Versione originale in latino
Q. Inde Fabius quintum et P. Decius quartum consulatum ineunt, tribus consulatibus censuraque collegae, nec gloria magis rerum, quae ingens erat, quam concordia inter se clari. Quae ne perpetua esset, ordinum magis quam ipsorum inter se certamen intervenisse reor, patriciis tendentibus ut Fabius in Etruriam extra ordinem provinciam haberet, plebeiis auctoribus Decio ut ad sortem rem vocaret. Fuit certe contentio in senatu et, postquam ibi Fabius plus poterat, revocata res ad populum est. In contione, ut inter militares viros et factis potius quam dictis fretos, pauca verba habita. Fabius, quam arborem consevisset, sub ea legere alium fructum indignum esse dicere; se aperuisse Ciminiam silvam viamque per devios saltus Romano bello fecisse. Quid se id aetatis sollicitassent, si alio duce gesturi bellum essent? Nimirum adversarium se, non socium imperii legisse - sensim exprobrat - et invidisse Decium concordibus collegis tribus. Postremo se tendere nihil ultra quam ut, si dignum provincia ducerent, in eam mitterent; in senatus arbitrio se fuisse et in potestate populi futurum. P. Decius senatus iniuriam querebatur: quoad potuerint, patres adnisos ne plebeiis aditus ad magnos honores esset; postquam ipsa virtus pervicerit ne in ullo genere hominum inhonorata esset, quaeri quemadmodum inrita sint non suffragia modo populi sed arbitria etiam fortunae et in paucorum potestatem vertantur. Omnes ante se consules sortitos provincias esse: nunc extra sortem Fabio senatum provinciam dare, - si honoris eius causa, ita eum de se deque re publica meritum esse ut faveat Q. Fabi gloriae quae modo non sua contumelia splendeat. Cui autem dubium esse, ubi unum bellum sit asperum ac difficile, cum id alteri extra sortem mandetur, quin alter consul pro supervacaneo atque inutili habeatur? Gloriari Fabium rebus in Etruria gestis; velle et P. Decium gloriari; et forsitan, quem ille obrutum ignem reliquerit, ita ut totiens novum ex improviso incendium daret, eum se exstincturum. Postremo se collegae honores praemiaque concessurum verecundia aetatis eius maiestatisque; cum periculum, cum dimicatio proposita sit, neque cedere sua sponte neque cessurum. Et si nihil aliud ex eo certamine tulerit, illud certe laturum ut quod populi sit populus iubeat potius quam patres gratificentur. Iovem optimum maximum deosque immortales se precari, ut ita sortem aequam sibi cum collega dent si eandem virtutem felicitatemque in bello administrando daturi sint. Certe et id natura aequum et exemplo utile esse et ad famam populi Romani pertinere, eos consules esse quorum utrolibet duce bellum Etruscum geri recte possit. Fabius nihil aliud precatus populum Romanum quam ut, priusquam intro vocarentur ad suffragium tribus, Ap. Claudi praetoris allatas ex Etruria litteras audirent, comitio abiit. Nec minore populi consensu quam senatus provincia Etruria extra sortem Fabio decreta est.
Traduzione all'italiano
Entrarono poi in carica Quinto Fabio (console per la quinta volta) e Publio Decio (per la quarta), che erano già stati colleghi in tre consolati e nella censura, celebri per l'armonia di rapporti più ancora che per la gloria militare, per altro ragguardevole. Ma a impedire che il clima di armonia durasse in perpetuo fu una divergenza di vedute, dovuta - a mio parere - più che a loro stessi alle rispettive classi sociali di provenienza: mentre i patrizi premevano perché a Fabio venisse assegnato il comando in Etruria con un provvedimento straordinario, i plebei spingevano Decio a esigere il sorteggio. Se ne discusse in senato e, quando fu chiaro che in quel contesto Fabio avrebbe avuto la meglio, si finì col ricorrere al giudizio del popolo. Di fronte all'assemblea, così come si addiceva a uomini d'armi abituati più ai fatti che alle parole, i consoli pronunciarono due brevi discorsi. Fabio sosteneva non fosse giusto che altri raccogliesse i frutti dall'albero che lui aveva piantato: era stato lui a inaugurare la selva Ciminia e ad aprire la strada agli eserciti romani attraverso quegli scoscesi dirupi. Perché andarlo tanto a sollecitare, se poi intendevano gestire la guerra con un altro comandante? Si rimproverava di aver scelto un avversario, non un compagno nell'esercizio del comando, e rinfacciava a Decio di aver tradito lo spirito di concordia col quale essi avevano insieme condotto tre consolati. Concluse dicendo di non volere altro se non di essere inviato su quel fronte di guerra, qualora però lo ritenessero degno del comando. Quanto a se stesso, si sarebbe rimesso alla volontà del popolo, così come si era rimesso a quella del senato. Publio Decio si lamentava dell'affronto subito da parte del senato, sostenendo che i patrizi si erano sforzati, finché era in loro potere, di impedire ai plebei l'accesso alle magistrature più importanti. Ma poi, da quando i valori morali erano riusciti da soli a superare i pregiudizi sociali, gli ottimati cercavano il modo di eludere non solo il voto del popolo, ma anche le decisioni della sorte, vincolandola alla volontà arbitraria di pochi individui. Tutti i consoli che li avevano preceduti si erano divisi le zone di operazioni ricorrendo al sorteggio: adesso il senato affidava a Fabio il comando della campagna senza alcun sorteggio. Se ciò era dovuto a un atto di onore nei suoi confronti, i meriti di quell'uomo nei riguardi dello Stato e di lui stesso erano così grandi, da essere pronto a favorirne la gloria, purché non risplendesse a spese del suo disonore. Infatti, quando ci si trovava di fronte a una guerra dura e difficile e la si affidava a uno dei due consoli senza il sorteggio, a chi poteva non venire in mente che l'altro console era considerato inutile e di troppo? Fabio vantava imprese compiute in Etruria: anche Publio Decio voleva avere la possibilità di gloriarsene. E forse avrebbe spento lui il fuoco che quell'altro aveva lasciato acceso sotto la cenere, e che tante volte sarebbe potuto divampare, all'improvviso, in un nuovo incendio. Per concludere, avrebbe lasciato al collega premi e riconoscimenti per il rispetto dovuto all'età e alla dignità della persona: quando però si fosse trattato di andare incontro al pericolo o di gettarsi nella mischia, non si sarebbe tirato indietro di sua volontà, né lo avrebbe fatto in séguito. E se non avesse ottenuto nient'altro da quel confronto, avrebbe almeno ricavato questo: e cioè che fosse il popolo a ordinare ciò che spettava al popolo di decidere, piuttosto che a concederlo, come un loro favore, fossero i patrizi. Pregava Giove Ottimo Massimo e gli dèi immortali di concedergli col sorteggio opportunità pari a quelle del collega, ma che insieme gli concedessero lo stesso valor militare e la stessa buona stella nella conduzione delle operazioni. Era certo naturale ed esemplare e in sintonia con la fama del popolo romano che i consoli avessero una personalità tale da permetter loro di condurre con esiti positivi la campagna in Etruria, a chiunque dei due toccasse il comando in capo. Fabio, rivolta al popolo un'unica preghiera prima che le tribù venissero chiamate al voto - e cioè di ascoltare i rapporti inviati dall'Etruria dal pretore Appio Claudio -, lasciò l'assemblea. Il comando delle operazioni venne affidato a Fabio senza sorteggio, con un consenso del popolo non inferiore a quello del senato.