Versione originale in latino
Postquam vero comitia decemviris creandis in trinum nundinum indicta sunt, tanta exarsit ambitio, ut primores quoque civitatis - metu, credo, ne tanti possessio imperii, vacuo ab se relicto loco, haud satis dignis pateret - prensarent homines, honorem summa ope a se impugnatum ab ea plebe, cum qua contenderant, suppliciter petentes. Demissa iam in discrimen dignitas ea aetate iisque honoribus actis stimulabat Ap. Claudium. Nescires utrum inter decemviros an inter candidatos numerares; propior interdum petendo quam gerendo magistratui erat. Criminari optimates, extollere candidatorum levissimum quemque humillimumque, ipse medius inter tribunicios, Duillios Iciliosque, in foro volitare, per illos se plebi venditare, donec collegae quoque, qui unice illi dediti fuerant ad id tempus, coniecere in eum oculos, mirantes quid sibi vellet: apparere nihil sinceri esse; profecto haud gratvitam in tanta superbia comitatem fore; nimium in ordinem se ipsum cogere et volgari cum privatis non tam properantis abire magistratu quam viam ad continuandum magistratum quaerentis esse. Propalam obviam ire cupiditati parum ausi, obsecundando mollire impetum adgrediuntur. Comitiorum illi habendorum, quando minimus natu sit, munus consensu iniungunt. Ars haec erat, ne semet ipse creare posset, quod praeter tribunos plebi - et id ipsum pessimo exemplo - nemo unquam fecisset. Ille enimvero, quod bene vertat, habiturum se comitia professus, impedimentum pro occasione arripuit; deiectisque honore per coitionem duobus Quinctiis, Capitolino et Cincinnato, et patruo suo C. Claudio, constantissimo viro in optimatium causa, et aliis eiusdem fastigii civibus, nequaquam splendore vitae pares decemviros creat, se in primis, quod haud secus factum improbabant boni quam nemo facere ausurum crediderat. Creati cum eo M. Cornelius Maluginensis M. Sergius L. Minucius Q. Fabius Vibulanus Q. Poetelius T. Antonius Merenda K. Duillius Sp. Oppius Cornicen M'. Rabuleius.
Traduzione all'italiano
Ma quando venne annunciato che le elezioni dei decemviri si sarebbero tenute il terzo giorno di mercato, si scatenarono a tal punto le ambizioni che anche i cittadini più in vista - credo per paura che un simile potere, una volta lasciato libero il campo, potesse finire in mani non sufficientemente degne - cominciarono a sollecitare gli elettori, implorando da quella stessa plebe, con la quale avevano avuto non pochi scontri, una carica che avevano avversato con ogni mezzo. La prospettiva di dover lasciare in quel momento la posizione raggiunta, alla sua età, e dopo le cariche occupate, spronava Appio Claudio. Non si sapeva se annoverarlo tra i decemviri o tra i candidati. A volte si comportava come un aspirante alla magistratura e non come chi già la deteneva; diffamava gli ottimati, portava alle stelle i candidati più insignificanti e di bassi natali, andava girando qua e là per il foro in compagnia di ex-tribuni, con Duilii e Icilii, facendosi raccomandare da questi ultimi alla plebe. Finché anche i colleghi, i quali fino ad allora avevano dimostrato una straordinaria devozione nei suoi confronti, cominciarono a guardarlo stupiti, domandandosi che cosa gli passasse per la testa. Era chiaro che non agiva sinceramente: in un'indole così altezzosa tanta affabilità non era di certo senza scopo. Il suo troppo abbassarsi e il mescolarsi con privati cittadini non erano tanto gli atteggiamenti di uno ansioso di abbandonare una magistratura, quanto di uno che cercasse la strada migliore per prorogare la sua carica. Non osando opporsi apertamente alla sua sfrenata ambizione, cercano di frenarne gli slanci, assecondandolo. Essendo egli il collega più giovane, concordemente gli impongono di convocare i comizi. Si trattava di uno stratagemma per impedirgli di autoeleggersi, cosa che al di fuori dei tribuni della plebe - e questo era di per sé il peggiore dei precedenti - non aveva mai osato fare nessuno. Ma Appio, in realtà, pur avendo promesso con una preghiera augurale di presiedere le elezioni, riuscì a trasformare un ostacolo in un'occasione propizia. In un primo tempo, grazie ad alleanze elettorali, mise da parte nella corsa alla candidatura i due Quinzi, Capitolino e Cincinnato, suo zio paterno Gaio Claudio, da sempre partigiano della causa aristocratica, nonché altri cittadini dello stesso rango. Proclamò decemviri invece degli individui che per eccellenza di vita non stavano alla pari degli esclusi, e primo se stesso, cosa questa che i cittadini onesti disapprovarono: nessuno avrebbe creduto che osasse arrivare a tanto. Insieme a lui furono eletti Marco Cornelio Maluginense, Marco Sergio, Lucio Minucio, Quinto Fabio Vibulano, Quinto Petilio, Tito Antonio Merenda, Cesone Duilio, Spurio Oppio Cornicino e Manio Rabuleio.