizio militare e esposta a farsi trucidare dal nemico; la tenevano lontana da Roma, per evitare che nella pace, memore della libertà e delle colonie, si agitasse pensando all’agro pubblico e a libere elezioni. Prendendo i veterani, enumeravano le campagne militari, le ferite e le cicatrici di ciascuno di loro, domandando quale parte del corpo era ancora integra per ricevere nuove ferite e quanto sangue potessero ancora versare per la repubblica. Poiché, con questi argomenti, ripetuti nei loro discorsi e nei loro comizi, i tribuni erano riusciti a dissuadere la plebe dall’intraprendere un nuovo conflitto, la proposta di legge sull’entrata in guerra fu rinviata, perché sembrava destinata a essere respinta se fosse stata esposta all’ostilità popolare.