Versione originale in latino
C. Claudius, qui perosus decemvirorum scelera et ante omnes fratris filii superbiae infestus Regillum, antiquam in patriam, se contulerat, is magno iam natu cum ad pericula eius deprecanda redisset cuius vitia fugerat, sordidatus cum gentilibus clientibusque in foro prensabat singulos orabatque ne Claudiae genti eam inustam maculam vellent ut carcere et vinculis viderentur digni. Virum honoratissimae imaginis futurum ad posteros, legum latorem conditoremque Romani iuris, iacere vinctum inter fures nocturnos ac latrones. Averterent ab ira parumper ad cognitionem cogitationemque animos, et potius unum tot Claudiis deprecantibus condonarent quam propter unius odium multorum preces aspernarentur. Se quoque id generi ac nomini dare nec cum eo in gratiam redisse, cuius adversae fortunae velit succursum. Virtute libertatem reciperatam esse: clementia concordiam ordinum stabiliri posse. Erant quos moveret sua magis pietate quam eius pro quo agebat causa; sed Verginius sui potius ut misererentur orabat filiaeque, nec gentis Claudiae regnum in plebem sortitae sed necessariorum Verginiae trium tribunorum preces audirent, qui ad auxilium plebis creati ipsi plebis fidem atque auxilium implorarent. Iustiores hae lacrimae videbantur. Itaque spe incisa, priusquam prodicta dies adesset, Appius mortem sibi conscivit. Subinde arreptus a P. Numitorio Sp. Oppius, proximus invidiae, quod in urbe fuerat cum iniustae vindiciae a collega dicerentur. Plus tamen facta iniuria Oppio quam non prohibita invidiae fecit. Testis productus, qui septem et viginti enumeratis stipendiis, octiens extra ordinem donatus donaque ea gerens in conspectu populi, scissa veste, tergum laceratum virgis ostendit, nihilum deprecans quin si quam suam noxam reus dicere posset, privatus iterum in se saeviret. Oppius quoque ductus in vincula est, et ante iudicii diem finem ibi vitae fecit. Bona Claudi Oppique tribuni publicavere. Collegae eorum exsilii causa solum verterunt; bona publicata sunt. Et M. Claudius, adsertor Verginiae, die dicta damnatus, ipso remittente Verginio ultimam poenam dimissus Tibur exsulatum abiit, manesque Verginiae, mortuae quam vivae felicioris, per tot domos ad petendas poenas vagati, nullo relicto sonte tandem quieverunt.
Traduzione all'italiano
Gaio Claudio, aborrendo i crimini dei decemviri e particolarmente ostile all'arroganza del nipote, si era ritirato a Regillo, luogo d'origine della sua famiglia. Pur essendo ormai avanti negli anni, era tornato a Roma per tentare di salvare proprio l'uomo i cui vizi lo avevano indotto a fuggire. Accompagnato da familiari e clienti, andando in giro per il foro vestito a lutto, fermava uno per uno i cittadini e li supplicava di non permettere che alla famiglia Claudia toccasse il marchio infamante di aver meritato l'arresto e la detenzione. Un uomo la cui immagine sarebbe stata fatta oggetto dei più alti onori da parte delle generazioni future, il legislatore e il fondatore del diritto romano, in quel momento giaceva incatenato tra ladri notturni e tagliagole comuni. Per il momento rivolgessero l'animo dall'ira alla comprensione e alla riflessione e, di fronte alle preghiere di tanti Claudi, ne perdonassero uno solo, piuttosto che respingere un numero così alto di suppliche, esclusivamente per l'odio verso quell'uno. Claudio aggiunse che lui stesso compiva quel gesto per il buon nome della famiglia, ma che non si era riconciliato con l'uomo al quale cercava di portare soccorso nella mala sorte. Col coraggio era stata riconquistata la libertà, con l'indulgenza si poteva ristabilire l'armonia tra le classi sociali. Alcuni furono toccati più dal suo attaccamento alla famiglia che dalla causa di colui per il quale si stava adoperando. Ma Verginio li invitava ad aver compassione piuttosto di lui e di sua figlia, pregandoli di dare ascolto più che alle suppliche della famiglia Claudia, che si era arrogata il diritto di tiranneggiare la plebe, a quelle dei parenti di Verginia, e cioè i tre tribuni che, eletti per sostenere la plebe, ora dalla plebe imploravano sostegno e protezione. Alla gente sembrò che queste lacrime fossero più giuste. Persa quindi ogni speranza, Appio si suicidò prima che arrivasse il giorno fissato per il processo. Sùbito dopo Publio Numitorio fece arrestare Spurio Oppio, il più odiato dei decemviri dopo Appio, perché presente in città quando il collega aveva pronunciato l'ingiusta sentenza di schiavitù provvisoria. A dir la verità provocarono il risentimento popolare nei confronti di Oppio più i misfatti commessi che quelli che non aveva impedito. Venne prodotto un teste che passò in rassegna le ventisette campagne militari a cui aveva partecipato meritandosi otto volte decorazioni speciali; dopo aver esibito queste decorazioni davanti al popolo, si strappò la tunica mostrando la schiena straziata dalla frusta e dichiarò che, se l'imputato era in grado di menzionare qualche sua colpa, scatenasse di nuovo, benché ora privato cittadino, la sua rabbia su di lui. Così anche Oppio finì in carcere, dove si tolse la vita prima del giorno del processo. I tribuni confiscarono le proprietà di Claudio e di Oppio. Gli ex-colleghi di decemvirato andarono in esilio e i loro beni vennero confiscati. Anche Marco Claudio, l'uomo che aveva rivendicato la proprietà di Verginia, fu processato e condannato. Essendogli stata risparmiata la pena di morte per l'intercessione dello stesso Verginio, fu rilasciato e andò in esilio a Tivoli. Così i Mani di Verginia - certo più fortunata da morta che da viva -, dopo aver vagato tra tante case per chiedere vendetta, ora che nessun colpevole era rimasto impunito, ebbero finalmente pace.