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Prologo (1 - 48)
Nutrice: Oh, se la nave Argo non avesse mai trasvolato1 le azzurre Simplegadi verso la terra dei Colchi, né mai nelle foreste del monte Pelio fosse caduto tagliato il pino, né avesse armato di remi le mani di uomini nobili2 , che trasferirono a Pelia il vello d’oro. La mia padrona, Medea, non avrebbe mai raggiunto per mare le torri3 della terra di Iolco, colpita nell’animo dall’amore per Giasone; né, dopo aver persuaso le figlie di Pelia ad uccidere il padre, abiterebbe questa città di Corinto con suo marito ed i suoi figli, cercando di piacere alla comunità4 dei cittadini la cui terra aveva raggiunto e cercando di andare d’accordo in tutto con Giasone: questa risulta la fortuna più grande, quando una donna non sia in disaccordo con suo marito. Ora, però, tutto è ostile, e gli affetti più cari vengono meno. Infatti, dopo aver tradito i suoi stessi figli e la mia padrona, Giasone giace a letto in nozze regali, avendo sposato la figlia di Creonte, che regna su questa terra. E l’infelice Medea, disonorata, reclama a gran voce i giuramenti ed invoca il grandissimo patto di fedeltà stipulato con la mano destra5, e chiama a testimoni gli dèi di quale contraccambio riceve da Giasone. Giace senza mangiare, abbandonandosi ai dolori, consumandosi per tutto il tempo in lacrime, da quando ha capito di essere stata oltraggiata da suo marito, senza mai alzare gli occhi né sollevare il volto da terra: come una roccia o un’onda del mare6 dà ascolto ai consigli degli amici. Solo a tratti, volgendo il candido collo, rimpiange tra sé e sé suo padre, la terra e la casa, avendo tradito i quali giunse qui con il marito che ora la tiene in spregio. L’infelice, oltraggiata ora sa per effetto della sua sventura quale importanza abbia non essere privata della terra paterna. Odia i suoi figli, e non prova gioia a vederli. Ho paura di lei7, che macchini qualche cosa di insolito. [Infatti è una mente implacabile, e non sopporterà di patire ingiustamente: io la conosco e ho paura di lei, che spinga il pugnale acuto attraverso le viscere, dopo essere entrata in silenzio nella camera dove è disteso il letto, o che uccida il re ed il suo sposo, e subisca in seguito una sventura ancor più grave.]8 È spietata, e non facilmente, entrando in contrasto con lei, si riporterà una vittoria. Ma ecco i giungere suoi figli, che hanno smesso di giocare, e che nulla sanno delle disgrazie della loro madre: una mente giovane non ama soffrire.
Note
1 διαπτασθαι = διαπτεσθαι , inf. aor. II di διαπετομαι.
2 I versi 1-6 attestano la figura retorica dell’υστερον - προτερον, per cui si inverte la successione logica o cronologica degli avvenimenti, posponendo ciò che va menzionato per primo. La nutrice rievoca innanzitutto l’impresa degli Argonauti, poi la costruzione della nave Argo. Il risultato dell’uso di questa figura retorica è quello di una forte enfatizzazione: non solo l’impresa degli Argonauti non avrebbe mai dovuto aver luogo, ma nemmeno si sarebbe dovuta costruire la nave che quell’impresa ha reso possibile.
3 Metonimia: le torri per la città, ossia la parte per il tutto.
4 Qui il testo è corrotto, e l’ultimo editore di Euripide, il Diggle, pone φυγῃ πολιτων tra due croci, per localizzare la corruttela. Il testo tramandato dai manoscritti (mss.), ανδανουσα μεν / φυγῃ πολιτων ων αφικετο χθτονα, letteralmente significa: “Cercando di piacere alla fuga dei cittadini di cui aveva raggiunto la terra”, che non dà ovviamente senso. Per difendere la lezione φυγη, attestata dai mss., si è ipotizzato che in questo testo ricorra il fenomeno dell’attrazione inversa del pronome relativo, per cui il pronome ων attrae al suo caso il termine antecedente, trasformando cioè in πολιτων il dativo πολιταις: di conseguenza, il dativo φυγῃ si dovrebbe intendere non come dativo di termine, ma come dativo strumentale/modale e il testo verrebbe a significare: “Cercando di piacere con la fuga ai cittadini di cui aveva raggiunto la terra.”
È un’ipotesi che non regge per due ragioni:
1) quello dell’attrazione inversa è un costrutto raro, che appartiene ad un registro linguistico forbito. Qui, a parlare, è la τροφος di Medea, cioè una schiava, per di più straniera: è piuttosto strano che un personaggio del genere ricorra a costrutti così preziosi, tanto più che, nel resto della sua ρησις, ella non fa uso di un linguaggio particolarmente ricercato;
2) la trasformazione in dativo strumentale di φυγῃ non soddisfa comunque il senso, in quanto si viene a dire che Medea, con la sua fuga (cioè fuggendo), ha cercato di piacere ai Corinzi. Ora, quando si stabilisce a Corinto, Medea era già fuggita, sia dalla Colchide, sia da Iolco. Oltretutto, non si capisce a quale delle due fughe si alluda.
La soluzione più ragionevole pare quella proposta dal Sauter, che ha emendato in φυλῃ il tràdito (= tramandato) φυγῃ, ottenendo il significato proposto in traduzione.
5 Qui, alla lezione δεξιας (= acc. pl.), si è sostituita la lezione δεξιας(= gen. sg.) tramandata da un ramo della tradizione manoscritta.
6 Questi versi sono un’eco omerica con cui la nutrice allude alla disumanità di Medea: il testo echeggiato è Il. XVI, 34-35, in cui Patroclo, rivolgendosi ad Achille, gli dice: “A te non fu padre Pèleo cavaliere, non fu madre Teti: il glauco mare ti ha partorito, o i dirupi rocciosi, tanto è duro il tuo animo.” (tr. Rosa Calzecchi Onesti)
7 Qui ricorre la figura retorica dell’anastrofe, che consiste nell’enfatizzare un termine togliendolo dalla posizione logica in cui dovrebbe trovarsi. A regola di grammatica, il costrutto sarebbe: δεδοικα μη αυτη τι βουλευση νεον. Per dare, però, maggiore risalto all’αυτη che allude a Medea, lo si anticipa facendone il complemento oggetto della reggente, anziché il soggetto della subordinata completiva. In questo modo, l’allusione a Medea ricorre nella proposizione gerarchicamente più importante, con una forte enfatizzazione: c’è da temer Medea prima ancora di quello che fa. Significativamente, poi, l’anastrofe si ripete identica ai vv. 282-283, dove a parlare è Creonte: δεδοικα σ', ουδεν δει παραμπισχειν λογους, μη μοι τι δρασης παιδ'ανηκεστον κακον = "ho paura di te, non bisogna velare le parole (= non bisogna parlare in modo oscuro), che tu faccia a mia figlia un male irreparabile.” Anche in questo caso il timore di Medea precede quello di ciò che può mettere in atto.
8 Questo testo è fortemente controverso, e ha destato i sospetti di più di un filologo per diverse ragioni:
1) le frequenti ripetizioni (δεδοικα δ'αυτην v. 37 – δειμαινω τε νιν v. 39; βαρεια γαρ φρην v. 38 – δεινη γαρ v. 44) che generano, nel giro di pochi versi, una fastidiosa insistenza su concetti, che risultano banalizzati anziché enfatizzati;
2) la strana gradatio che risulta da questi versi: la nutrice inizialmente enuncia un timore generico (δεδοικα δ'αυτην, μη τι βουλευση νεον); poi, questo timore si fa sempre più circostanziato e specifico, fino a configurarsi come predizione esatta di ciò che avverrà (μη θεκτον ωση φασγανον δι'ηπατος ecc. vv. 39-40), per poi farsi nuovamente generico (Δεινη γαρ, ουτοι ραδιως τγε συμβαλων / εχθραν τις αυτη καλλινικοην οισεται);
3) il fatto che vv. 40-41 ricorrano pressoché identici ai vv.379-380, in cui Medea inizia a macchinare la sua vendetta. Lì, però, risultano meglio contestualizzati. Questa ripetizione meccanica è la terza stranezza di questo passo.
Su di esso, pertanto, si sono registrati più interventi di espunzione (= eliminazione dal testo attraverso chiusura del passo da eliminare entro parentesi quadre): il Dindorf espunge l’intero blocco dei vv.38-43; il Musgrave propone l’espunzione del solo v. 41, mentre il Valkenaer e il Pierson espungono il solo v. 42, per la menzione della ”uccisione dello sposo”, che Medea non perpetuerà; il Hermann propone l’espunzione dei vv. 41-43, mentre il Nauck espunge i vv. 40-43. Chi espunge parti di testo meno estese, si limita di solito ad eliminare in vari modi la ripetizione meccanica dei vv. 40-41, senza però prendere posizione sulle altre ripetizioni di questo passo. Di fatto, i vv. 38-43 sono stilisticamente attribuibili ad Euripide, e chi interviene meno radicalmente su questo testo motiva con questa ragione la sua maggiore prudenza. L’ultimo editore di Euripide, il Diggle, accoglie la proposta del Dindorf, che, pur nella sua radicalità, pare la più ragionevole, in quanto risolve tutte le stranezze di questi versi, per i quali si può pensare all’interpolazione operata da un attore, che, per allungare la parte della nutrice, avrebbe lavorato di “centonazione”, adattando a questo passo versi provenienti in parte dalla stessa Medea, in parte da altre tragedie euripidee.
[newpage] Primo Episodio 214 - 356
Medea: Donne di Corinto, sono uscita di casa perché voi non abbiate nulla da rimproverarmi: so infatti che molti uomini si sono resi1 odiosi, chi stando lontano dalla vista degli altri, chi stando di fronte all’uscio di casa; altri ancora, poi, per il loro contegno riservato, si sono procurati la cattiva reputazione dell’indifferenza. Non c’è giustizia negli occhi degli uomini, chiunque di loro, prima di conoscere bene l’interiorità2 di un uomo, lo odia al solo vederlo, pur senza aver mai subito offese. È bene che uno straniero si adatti alla città in cui vive: ed io non approvo3 un residente della città che, divenuto arrogante, è scontroso con i cittadini per ignoranza. Ma a me, questa disgrazia inaspettata che mi è caduta addosso ha rovinato la vita. Sono finita4, ed avendo perso la gioia di vivere desidero morire, o amiche. Il mio sposo, in cui io avevo tutto – e tu lo sai bene5 -, si è rivelato il peggiore degli uomini. Di tutti gli esseri dotati di vita e di senno, noi donne siamo6 le creature più infelici. In primo luogo, ci tocca, con grande dispendio di ricchezze, comprarci un marito e prenderci un padrone del nostro corpo; e questo è un male ancor peggiore del (primo) male7. E in questo c’è una grandissima incertezza, o acquistarcelo cattivo o buono: infatti per le donne non sono onorevoli i divorzi, e non è possibile ripudiare lo sposo. Giungendo poi, a nuovi costumi e a nuove regole di vita occorre essere indovina, perché non si sa da casa propria chi ci si troverà ad avere per convivente. E nel caso in cui conviva con noi, che ci siamo ben arrovellate, uno sposo che non impone con la forza il giogo matrimoniale, la vita è invidiabile: altrimenti, è meglio morire. Il marito, quando non ne può più di stare con i familiari, esce di casa e mette fine al fastidio del suo cuore [andando o da un amico o da un coetaneo]8. Noi, invece, siamo costrette a guardare ad una sola persona. Dicono di noi che viviamo a casa nostra una vita senza pericoli, mentre loro combattono con la lancia. Lo dicono a torto; perché io preferirei tre volte stare accanto allo scudo che partorire una volta sola. Ma per me e per te non vale lo stesso discorso. Tu hai questa città, la casa paterna, agi di vita e la compagnia degli amici: io, invece, che sono sola e priva della mia patria, sono oltraggiata da mio marito, portata via come preda da una terra straniera, senza avere una madre, un fratello, e neppure un parente per salpare gli ormeggi da questa sventura9. Tanto, perciò, io voglio ottenere da te, nel caso in cui io trovi una via d’uscita ed un artificio per ripagare del giusto compenso di questi mali il mio sposo [e colui che gli ha dato in sposa la figlia che lo ha sposato]10, tacere. Una donna, in tutto il resto, è piena di paure, ed è debole di fronte alla forza ed alla vista delle armi: ma quando si trovi ad essere colpita negli affetti, non c’è altro temperamento più feroce di lei.Coro: Così farò: hai ragione a farla pagare al tuo sposo, o Medea: non mi stupisco che tu pianga la tua sorte. Ma vedo giungere anche Creonte, re di questa terra, messaggero di nuove decisioni.
Creonte: A te, torva in viso ed ostile al tuo sposo, o Medea, io ingiungo di andartene in esilio da questa terra, prendendo con te i tuoi due figli, e di non indugiare, perché io stesso vengo come nunzio di questa decisione, e non me ne tornerò a casa prima di averti cacciato fuori dai confini della mia terra.
Med.: Ahimé: sono completamente rovinata, me infelice. I miei nemici spiegano le vele contro di me11, e non c’è via d’uscita agevole dalla mia sventura. Ma, pur soffrendo ingiustamente, io parlerò: per quale ragione12 mi bandisci dalla tua terra, Creonte?
Cr.: Ho paura di te, non bisogna fare giri di parole, che tu faccia a mia figlia un male irreparabile13 . E molti indizi concorrono a questo mio timore14: tu sei per nascita accorta ed esperta in molti mali, e ti affliggi per essere stata privata del letto nuziale del tuo sposo. So per sentito dire che tu minacci, come mi riferiscono, di far qualcosa a chi ha dato in sposa la figlia, allo sposo ed alla sposa. Da questi pericoli mi guarderò prima di patirli. È meglio per me venirti in odio ora, o donna, che piangere dopo per essere stato debole.
Med.: Ahimé! Ahimé!15 Non ora per la prima volta, ma spesso, o Creonte, la mia fama mi ha danneggiato e mi ha causato molti mali. È bene che qualunque uomo sia nato assennato non allevi mai figli troppo saggi: a parte ogni altra accusa, che hanno (=che si attirano), di indolenza, si procurano l’odiosa invidia da parte dei concittadini. Portando agli ignoranti16 nuove conoscenze, sembrerai essere inutile, e non saggio: e d’altra parte, essendo considerato migliore di coloro che danno l’impressione di avere svariate conoscenze, alla città risulterai fastidioso17. Ed anch’io ho in comune questa sorte. Poiché sono saggia, per gli uni sono odiosa [per gli altri inoperosa, per altri ancora di carattere opposto]18 , per gli altri molesta: eppure io non sono troppo sapiente. Tu dunque hai paura di me: temi di patire un qualche cosa di sconveniente? Non sono in condizione tale – non aver paura di noi19 , o Creonte – da poter far del male a chi detiene il potere. Tu, infatti, che torto mi hai fatto? Hai dato tua figlia in sposa a chi ti piaceva. Ma io odio il mio sposo; tu, invece, credo, hai fatto ciò da saggio (ti sei comportato da…). Ora, io non invidio che le tue faccende vadano bene; sposatevi, state bene. Ma lasciatemi vivere in questo paese. Infatti, pur essendo oltraggiati, taceremo, perché siamo vinti da chi è più forte di noi.
Cr.: Pronunci parole dolci ad ascoltarsi, ma dentro il tuo animo il mio timore è che tu mediti qualche male20 : per questo mi fido di te meno di prima. Una donna rancorosa, come anche un uomo21 , è più facile da controllare di chi sa tacere ad arte. Ma vattene più in fretta che puoi, non dir parola: perché così è deciso, e non hai artificio (cui aggrapparti) per rimanere presso di noi essendo in odio a me.
Med.: No, (ti supplico) per le tue ginocchia e per la tua figlia giovane sposa.
Cr.: Sprechi le tue parole: non riuscirai mai a persuadermi.
Med.: Mi manderai via e non avrai alcun ritegno per le mie suppliche?
Cr.: Amo te non più della mia casa.
Med.: O patria, quale ricordo ora ho certo di te!
Cr.: Figli a parte, anche per me è il bene di gran lunga più caro.
Med.: Ahimé, che grande sciagura sono le passioni d’amore per gli uomini!
Cr.: A seconda di come, credo, si presentino le vicende della vita.
Med.: O Zeus, non ti sfugga colui che è il responsabile di questi mali!
Cr.: Striscia via di qui, o sciagurata, e liberami dalle sofferenze.
Med.: Siamo noi a soffrire e non abbiamo alcun bisogno di soffrire22 .
Cr.: Tra poco sarai portata via a forza dalle mani dei miei servi.
Med.: No, non questo, ma ti supplico, o Creonte…
Cr.: Mi vuoi dare ancora dei fastidi, come sembra, o donna.
Med.: Ce ne andremo in esilio. Non ho chiesto di ottenere questo da te23 .
Cr.: E allora perché ti ostini e non mi lasci andar la mano?
Med.: Concedimi di rimanere per questo solo giorno e di darmi pensiero di dove andremo in esilio e di trovare un sostegno per i miei figli, dal momento che il loro padre non si preoccupa affatto di darsi da fare per i suoi figli. Abbi compassione di loro: anche tu sei padre di figli: è ragionevole che tu con loro sia benevolo. Della mia sorte non mi do pensiero, se andremo in esilio, ma piango loro caduti in disgrazia (opp.: colpiti dalla sventura).
Cr.: Il mio volere non è affatto quello di un tiranno, e per aver molti scrupoli molte volte ci ho rimesso24 . Anche ora vedo bene di commettere un errore, o donna, ma ad ogni modo otterrai ciò che chiedi. Ma ti avverto: se il giorno di domani 25 vedrà te e i tuoi figli dentro ai confini di questa terra, tu morrai: le promessa che ti ho appena fatto non è mendace. [Ora, se devi restare, resta ancora per un giorno: nessun male farai di quelli che temo.]26
1 Il γεγωτας del testo è participio perfetto III di γεγαα, perfetto alternativo (e più raro) di γεγονα. Sempre da γεγαα deriva il participio γεγως del 223.
2 Metonimia: Medea dice: “Prima di conoscere le interiora di un uomo”, usando il concreto per l’astratto.
3 Ηνεσα: aoristo gnomico. Medea esprime qui un parere da lei considerato assolutamente valido, sempre, comunque e dovunque. Oltre a questo, c’è da notare il gioco sulla differenza di significato tra αστος e πολιτης: il πολιτης è il “cittadino per nascita”, mentre l’αστος è colui che “risiede” in una città in cui non è nato, ed è quindi privo dei diritti politici.
4 Lett.: “Me ne vado” (οιχομαι)
5 Anche su questo punto, il testo risulta corrotto: i mss. attestano: εν ῳ γαρ ην μοι παντα γιγνωσκειν καλως / κακιστος ανδρων εκβεβηχ'ουμως ποσις, cioè: “il mio sposo, nel quale mi era possibile conoscere tutto, è risultato il peggiore degli uomini.” Il significato di questo testo sfugge: non si capisce in che senso Medea potesse “conoscere tutto” nel suo sposo. L’imbarazzo di fronte al γιγνωσκειν tramandato dai mss. è rivelato da alcune traduzioni. L’Ammendola traduce “il mio sposo, dal quale dipendeva che io vedessi tutto roseo”, con un distacco dal testo molto eloquente. Il Regenbogen, nel tentativo di difendere il tràdito γιγνωσκειν, lo intende come un infinito di limitazione, facendo di ην μοι παντα un dativo di possesso: “Il mio sposo, nel quale io avevo tutto, a ben vedere si è rivelato il peggiore degli uomini”: tuttavia, data l'esistenza del costrutto εστι τινι + infinito (= è possibile, è lecito a qualcuno fare qualcosa), è ben difficile separare γιγνωσκειν dal precedente ην μοι senza che vi sia un qualche elemento (ad es. un δε), che effettivamente li stacchi. Di qui, vari tentativi di emendamento. Il Canter propone di correggere γιγνωσκειν in γιγνωσκω; il Page propone di emendare γιγνωσκειν in γιγνωσκει, mentre il Musgrave propone la congettura γιγνωσκεις. In tutti i casi, per effetto della correzione, il costrutto εν ῳ γαρ ην μοι παντα diviene dativo di possesso (“il mio sposo, nel quale io avevo tutto”, per l’appunto) mentre γιγνωσκειν/γιγνωσκω/γιγνωσκει/ γιγνωσκεις καλως diventa un inciso che, a seconda dell’emendamento accolto, significa: “lo so bene”, oppure “e tu lo sai bene”, oppure ancora “e lui (Giasone) lo sa bene”. Tutti e tre gli emendamenti restituiscono un senso soddisfacente e convergono nell’individuazione dell’errore, nato dal fraintendimento del costrutto del dativo di possesso e dal mancato riconoscimento di un’espressione detta per inciso (fraintendimento possibilissimo, vista l’assenza di punteggiatura nei testi antichi). Delle tre congetture, si accetta quella del Musgrave perché più coerente con l’intendimento di Medea, che nella sua ρησις cerca di conquistarsi la solidarietà delle donne di Corinto, coinvolgendole nella sua situazione: “Il mio sposo, nel quale io avevo tutto, e tu lo sai bene.” Il coro, costituito dalle donne di Corinto, sanno bene che cosa rappresenti il marito per una donna, cioè l’unica fonte di sostentamento.
6 Qui Medea, per guadagnarsi la comprensione delle donne di Corinto, ricorre all’artificio retorico del Kommunikativ wir, ossia del “noi comunicativo”, usato per accomunare chi parla e chi ascolta nella stessa situazione. Si distingue dal “Noi” plurale maiestatis che, invece, distacca il parlante dall’ascoltatore.
7 Senso: “Già dover spendere è un male; ma ancor peggiore è la situazione di chi spende per comprarsi un padrone”, perché questo contravviene alle norme sulla compravendita.
8 Il v. 246 viene espunto dal Wilamowitz, con piena ragione: una volta che si sia detto che il marito “esce di casa”, non è poi necessario precisare da chi vada. In questo caso, probabilmente, più che di un’interpolazione operata da un attore, si tratta di una citazione di un altro verso di Euripide (o di un altro autore tragico), posto a margine da un lettore colto come nota di richiamo e poi confluito nel testo, perché scambiato come integrazione di un’omissione precedente. Di questo tipo di fraintendimento, la tradizione manoscritta ci attesta un caso celebre, legato al Codice Mediceo (M) di Eschilo: in margine al v. 253 dei Persiani (ωμοι, κακον μεν πρωτον αγγελλειν κακα = ahimé, è innanzitutto un male riferire cattive notizie), un lettore colto ha citato, per analogia di contesto, il v. 277 dell’Antigone di Sofocle (στεργει γαρ ουδεις αγγελον κακων επων = nessuno ama il nunzio di cattive notizie). Nelle copie del codice M, questo verso è confluito nel testo, appunto perché scambiato per integrazione.
9 Qui bisogna sottolineare la rispondenza tra forma e contenuto: dopo aver detto che “la stessa situazione non vale” per lei e per le donne di Corinto, Medea descrive le diverse situazioni facendo ricorso all’artificio retorico della variatio: descrive la situazione delle donne di Corinto ricorrendo al costrutto del dativo di possesso, mentre usa il normale costrutto con il nominativo per descrivere la sua: questo, oltretutto, consente di collocare in posizione enfatica l’εγω δε, con il risultato di isolare ulteriormente Medea, rilevando l’assoluta anomalia della sua situazione: se già tutte le donne sono infelici, Medea lo è ancor di più.
10 Il v. 262 è espunto dal Lenting, innanzitutto per ragioni logiche: ben difficilmente Medea otterrebbe la solidarietà del coro, come di fatto la ottiene, se gli esternasse anche l’intenzione di vendicarsi sul re in persona e su sua figlia. Oltretutto il coro, nella sua risposta, fa riferimento al solo proposito di “farla pagare a Giasone”, il che rende il v. 262 ancora più estraneo al contesto: se Medea avesse effettivamente parlato anche di “vendicarsi sul re e su Creusa”, sarebbe ben strano il silenzio del coro sull’argomento. A ciò si deve aggiungere che il v. 262 sembra coniato sulla falsariga del v. 288, dove Creonte allude a se stesso ed a Creusa con un analogo giro di parole. Tuttavia, se l’eufemismo ha un senso in bocca a Creonte (v. n. 19), non ha alcun senso in bocca a Medea. Ci sono, quindi, buone ragioni per ritenere che il verso sia stato interpolato per istituire un parallelo a distanza tra la ρησις di Medea e la successiva ρησις di Creonte.
11 Attenzione a καλων , accusativo in forma attica di καλος, - ου ( = gomena; forma attica καλως, -ω), di cui παντα è attributo: “i nemici emettono ogni vela”
12 Εκατι = ενεκα. Regge il genitivo τινος (interrogativo!): “Perché?”
13 Per quanto riguarda l’anastrofe δεδοικα σε, vd. n. 6. C’è ancora da notare, al v. 283, l’uso del dativo etico μοι, che indica forte coinvolgimento del soggetto parlante. Tradotto letteralmente, il testo suona: “Che tu mi faccia un male irreparabile a mia figlia.” È da notare che qui, come anche al v. 289, Creonte, dopo aver detto che “non bisogna far giri di parole”, ricorra ad eufemismi, parlando di ανηκεστον κακον, cioè di “male irreparabile”, senza dire altro: al v. 289, si limita a dire δρασειν τι (= fare qualcosa), sfumando ulteriormente l’espressione. Gli eufemismi tradiscono la paura del peggio che Creonte cerca di rimuovere, quasi che non nominare il pericolo concorresse ad evitarlo nella realtà. Rientra nell’eufemismo anche il giro di parole con cui, al v. 288, Creonte allude a se stesso, a Giasone e a Creusa: τον δοντα (= colui che dà la figlia in isposa), τον γημαντα (= lo sposo) και γαμουμενην (= la sposa). Creonte sa che Medea è maga: “dire i nomi” di fronte ad una maga significa darle il potere di operare sulle persone, e per questo Creonte evita accuratamente ogni riferimento diretto a se stesso, a sua figlia e a Giasone.
14 Lett.: “Molti indizi di questo timore concorrono”
15 Qui per la prima volta ricorre l’uso, comune nei poeti tragici, di porre le esclamazioni fuori metro. Di solito, a proposito delle interiezioni, i poeti tragici avevano la libertà di collocarle all’interno del verso, se concorrevano ad ottenere il trimetro (è il caso del v. 277, dove l’esclamazione αιαι concorre metricamente ai primi due elementi del verso), o di collocarle fuori metro (come in questo caso).
16 Σκαιοισι, dativo di forma ionica per σκαιοις.
17 Al v. 301, come già al v. 298, il participio congiunto ha valore di protasi implicita di periodo ipotetico: “Se porterai nuove conoscenze” e: “Se sarai considerato migliore”. Analogamente, è da notare l’espressione ειδεναι τι ποικιλον. ποικιλος significa “variopinto”, “variegato”. Le conoscenze “svariate” sono espresse attraverso l’immagine dei vari colori.
18 Il v. 304 è espunto dal Pierson, perché risulta una zeppa inutile: di fatto, il verso è un doppione del v. 808 malamente adattato al contesto: è inutile dire che alla gente Medea pare tutto fuorché ησυχαια. Oltretutto, al verso 808, la caratteristica connotata dall’agg. ησυχαια è significativamente negata (μηδεις με φαυλην κασθενη νομιζετο/ μηδ'ησυχαιαν αλλα θατερου τροπου = nessuno mi creda buona a nulla e debole/ né tranquilla, ma di indole opposta). Forse, si è inserito questo verso in questo contesto per amplificare il concetto espresso al v. 299: se così fosse, il τοις δ'ησυχαια sembrerebbe doversi riferire all’αρχειος del v. 299.
19 L’ημας del v. 307 non sembra un plurale maiestatis (come intendono il Sestili ed altri traduttori), visto che, in questi versi, Medea parla sempre di sé usando la prima singolare. L’uso di ημας, come anche il passaggio al maschile plurale dei vv. 314-315 (dove nuovamente ricorre il “noi”, indicato dalla 1a pl. σιγησομεσθα), si spiega piuttosto con il fatto che Medea parla non solo di sé, ma anche dei suoi figli, coinvolti nel bando emanato contro di lei, e quindi considerati temibili al pari della loro madre. Se a rendere temibile Medea è la sua fama di maga e di donna σοφη, per quanto riguarda i suoi figli è forse eccessivo attribuire a Creonte il timore che Medea possa usarli come di fatto li userà, cioè come strumenti involontari dell’omicidio di Creusa e vittime innocenti della sua vendetta contro Giasone. Più probabilmente, Creonte teme che Medea possa aizzare contro Giasone e Creusa i figli, una volta cresciuti, forse anche istigandoli a reclamare diritti al trono, in quanto figli di Giasone. Medea dunque rassicura Creonte al plurale, rispondendo al suo: “Ho paura di te” con l’affermazione: “Non hai nulla da temere da noi”. Il suo intento è ben chiaro: parlando come di un’entità indissolubile di sé e dei suoi figli, ancora bambini (e quindi inoffensivi e soprattutto indifesi), Medea cerca di sfumare i pericoli legati alla sua persona: ella non può fare al re alcun male perché il solo nutrire simili propositi si ritorcerebbe contro i suoi figli.
20 Di nuovo la figura dell’anastrofe (questa volta di εσω φρενων) legata al ricorrere del tema della paura. Il termine ορρωδια, usato da Creonte, è formato sulla radice ορρωδ- su cui si forma il verbo ορρωδεω, e si costruisce quindi come i verba timendi.
21 Ως δ'αυτως: tmesi per Ωσαυτως. Ricordo che ραων è comparativo da ραδιος, α, ον (= facile).
22 Il v. 334 è posto tra due croci dal Diggle e, prima di lui, dal Murray. Nell’apparato della sua edizione critica, il Diggle propone l’emendamento: πονεις μεν, ημεις δ'ου πονοις κεχρημεθα; (= tu soffri, e noi invece non soffriamo?), e richiama un precedente emendamento del Musgrave: πονος μεν, ημεις δ'ου πονῳ κεχρημεθα; (sofferenza, certo: noi invece non soffriamo?). Entrambi gli emendamenti toccano troppo radicalmente il testo tràdito, anche in un punto dove non pone difficoltà: l’avvio πονουμεν ημεις (= siamo noi a soffrire, non tu) è un’efficace risposta alla battuta di Creonte μ'απαλλαζον πονων (= liberami dalle sofferenze). A ben vedere, la difficoltà è costituita dal gen. pl. πονων in dipendenza da κεχρημεθα, derivante da χραω, che regge o il dativo (di qui le proposte πονῳ di Musgrave e πονοις di Diggle) o l’infinito: forse, la soluzione più ragionevole è quella di emendare πονων in πονειν, ipotizzando un errore in minuscola indotto dal πονων del verso precedente (Ceccon).
23 Cioè la revoca dell’esilio. Da notare l’uso del futuro dorico φευξουμεθα ripetuto qui e poi ai vv. 341 e 346. L’uso della forma dorica in luogo dell’attico φευξομεθα si spiega con ragioni metriche. Più significativa è, però, l’insistenza con cui Medea ripete in questi versi: “ce ne andremo in esilio”, quasi a voler rassicurare Creonte che il suo decreto sarà effettivamente rispettato.
24 Verso variamente inteso e tradotto. Il Musso (Euripide, Tragedie, UTET) intende: “Per la mia pietà (αιδουμενος) ho rovinato molte cose”, dando a διεφθορα valore transitivo. Analogamente propone di tradurre il Sestili (“avendo riguardo, già molte cose rovinai”), che però avverte che c’è chi intende πολλα come oggetto interno di αιδουμενος e διεφθορα con valore intransitivo, ottenendo questo senso: “avendo molti riguardi, mi sono rovinato”. In effetti, con valore transitivo il verbo διαφθειρω ha il perfetto primo διεφθαρκα, mentre διεφθορα significa “sono rovinato”. Per questo, il modo migliore di intendere il verso è effettivamente quello di dare a διεφθορα valore intransitivo, facendo di πολλα un accusativo in dipendenza απο κοινου sia da αιδουμενος (rispetto a cui è complemento dell’oggetto interno) sia da διεφθορα (rispetto a cui è accusativo di relazione), ottenendo il significato proposto in traduzione.
25 Lett.: “la prossima luce del dio (scil. Apollo)”.
26 I versi 355-356 sono espunti dal Nauck con piena ragione. Il v. 355 è, di fatto, un doppione dell’ομως δε τευζη τουδε del v. 351: quanto al v. 356, contraddice evidentemente non solo il v. 350, in cui Creonte dice chiaramente di saper di sbagliare concedendo a Medea quanto chiede, ma anche i vv. 282-283 e i vv. 316-317, in cui egli afferma a più riprese di temere Medea, nonché tutta la situazione sottesa a questa scena: se davvero Creonte è convinto che in un giorno Medea non gli può fare nulla di quel che teme, non si capisce più perché abbia così fretta di comunicarle il decreto del bando, da andare di persona da lei. Oltretutto, dopo aver minacciato Medea di morte, se la troverà a Corinto l’indomani, Creonte non ha obiettivamente più nulla da dire. Si tratta, probabilmente, di una maldestra interpolazione operata allo scopo di chiarire perché, malgrado tutto, Creonte ceda alla richiesta di Medea. Inutile dire che lo ha già chiarito Euripide ai vv. 349-350: malgrado tutte le sue minacce ed i suoi propositi di inflessibilità, Creonte è in realtà un debole.
[newpage]Secondo Episodio 446 - 626
Giasone: Non ora per la prima volta, ma spesso ho visto la tua ira implacabile come un male irreparabile. Infatti, pur essendoti possibile avere (→ abitare) questa terra e queste case, sopportando di buon grado le decisioni di chi è più forte di te, a causa dei tuoi discorsi folli sarai cacciata via da questa terra. E a me non importa niente: non smettere mai di dire di Giasone che è un pessimo marito. Ma per quel che hai detto contro i re1, ritieni tutto guadagno l’essere punita con l’esilio. Io, per parte mia, cercavo di stornare da te l’ira dei re infuriati e volevo che tu rimanessi: ma tu non desistevi dalla tua follia, parlando sempre male dei re; e così sarai cacciata da questa terra. Malgrado ciò, anche dopo questi fatti sono venuto qui perché non abbandono i miei cari, ma perché mi preoccupo per la tua sorte, o donna, per evitare che tu sia cacciata con i tuoi figli senza mezzi di vita e bisognosa di alcunché2: molti mali porta con sé l’esilio. Ed anche se tu mi detesti, non potrei mai nutrire odio per te.
Med.: Sciagurato! Questo posso dire di te come massimo insulto di fronte alla tua viltà. Hai osato venire da noi, hai osato venire, tu che sei odiosissimo [agli dèi, a me, a tutto il genere umano]3? Questo non è ardire né coraggio, guardare in faccia gli amici dopo aver fatto loro del male, ma impudenza, il peggiore di tutti i mali che affliggono gli uomini. Ma hai fatto bene a venir qui4: io, dicendo di te tutto il male possibile mi sgraverò l’anima e tu ad ascoltarmi proverai dolore. Incomincerò prima a parlare fin dalle prime vicende. Io ti salvato, come sanno tutti quei Greci che si sono imbarcati sulla nave Argo, quando sei stato mandato a sottomettere al giogo i tori che spiravano fuoco dalle narici e a seminare il campo mortifero. E dopo aver io ucciso il drago, che avvolgendo il vello d’oro lo custodiva nelle sue ampie spire, essendo insonne, ho fatto sorgere per te la luce della salvezza. Proprio io, tradendo mio padre e la mia casa, sono giunta con te a Iolco Peliotide5, innamorata più che saggia, ed ho ucciso Pelia nel modo più terribile ( lett.: come è più dolorosissimo morire), per mano delle sue figlie, ed ho sterminato tutta la sua casa6. E tu, o scelleratissimo tra gli uomini, pur avendo ottenuto tutto questo da noi, ci hai tradito, ed hai acquistato un nuovo letto nuziale, pur essendoti nati dei figli: se tu, infatti, fossi ancora privo di figli, ti si potrebbe perdonare di esserti innamorato di questo nuovo letto7. Ma poiché si è dileguata la fedeltà del giuramento nuziale, non riesco a capire se tu pensi che gli dèi di una volta non regnino più, o se pensi che nuove leggi ora siano in vigore tra gli uomini, dal momento che sai bene di non essere fedele al giuramento nei miei confronti. Ahi, mano destra, che tu molte volte hai afferrato, e mie ginocchia, come invano siamo state sfiorate da un uomo malvagio, e ci siamo ingannate nella nostre speranze. Orsù: adesso ti parlerò come se tu mi fossi amico; forse perché credo di ottenere da te qualcosa di buono? In ogni caso, essendo interrogato risulterai ancor più svergognato. Ora dove mai potrei andare? Forse a casa di mio padre, avendo tradito la quale e la patria per te io son venuta qui? Oppure presso le sventurate Pleiadi? Certo mi accoglierebbero bene a casa loro quelle il cui padre ho ucciso. Così è la mia situazione: sono divenuta nemica ai miei familiari, mentre quelli a cui non era bene che io facessi del male, per far del bene a te li ho nemici. E davvero, in cambio di questi favori, tu mi hai reso felice tra molte donne greche (= la più felice tra le donne greche). Ho in te un marito meraviglioso e fedele, povera me, se davvero andrò via da questa terra essendone scacciata, priva di amici, sola con i miei figli soli: bel motivo di vergogna per il novello sposo, che vadano in giro mendicando i suoi figli e io che ti ho salvato. O Zeus, perché hai dato agli uomini indizi certi riguardo all’oro, che sia eventualmente falso, ma sul corpo degli uomini non è impresso nessun segno in base al quale è possibile riconoscere quello malvagio? (→O Zeus, perché riguardo all’oro hai dato agli uomini indizi certi per riconoscere quello falso, ma…)8
Corifea: Terribile e implacabile risulta l’ira, quando i cari entrino in contesa con i cari (→ quando persone care entrino in contesa tra loro).
Gias.: A quanto pare, è bene che io non sia inabile a parlare, ma che, come un abile timoniere di vascello io debba fuggire con gli estremi lembi della vela (= raccogliendo le vele) la tua impudente parlantina, o donna. Per parte mia, io, dal momento che fin troppo esalti9 i tuoi favori, penso che Cipride, unica tra gli dèi e gli uomini, sia la salvatrice della mia spedizione navale. Tu hai certo mente sottile, ma provi dispiacere a dichiarare10 che Eros con le sue frecce a cui non si può sfuggire ti ha costretto a salvarmi11. Ma non porrò questa affermazione con dovizia di argomenti (→ ma non mi soffermerò con dovizia di argomenti su questa affermazione): comunque tu mi abbia aiutata, non mi va male. Certo, dalla mia salvezza hai ottenuto più di quanto hai dato, come io dimostrerò. Innanzitutto vivi in Grecia anziché in una terra straniera e conosci la giustizia e l’uso delle leggi senza il ricorso alla forza. Poi, tutti i Greci hanno saputo che tu sei saggia e ne hai ricevuto gloria: se tu abitassi nei più remoti confini della terra, di te non si farebbe parola. Possa io non avere né oro in casa, né la capacità di cantare canti più belli di quelli di Orfeo, se la mia sorte non fosse illustre. Questo ti ho detto riguardo alle mie fatiche: sei stata tu, infatti, a venire a gara di parole. Circa i rinfacci che hai mosso riguardo alle mie nozze regali, in questo dimostrerò di essere innanzitutto saggio, poi assennato, e poi ancora grande amico per te e per i miei figli: ma sta calma. Quando dalla terra di Iolco giunsi qui, portandomi dietro molte sciagure irreparabili, quale rimedio più fortunato di questo avrei potuto trovare che sposare, essendo io esule, la figlia del re? Non, per il motivo che ti irrita (lett.: come tu sei irritata) perché detestassi il tuo letto e fossi preso dal desiderio di una nuova sposa, né perché avessi desiderio di entrare in gara di molti figli: i figli che mi sono nati sono sufficienti e non mi lamento. Ma (lo ho fatto) perché potessimo vivere bene in questa città, cosa che è la più importante di tutte, e perché non patissimo privazioni, ben sapendo che chiunque fugge via lontano da un amico povero, e perché io potessi allevare i miei figli in modo degno dei miei natali e, avendo generato dei fratelli ai figli avuti da te, potessi collocarli nello steso onore e, avendo dato vita ad una sola famiglia, potessi essere felice. Tu, infatti, che bisogno hai di figli? A me, invece, conviene giovare ai figli che ho in vita con i figli futuri. Ho forse pensato male? Neppure tu lo diresti, se non ti irritasse il nuovo matrimonio. Ma voi donne siete giunte ad un punto tale che, quando il matrimonio va bene, pensate di avere tutto; quando poi capita un imprevisto nel matrimonio, rendete ostilissime le decisioni più sagge e migliori (→ credete che le decisioni più sagge e migliori siano prese per farvi il peggior dispetto). Sarebbe bene che da altra fonte gli uomini generassero figli, e che non esistesse la razza delle donne: e così, gli uomini non avrebbero alcun danno.
Cor.: Giasone, tu hai argomentato bene le tue ragioni; ma comunque io credo, anche se parlerò contro la tua aspettativa, che tu, tradendo tua moglie, non agisca giustamente.
Med.: In molte cose davvero io sono diversa da molti uomini. Per me chiunque, essendo ingiusto, è abile a parlare, merita la massima punizione. Vantandosi di mascherare ad arte le ingiustizie con la sua parlantina12, ha la sfrontatezza di fare il furbo: ma non è troppo saggio. Come anche tu: con me, non metterti a fare il piacione e il bravo parlatore: una sola parola ti stenderà: se davvero tu fossi non malvagio, avresti dovuto celebrare questo nuovo matrimonio con il mio consenso (lett.: avendomi convinta), ma non di nascosto dai tuoi cari.
Gias.: Davvero ti saresti prestata a questo discorso, se ti avessi parlato del matrimonio, tu che neppure adesso osi deporre la grande ira del tuo cuore.
Med.: Non la preoccupazione che hai detto ti possedeva, ma il matrimonio con una donna straniera andava a finire in una vecchiaia non onorevole.
Gias.: Sappi bene questo, che non a causa di una donna ho sposato il letto regale (→ la figlia del re) che ora ho (→ è mia moglie), ma, come ho detto anche prima, perché volevo salvare te, e generare, a vantaggio dei miei figli, figli regali dello stesso seme, presidio della casa.
Med.: Non mi tocchi in sorte una vita felice che mi dia dolore, né una fortuna che irriti la mia mente (→ mi procuri fastidi).
Gias.: Sai che †cambierai idea e† apparirai più saggia? Non ti risultino dolorose le decisioni migliori, e non credere, nella buona sorte, di essere sventurata.
Med.: Oltraggiami pure, dal momento che tu hai una via di scampo, mentre io, essendo sola, dovrò andare in esilio da questa terra.
Gias.: Proprio tu te la sei voluta: non accusare nessun altro.
Med.: E che hgo fatto per volermelo? Forse mi sono risposata e ho tradito te?
Gias.: Hai scagliato maledizioni empie contro i sovrani.
Med.: Si dà il caso che io imprechi contro la tua casa.
Gias.: Non discuterò oltre con te di questo. Ma, se tu vuoi accettare per i tuoi figli o per te un aiuto per il tuo esilio dalle mie ricchezze, di’ pure, perché io sono pronto a darti aiuto con mano generosa e a mandare avvisi13 ai miei ospiti, che ti tratteranno bene. E se non vorrai questo aiuto, sarai pazza, o donna: se, invece, metterai fine alla tua ira, ne trarrai un guadagno migliore.
Med.: Noi non potremmo mai valerci dell’aiuto dei tuoi ospiti, né potremmo accettare nulla, e non darci nulla: i doni di un uomo malvagio non giovano.
Gias.: E allora io chiamo a testimoni gli dèi, che io voglio prestare ogni soccorso a e ai figli; a te, però, non piace ciò che si fa per il tuo bene14, ma con arroganza allontani da te gli amici: e per questo soffrirai di più.
Med.: Vattene: se ti attardi fuori di casa, sei preso dal desiderio della novella sposa. Sposati pure: forse - e sarà detto con il consenso di un dio – farai un matrimonio tale che rinnegherai il matrimonio.
1 Lett.: “Per quello che da te (σοι, dat. di agente) è stato detto (εστι λελεγμενα, ind. perf. m. - pass. di λεγω) contro i sovrani”. Qui l’εις τυραννος va inteso come: “contro la casa regnante”.
2 του = τινος(indefinito).
3 Il verso è espunto dal Brunck, in quanto costituisce un doppione del v. 1324, in cui queste parole, messe in bocca a Giasone, sono ben più intonate al contesto (Medea ha appena ucciso i suoi figli).
4 Ricordo che μολων è ptc. aor. II di βλωσκω.
5 “Iolco Peliotide”, ossia Iolco “ai piedi del monte Pelio”.
6 Qui, alla lezione φοβον, accettata dal sestili, è bene preferire la variante δομον, attestata dal manoscritto Laurenziano (che rappresenta da solo il 50% della tradizione manoscritta euripidea) ed accolta dal Diggle, in quanto restituisce un senso migliore. Accettando φοβον, il testo significherebbe: “ho eliminato/ allontanato ogni timore”: si renderebbe necessario sottintendere un σου (= da te) retto da εξειλον (aor. II da εξαιρεω). Inoltre, non si vede quale timore Medea abbia allontanato da Giasone, visto che Pelia aveva rifiutato di cedere il trono a Giasone, come aveva promesso. Per contro, la lezione δομον restituisce un senso più soddisfacente e aderente al contesto: per effetto dell’uccisione di Pelia, Medea ha “distrutto tutta la sua casa”, in quanto ne ha soppresso il capofamiglia.
7 Evidente metonimia per “moglie”. Il termine λεχος ritorna sempre nella tragedia con valore traslato, per indicare o il nuovo matrimonio di Giasone, o la sua nuova sposa.
8 Qui la costruzione è: Ω Ζευ τι ωπασας (aor I s. dal verbo οπαζω concedere, dare τεκμηρια σαφη χρυσου μεν, ος κιβδηλος η (proposizione relativa con valore eventuale) ουδεις δε χαρακτηρ εμπεφυκε σωματι ανδρων, οτω (antecedente χαρακτηρ: ricordo che οτω sta per ωτινι ed è qui dativo strumentale χρη διειδεναι τον κακον;
9 πυργοις , da πυργοω, letteralmente significa: “Metti avanti come torre”: è una metafora piuttosto ardita, per dire “esaltare”, “esibire”, che trae fondamento dal fatto che le torri erano la costruzione più svettante ed aggettante delle mura. La “torre” di Medea, cioè l’argomento cui ella dà la massima evidenza, è quanto ella ha fatto per Giasone. La metafora rivela la cura che Giasone mette nel parlare e nell’argomentare la sua tesi: Già nell’incipit del suo discorso, in cui compare la complessa similitudine del timoniere che raccoglie le vele per sfuggire alla tempesta, egli ha detto che dovrà dimostrarsi abile nel parlare: con questa metafora, egli cerca di fare colpo sugli ascoltatori con il suo paralre forbito, richiamando l’attenzione, più che sui concetti espressi, sul modo di porgerli: è la tecnica sofistica del τον ηττω λογον κρειττω ποιειν.
10 Costruzione: σοι δ'εστι (ricavato dal membro precedente) λογος επιφθονος. Si ottiene un dativo di possesso: “hai dispiacere ad ammettere” (lett.: hai discorso spiacevole)
11 τουμον δεμας, lett.: “il mio corpo”, “la mia persona”. È di nuovo una metonimia.
12 Costruzione: αυχων (ptc pres. da αυχεω) γαρ ευ περιστελειν (inf. fut. da περιστελλω) ταδικα (crasi per τα αδικα) γλωσση τολμα πανουργειν. Notare la metonimia di γλωσση : si usa il concreto (“la lingua”) per l’astratto (“la parlantina”)
13 Lett.: “tessere ospitali”: erano i contrassegni grazie a cui gli ospiti, anche a distanza di generazioni, si riconoscevano tra loro.
14 Lett.: “il bene” (ταγαθα), ma qui il significato è più pregnante
6
mare dà ascolto ai consigli degli amici. Solo a tratti, volgendo il candido collo, rimpiange
tra sé e sé suo padre, la terra e la casa, avendo tradito i quali giunse qui con il marito che
ora la tiene in spregio. L’infelice, oltraggiata ora sa per effetto della sua sventura quale
importanza abbia non essere privata della terra paterna. Odia i suoi figli, e non prova gioia
7
a vederli. Ho paura di lei , che macchini qualche cosa di insolito. [Infatti è una mente
implacabile, e non sopporterà di patire ingiustamente: io la conosco e ho paura di lei, che
spinga il pugnale acuto attraverso le viscere, dopo essere entrata in silenzio nella camera
dove è disteso il letto, o che uccida il re ed il suo sposo, e subisca in seguito una sventura
8
ancor più grave.] È spietata, e non facilmente, entrando in contrasto con lei, si riporterà
una vittoria. Ma ecco i giungere suoi figli, che hanno smesso di giocare, e che nulla sanno
delle disgrazie della loro madre: una mente giovane non ama soffrire.
Questi versi sono un’eco omerica con cui la nutrice allude alla disumanità di Medea: il testo
6
echeggiato è Il. XVI, 34-35, in cui Patroclo, rivolgendosi ad Achille, gli dice: “A te non fu padre
Pèleo cavaliere, non fu madre Teti: il glauco mare ti ha partorito, o i dirupi rocciosi, tanto è duro il
tuo animo.” (tr. Rosa Calzecchi Onesti)
Qui ricorre la figura retorica dell’anastrofe, che consiste nell’enfatizzare un termine togliendolo
7
dalla posizione logica in cui dovrebbe trovarsi. A regola di grammatica, il costrutto sarebbe:
. Per dare, però, maggiore risalto all’ che allude a Medea,
lo si anticipa facendone il complemento oggetto della reggente, anziché il soggetto della
subordinata completiva. In questo modo, l’allusione a Medea ricorre nella proposizione
gerarchicamente più importante, con una forte enfatizzazione: c’è da temer Medea prima ancora di
quello che fa. Significativamente, poi, l’anastrofe si ripete identica ai vv. 282-283, dove a parlare è
’, , ’
Creonte: (=
ho paura di te, non bisogna velare le parole (= non bisogna parlare in modo oscuro), che tu faccia
a mia figlia un male irreparabile.” Anche in questo caso il timore di Medea precede quello di ciò che
può mettere in atto.
Questo testo è fortemente controverso, e ha destato i sospetti di più di un filologo per diverse
8
ragioni:
1) le frequenti ripetizioni (’ v. 37 – v. 39; v. 38 –
v. 44) che generano, nel giro di pochi versi, una fastidiosa insistenza su concetti, che
risultano banalizzati anziché enfatizzati;
2) la strana gradatio che risulta da questi versi: la inizialmente enuncia un timore generico
);
(’, poi, questo timore si fa sempre più circostanziato e
specifico, fino a configurarsi come predizione esatta di ciò che avverrà
(’ecc. vv. 39-40), per poi farsi nuovamente generico
();
3) il fatto che vv. 40-41 ricorrano pressoché identici ai vv.379-380, in cui Medea inizia a
macchinare la sua vendetta. Lì, però, risultano meglio contestualizzati. Questa ripetizione
meccanica è la terza stranezza di questo passo.
Su di esso, pertanto, si sono registrati più interventi di espunzione (= eliminazione dal testo
attraverso chiusura del passo da eliminare entro parentesi quadre): il Dindorf espunge l’intero
blocco dei vv.38-43; il Musgrave propone l’espunzione del solo v. 41, mentre il Valkenaer e il
Pierson espungono il solo v. 42, per la menzione della ”uccisione dello sposo”, che Medea non
perpetuerà; il Hermann propone l’espunzione dei vv. 41-43, mentre il Nauck espunge i vv. 40-43.
Chi espunge parti di testo meno estese, si limita di solito ad eliminare in vari modi la ripetizione
meccanica dei vv. 40-41, senza però prendere posizione sulle altre ripetizioni di questo passo. Di
fatto, i vv. 38-43 sono stilisticamente attribuibili ad Euripide, e chi interviene meno radicalmente su
questo testo motiva con questa ragione la sua maggiore prudenza. L’ultimo editore di Euripide, il
Diggle, accoglie la proposta del Dindorf, che, pur nella sua radicalità, pare la più ragionevole, in
quanto risolve tutte le stranezze di questi versi, per i quali si può pensare all’interpolazione operata
,
da un attore, che, per allungare la parte della avrebbe lavorato di “centonazione”,
adattando a questo passo versi provenienti in parte dalla stessa Medea, in parte da altre tragedie
euripidee. 2
Primo Episodio
vv. 214- 356
Medea: Donne di Corinto, sono uscita di casa perché voi non abbiate nulla da
9
rimproverarmi: so infatti che molti uomini si sono resi odiosi, chi stando lontano dalla vista
degli altri, chi stando di fronte all’uscio di casa; altri ancora, poi, per il loro contegno
riservato, si sono procurati la cattiva reputazione dell’indifferenza. Non c’è giustizia negli
10
occhi degli uomini, chiunque di loro, prima di conoscere bene l’interiorità di un uomo, lo
odia al solo vederlo, pur senza aver mai subito offese. È bene che uno straniero si adatti
11
alla città in cui vive: ed io non approvo un residente della città che, divenuto arrogante, è
scontroso con i cittadini per ignoranza. Ma a me, questa disgrazia inaspettata che mi è
12
caduta addosso ha rovinato la vita. Sono finita , ed avendo perso la gioia di vivere
13
desidero morire, o amiche. Il mio sposo, in cui io avevo tutto – e tu lo sai bene -, si è
rivelato il peggiore degli uomini. Di tutti gli esseri dotati di vita e di senno, noi donne
14
siamo le creature più infelici. In primo luogo, ci tocca, con grande dispendio di ricchezze,
, .
Il del testo è participio perfetto III di perfetto alternativo (e più raro) di
9 deriva
Sempre da il participio del 223.
Metonimia: Medea dice: “Prima di conoscere le interiora di un uomo”, usando il concreto per
10
l’astratto.
: aoristo gnomico. Medea esprime qui un parere da lei considerato assolutamente valido,
11
sempre, comunque e dovunque. Oltre a questo, c’è da notare il gioco sulla differenza di significato
trae:il è il “cittadino per nascita”, mentre l’ è colui che “risiede” in una
città in cui non è nato, ed è quindi privo dei diritti politici.
Lett.: “Me ne vado” ()
12 Anche su questo punto, il testo risulta corrotto: i mss. attestano:
13
/ ’ , cioè: “il mio
sposo, nel quale mi era possibile conoscere tutto, è risultato il peggiore degli uomini.” Il significato
di questo testo sfugge: non si capisce in che senso Medea potesse “conoscere tutto” nel suo
sposo. L’imbarazzo di fronte al tramandato dai mss. è rivelato da alcune traduzioni.
L’Ammendola traduce “il mio sposo, dal quale dipendeva che io vedessi tutto roseo”, con un
,
distacco dal testo molto eloquente. Il Regenbogen, nel tentativo di difendere il tràdito
lo intende come un infinito di limitazione, facendo di un dativo di possesso: “Il mio
sposo, nel quale io avevo tutto, a ben vedere si è rivelato il peggiore degli uomini”: tuttavia, data
l'esistenza del costruttoinfinito (= è possibile, è lecito a qualcuno fare qualcosa), è ben
senza
difficile separare dal precedente che vi sia un qualche elemento (ad es.
),
un che effettivamente li stacchi. Di qui, vari tentativi di emendamento. Il Canter propone di
; ,
correggere in il Page propone di emendare in mentre
.
il Musgrave propone la congettura In tutti i casi, per effetto della correzione, il costrutto
diviene dativo di possesso (“il mio sposo, nel quale io avevo tutto”, per
l’appunto) mentre diventa un inciso che, a seconda
dell’emendamento accolto, significa: “lo so bene”, oppure “e tu lo sai bene”, oppure ancora “e lui
(Giasone) lo sa bene”. Tutti e tre gli emendamenti restituiscono un senso soddisfacente e
convergono nell’individuazione dell’errore, nato dal fraintendimento del costrutto del dativo di
possesso e dal mancato riconoscimento di un’espressione detta per inciso (fraintendimento
possibilissimo, vista l’assenza di punteggiatura nei testi antichi). Delle tre congetture, si accetta
quella del Musgrave perché più coerente con l’intendimento di Medea, che nella sua cerca
di conquistarsi la solidarietà delle donne di Corinto, coinvolgendole nella sua situazione: “Il mio
sposo, nel quale io avevo tutto, e tu lo sai bene.” Il coro, costituito dalle donne di Corinto, sanno
bene che cosa rappresenti il marito per una donna, cioè l’unica fonte di sostentamento.
Qui Medea, per guadagnarsi la comprensione delle donne di Corinto, ricorre all’artificio retorico
14
del Kommunikativ wir, ossia del “noi comunicativo”, usato per accomunare chi parla e chi ascolta
nella stessa situazione. Si distingue dal “Noi” plurale maiestatis che, invece, distacca il parlante
3
comprarci un marito e prenderci un padrone del nostro corpo; e questo è un male ancor
15
peggiore del (primo) male . E in questo c’è una grandissima incertezza, o acquistarcelo
cattivo o buono: infatti per le donne non sono onorevoli i divorzi, e non è possibile
ripudiare lo sposo. Giungendo poi, a nuovi costumi e a nuove regole di vita occorre essere
indovina, perché non si sa da casa propria chi ci si troverà ad avere per convivente. E nel
caso in cui conviva con noi, che ci siamo ben arrovellate, uno sposo che non impone con
la forza il giogo matrimoniale, la vita è invidiabile: altrimenti, è meglio morire. Il marito,
quando non ne può più di stare con i familiari, esce di casa e mette fine al fastidio del suo
16
cuore [andando o da un amico o da un coetaneo] . Noi, invece, siamo costrette a
guardare ad una sola persona. Dicono di noi che viviamo a casa nostra una vita senza
pericoli, mentre loro combattono con la lancia. Lo dicono a torto; perché io preferirei tre
volte stare accanto allo scudo che partorire una volta sola. Ma per me e per te non vale lo
stesso discorso. Tu hai questa città, la casa paterna, agi di vita e la compagnia degli amici:
io, invece, che sono sola e priva della mia patria, sono oltraggiata da mio marito, portata
via come preda da una terra straniera, senza avere una madre, un fratello, e neppure un
17
parente per salpare gli ormeggi da questa sventura . Tanto, perciò, io voglio ottenere da