Versione originale in latino
Alteri consuli M. Atilio nequaquam tam facile bellum fuit. Cum ad Luceriam duceret legiones quam oppugnari ab Samnitibus audierat, ad finem Lucerinum ei hostis obvius fuit. Ibi ira vires aequavit; proelium varium et anceps fuit, tristius tamen eventu Romanis, et quia insueti erant vinci et quia digredientes magis quam in ipso certamine senserunt quantum in sua parte plus volnerum ac caedis fuisset. Itaque is terror in castris ortus, qui si pugnantes cepisset, insignis accepta clades foret; tum quoque sollicita nox fuit iam invasurum castra Samnitem credentibus aut prima luce cum victoribus conserendas manus. Minus cladis, ceterum non plus animorum ad hostes erat. Ubi primum inluxit, abire sine certamine cupiunt. Sed via una et ea ipsa praeter hostes erat; qua ingressi praebuere speciem recta tendentium ad castra oppugnanda. Consul arma capere milites iubet et sequi se extra vallum; legatis, tribunis, praefectis sociorum imperat quod apud quemque facto opus est. Omnes adfirmant se quidem omnia facturos sed militum iacere animos; tota nocte inter volnera et gemitus morientium vigilatum esse; si ante lucem ad castra ventum foret, tantum pavoris fuisse ut relicturi signa fuerint; nunc pudore a fuga contineri, alioqui pro victis esse. Quae ubi consul accepit, sibimet ipsi circumeundos adloquendosque milites ratus, ut ad quosque venerat, cunctantes arma capere increpabat: quid cessarent tergiversarenturque? Hostem in castra venturum nisi illi extra castra exissent, et pro tentoriis suis pugnaturos si pro vallo nollent. Armatis ac dimicantibus dubiam victoriam esse; qui nudus atque inermis hostem maneat, ei aut mortem aut servitutem patiendam. Haec iurganti increpantique respondebant confectos se pugna hesterna esse; nec virium quicquam nec sanguinis superesse; maiorem multitudinem hostium apparere quam pridie fuerit. Inter haec appropinquabat agmen; et iam breviore intervallo certiora intuentes vallum secum portare Samnitem adfirmant nec dubium esse quin castra circumvallaturi sint. Tunc enimvero consul indignum facinus esse vociferari tantam contumeliam ignominiamque ab ignavissimo accipi hoste. "etiamne circumsedebimur" inquit "in castris, ut fame potius per ignominiam quam ferro, si necesse est, per virtutem moriamur?" Facerent - quod di bene verterent - quod se dignum quisque ducerent; consulem M. Atilium vel solum, si nemo alius sequatur, iturum adversus hostes casurumque inter signa Samnitium potius quam circumvallari castra Romana videat. Dicta consulis legati tribunique et omnes turmae equitum et centuriones primorum ordinum approbavere. Tum pudore victus miles segniter arma capit, segniter e castris egreditur longo agmine nec continenti; maesti ac prope victi procedunt adversus hostem nec spe nec animo certiorem. Itaque simul conspecta sunt Romana signa, extemplo a primo Samnitium agmine ad novissimum fremitus perfertur exire, id quod timuerint, ad impediendum iter Romanos; nullam inde ne fugae quidem patere viam; illo loco aut cadendum esse aut stratis hostibus per corpora eorum evadendum.
Traduzione all'italiano
Per l'altro console, Marco Atilio, la campagna non fu certo altrettanto facile. Mentre era alla guida delle legioni sulla strada per Luceria - che aveva saputo attaccata dai Sanniti -, gli si parò innanzi il nemico ai confini del territorio di Luceria. Fu la rabbia a rendere pari le forze in campo: la battaglia si svolse nell'incertezza e a fasi alterne, ma il verdetto finale fu più pesante per i Romani, sia perché non erano abituati alla sconfitta, sia perché all'atto di allontanarsi dal campo, più ancora che nel pieno dello scontro, si accorsero quanto fossero numericamente superiori le loro perdite e i loro feriti. Perciò tra i soldati al rientro al campo ci fu una tale ondata di sconforto, che se solo li avesse colti nel corso della battaglia li avrebbe portati a una pesante sconfitta. La notte fu ugualmente carica di tensioni, perché i Romani erano convinti che i Sanniti attaccassero di lì a poco l'accampamento, o che altrimenti alle prime luci del giorno si dovesse ricominciare a combattere col nemico reduce dalla vittoria. Gli avversari avevano subito perdite minori, anche se non potevano contare su un morale più alto. Non appena fu giorno, volevano andarsene senza combattere, ma c'era una sola strada e passava proprio vicino al nemico. Così, essendosi messi in marcia attraverso quella via, diedero ai Romani l'impressione di essere diretti ad attaccare l'accampamento. Il console diede disposizione agli uomini di armarsi e di seguirlo al di là della trincea, e ordinò ai luogotenenti, ai tribuni e ai prefetti alleati ciò che ciascuno di essi avrebbe dovuto fare. Tutti si dissero pronti a eseguire ogni ordine, ma rilevarono che i soldati erano demoralizzati, dopo aver passato una notte insonne tra le ferite e i lamenti dei moribondi. Se i nemici si fossero avvicinati all'accampamento romano prima del sorgere del sole, la paura sarebbe stata così grande da far abbandonare agli uomini i posti di combattimento. Al momento a trattenerli dalla fuga era solo la vergogna, ma per il resto erano come degli sconfitti. Quando il console udì queste parole, decise di andare in giro di persona a parlare ai soldati, e appena arrivava presso i vari reparti rimproverava sùbito quelli che indugiavano a vestire le armi, e domandava quale fosse il motivo di tutti quei tentennamenti e quelle esitazioni. Diceva che i nemici sarebbero entrati nell'accampamento, se essi non ne fossero usciti, e che si sarebbero trovati a combattere di fronte alle proprie tende, se non volevano andare a combattere al di là della trincea: la vittoria - ricordava - è sì incerta per chi prende le armi e va a combattere, ma quelli che attendono il nemico disarmati e senza difendersi sono destinati alla schiavitù o alla morte. Di fronte a queste aspre rampogne, gli uomini replicavano di essere stremati per la battaglia del giorno prima, di non avere più a disposizione né forze né sangue, e di aver l'impressione che il numero dei nemici fosse ancora superiore rispetto alla giornata precedente. Nel frattempo l'esercito nemico si stava avvicinando, e quando lo si poté distinguere per il diminuire della distanza, gli uomini cominciarono a dire che i Sanniti avevano con sé i paletti per la trincea, e che avrebbero certamente circondato l'accampamento con una palizzata. Allora il console gridò che era indegno accettare una simile vergognosa umiliazione da un nemico vile più di ogni altro, e aggiunse: "Dunque ci lasceremo assediare anche all'interno dell'accampamento, e moriremo di fame con ignominia, piuttosto che valorosamente - se sarà necessario - a colpi di spada?". Ciascuno si regolasse nel modo che gli sembrava più degno di sé (e che gli dèi lo aiutassero): il console Marco Atilio, se nessun altro lo voleva seguire, avrebbe marciato contro il nemico anche da solo cadendo in mezzo alle insegne dei Sanniti, piuttosto che vedere l'accampamento romano circondato da una palizzata. I luogotenenti, i tribuni, tutti gli squadroni di cavalleria e i centurioni dei reparti scelti salutarono con un applauso le parole del console. Allora i soldati, toccati nell'onore, si armarono contro voglia, uscirono contro voglia dal campo schierati in una fila lunga e rarefatta, e con l'aria di chi era già battuto marciarono contro il nemico che non aveva certo né il morale più alto né maggiori speranze di vittoria. E così, non appena i Sanniti videro le insegne romane, dalle prime file alle ultime cominciò sùbito a correre voce che i Romani - come essi temevano - stavano uscendo dall'accampamento per impedire loro il passaggio. Quindi non c'era più alcuno sbocco aperto nemmeno per la fuga, ed era inevitabile cadere lì o uscire vivi passando sui corpi dei nemici stesi a terra.