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NEET.

Le relazioni familiari, invece, sembrano non avere un impatto significativo sulla probabilità

di entrare a far parte dello status di NEET. Ciò potrebbe essere causato dal fatto che la

variabile “qualità delle relazioni” è molto labile e di interpretazione maggiormente

soggettiva, pertanto è difficile stabilire in modo oggettivo quali siano effettivamente

relazioni di ottima, buona o scarsa qualità (Alfieri et al., 2015).

1.2 Gli interventi politici

Come Alfieri e colleghi sottolineano nello studio sopra citato, il fenomeno NEET va

considerato a diversi livelli:

A livello individuale, è necessario intervenire sul sistema educazionale e

- formativo, al fine di ridurre gli abbandoni scolastici, in quanto questo drop out

genera una fragilità nei giovani che persiste durante la vita lavorativa.

A livello relazionale, è necessario inserire nei piani di intervento anche le famiglie

- dei giovani, al fine di aiutarli a diventare più consapevoli del loro ruolo all’interno

della società, agendo attraverso un piano mirato, creato dagli stessi appartenenti

allo status di NEET, per poter affrontare il problema sociale partendo dalle

questioni ritenute più importanti da chi lo vive concretamente.

A livello sociale, è importante rafforzare il legame tra istruzione (o formazione) e

- lavoro attraverso l’apprendimento, già nei sistemi didattici, di competenze

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spendibili direttamente in ambito professionale. Per i giovani che concludono gli

studi o ottengo un contratto di lavoro temporaneo è necessario che vengano

creati dei servizi che aiutino lo sviluppo individuale, fornendo una valutazione

delle capacità della persona in relazione ai posti di lavoro disponibili in quel

momento.

L’approccio necessario per intervenire in modo efficace e completo sul fenomeno è di tipo

multicomponente, in quanto esso ha il potenziale di riuscire a coinvolgere tutti i livelli di

analisi utili. Da dieci anni, l’Unione Europea attua programmi ed iniziative mirate a

diminuire il tasso di NEET nel continente, aumentare le attitudini correlate al lavoro, la

conoscenza e le aspirazioni dei giovani (Mawn et al., 2017).

Nel 2013, nell’ambito del progetto Europa 2020, il programma economico messo in atto

nel 2010 per il decennio in corso, che mira alla riduzione del tasso di disoccupazione e

delle carenze economiche del continente fornendo linee guida agli stati membri per il

raggiungimento di obiettivi comuni, l’UE si è impegnata a migliorare le iniziative volte ad

aumentare l’occupazione giovanile, investendo sui progetti come Youth Empolyment

Initiative (YEI) e Garanzia Giovani (Youth Guarantee - YG). Quest’ultima prevede che

tutti gli stati europei, entro quattro mesi dall’inizio dello stato di disoccupazione o del

termine dell’educazione formale, garantiscano ai giovani fino ai 25 anni di età un’offerta di

lavoro di alta qualità, un tirocinio o un apprendistato. In Inghilterra, la YG venne sostituita

dalla Youth Contact (YC), un progetto che si estende su due dipartimenti governativi (il

dipartimento del lavoro e delle pensioni (DWP) e il dipartimento del lavoro e

dell’istruzione (DfE)) e che si propone di aiutare attivamente i giovani facenti parte del

gruppo dei NEET. Nello stesso anno, venne introdotto il Programma Tirocini rivolto ai

giovani di età compresa tra i 16 e i 19 anni, in possesso di qualifica professionale o di una

licenzia media, e ai giovani tra i 19 e i 24 anni, offrendo un’occupazione che sia anche

formativa, al fine di creare un ponte tra la scuola ed il lavoro (Maguire, 2015).

Nonostante tutte le iniziative messe in atto per ridurre il tasso di NEET, la situazione

risulta ad oggi ancora molto critica. I programmi finora attuati agiscono in modi differenti

in base ad alcuni fattori. Lo studio di Mawn e colleghi pubblicato nel 2017, mette in luce

come le azioni politiche studiate per affrontare il fenomeno, abbiano esiti diversi in base a

variabili come genere, etnia ed età. Queste differenze sociali sono probabilmente dovute

al fatto che gli attuali interventi non soddisfano i bisogni di tutte le classi sociali presenti.

Infatti, chi ottiene minori effetti positivi dai programmi contro la disoccupazione sono quei

sottogruppi sociali che hanno minori risorse a loro disposizione, come, ad esempio, le

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persone con un basso livello socioeconomico o quelle appartenenti ad una minoranza

etnica.

L’attuazione di interventi politici efficaci ad affrontare il fenomeno dei NEET è ostacolata

da diversi fattori. Secondo Sue Maguire (2015), i fattori problematici principali che

impediscono ad un intervento di avere esito sufficientemente positivo sono tre:

- Una mancanza di chiarezza nell’identificazione di questo gruppo. Spesso stabilire

se una persona appartiene o meno al gruppo dei NEET è difficile, in quanto la

definizione di soggetto NEET è affine al concetto di inattività e disoccupazione.

Pertanto, è possibile che un individuo classificato come NEET appartenga a una

delle altre due categorie e viceversa.

- Una difficoltà nel comprendere e soddisfare i bisogni di queste persone.

- Una stereotipizzazione del comportamento, delle attitudini e delle aspirazioni dei

giovani NEET. La labilità del confine tra soggetto inattivo e NEET porta

all’etichettamento sociale di questo gruppo come persone con attaccamento

passivo al mercato del lavoro, generando una discussione sulla loro volontà di

entrare a farne parte. A questo processo di stereotipizzazione consegue

un’emarginazione dei giovani, in particolare delle giovani donne, che si

allontanano dai programmi di sostegno mirato e di reinserimento restando

ancorati al loro status di NEET.

È necessario, quindi, continuare a fare ricerche in merito al fenomeno per poter arrivare

ad attuare interventi che siano effettivamente funzionali al problema, riducendo la

probabilità di “effetti collaterali” dovuti alla poca conoscenza o a processi sociali che

isolino maggiormente i NEET dal mondo del lavoro e dalla società stessa. Questo perché

un aumento di isolamento sociale potrebbe portare il soggetto verso disturbi psichici

importanti, come ad esempio la fobia sociale, o verso sindromi culturali, come ad

esempio quella di HIkikomori. 13

Capitolo 2

HIKIKOMORI “L’inferno sono gli altri”.

(Jean-Paul Sartre)

Negli ultimi anni del secolo scorso, in Giappone iniziò a espandersi una nuova epidemia

tra i giovani, soprattutto (40% nel 2001) al di sotto dei 21 anni di età. Inizialmente si

pensò a questo disturbo come ad una variazione di patologie quali ansia sociale,

agorafobia e sindrome di Asperger, ma molti di essi, ricoverati in reparti psichiatrici a

causa dei comportamenti antisociali messi in atto, non presentavano una sintomatologia

che corrispondesse ad un disturbo psichiatrico riconosciuto (Tiffany, 2003).

Nel 1998, Saitò, psichiatra giapponese, coniò il termine Hikikomori (in italiano “Ritirarsi”)

per definire la condizione di questi giovani, caratterizzata da un ritiro dalla società della

durata minima di 6 mesi. I ragazzi colpiti da tale sindrome presentano sintomi quali

apatia, evitamento sociale, inversione dei ritmi circadiani sonno-veglia, abbandono

scolastico o mancanza di interesse nel lavoro, comportamento violento in famiglia e

autosegregazione nella propria stanza.

La sindrome di Hikikomori si distingue dai disturbi conosciuti nei primi anni 2000 per due

caratteristiche: la mancanza di alterazioni biologiche rilevabili e l’essere geograficamente

circoscritta al Giappone. Tali fattori permettono agli studiosi di classificare questo disturbo

come sindrome culturale.

Nel 2003, il ministero della salute, del lavoro e del welfare giapponese elencò i criteri

diagnostici per poter identificare la sindrome di Hikikomori:

Stile di vita incentrato sulla propria abitazione;

 Mancanza di interesse per la scuola o il lavoro;

 Persistenza dei sintomi per oltre 6 mesi;

 Assenza di diagnosi di disturbi psichiatrici.

 14

Come sottolineano De Michele e colleghi (2013), sull’ultimo punto si è aperto un dibattito

poiché alcuni soggetti Hikikomori presentano un qualche disturbo psichiatrico presente

nel DSM IV-TR. Da tale dibattito scaturiscono due diversi punti di vista sul tema: il primo

ritiene necessario l’uso dei criteri diagnostici del DSM per poter identificare al meglio la

sindrome; il secondo distingue due tipi di Hikikomori, primario e secondario. Gli

Hikikomori di tipo primario non soffrono di un vero e proprio disturbo mentale, ma sono in

una condizione che induce problemi comportamentali; gli Hikikomori di tipo secondario

soffrono di un disturbo caratterizzato da un disordine pervasivo dello sviluppo. Le due

correnti di pensiero si trovano in accordo sulla necessità di dover inserire nel DSM V una

nuova categoria di disturbi, le culture-bound syndromes, al fine di poter diagnosticare con

chiarezza la Hikikomori e le altre sindromi culturali (Ranieri, 2015).

Tra i tanti psicologi che si sono occupati di questa patologia, ricordiamo il giapponese

Yuichi Hattori che ebbe in cura 18 pazienti a cui venne diagnosticata la Hikikomori e che,

nel 2001, presentò la sua teoria alla “International Society for the Study of Dissociation”.

Siccome molti Hikikomori soffrivano di un disturbo post traumatico da stress senza aver

subito traumi, egli ipotizzò che tale sindrome fosse la conseguenza di genitori

emotivamente negligenti a causa dell’aumento del divario tra giovani e adulti che porta i

primi a vedere i propri genitori come “volti di pietra”. Hattori distingue tra hone e tatemate,

cioè tra il sentimento reale e l’azione, per descrivere la relazione genitori-figli: l’abitudine

a non far trasparire le emozioni non permette ai figli di comprendere i reali sentimenti dei

genitori poiché le loro azioni non corrispondono alle aspettative dei giovani figli. La teoria

di Hattori ricorda l’idea, ormai superata, del “refrigerator mother” (madre congelata), che

attribuiva l’autismo ad una madre distacca nel rapporto con il figlio (Tiffany, 2003).

2.1 Le influenze sociali e culturali sulla Hikikomori

Come Sakamoto e colleghi (2005) sottolineano nel loro studio sulla sindrome Hikikomori,

le società collective-oriented, nelle quali, come accennato in precedenza, la vita in

società è determinata dalla famiglia, le persone sentono la necessità di conformarsi,

correndo il rischio di perdere il proprio Sé autentico, cioè di reprimere i propri desideri

anticonformisti, per evitare di crearsi un’immagine negativa all’interno della comunità a

cui appartengono. Un modello sociale e culturale orientato alla collettività implica,

Dettagli
A.A. 2017-2018
23 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-PSI/06 Psicologia del lavoro e delle organizzazioni

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher valentinadelise di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Psicologia del lavoro e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Torino o del prof Cortese Claudio Giovanni.